Speciale

Due insegnanti replicano ai professori universitari / Non sanno

Non sanno niente

Andrea Giardina

 

“Non sanno niente”. Chi frequenta le malinconiose aule scolastiche sa che l’espressione è probabilmente la più ricorrente tra gli insegnanti. Una parola d’ordine, quasi un refrain, recitato talvolta con sofferta pietà nei confronti delle misera insipienza, talaltra con acrimonia appena rattenuta verso i guasti dei tempi e, in aggiunta, con un certo sottile compiacimento per la certezza di non essere parte della volgare schiera. Ma l’accusa di ignoranza crassa ricorre soprattutto in una circostanza. Si tratta di quella dolente fase d’avvio del percorso scolastico che, complici le ineffabili imprecisioni del sistema, si protrae almeno fino a Natale.

 

È questo il momento in cui i Consigli di classe si compattano per esprimere gli esiti dei test d’ingresso, da cui risulta, invariabilmente, la seguente trafila: chi ha fatto ingresso nella scuola secondaria di secondo grado dà l’impressione di avere abissali lacune, chi si iscrive alla scuola secondaria di primo grado sembra non essere mai stato scolarizzato. In qualche occasione, per personale esperienza, mi è occorso di sentire maestre della scuola primaria rivolgere le medesime accuse alle colleghe della scuola dell’infanzia. Ma non solo, anche all’interno delle stesse scuole si esprime una simile condanna quando si transita da un segmento all’altro, su tutti il “salto” tra biennio e triennio, ma anche, con una certa frequenza, da un anno di corso a quello successivo e, ancor più, da un indirizzo all’altro. Non parliamo poi dello studente che cambia scuola: mai che arrivi con una preparazione appena decente. Da tempo la lamentela si è estesa alle aule universitarie, dove, come ultimo atto di pochi giorni fa, si è arrivati a dichiarare l’irresistibile declino delle capacità espressive dei discenti, la gran parte dei quali non conosce nemmeno nei fondamentali la lingua madre e, di fatto, conclude il percorso triennale in situazione di semi-analfabetismo, aggiungendosi alla zoppicante scrittura una ancora più incerta capacità di comprensione dei testi.

 

Ph Bert Hardy. 

 

Il paese è bene che se ne renda conto, siamo sull’orlo dell’abisso (o forse ci siamo già abbondantemente caduti dentro). A firmare l’appello sono 600 professori, scrittori, intellettuali, ecc. ecc. 

Anche se la questione è dolorosamente intricata, da quanto detto sopra emerge che almeno qualcosa, nelle scuole nostrane, non funziona. Il forbicìo di lamenti che si alza ovunque, magari il dubbio in chi osserva lo fa appena spuntare: se tutti sono colpevoli, non è che forse la categoria docenti abbia qualche (minima, scusabilissima s’intende) responsabilità? Che magari si sia sbagliato a non insistere con lo stesso accanimento di una volta su certe noiosissime pratiche, quali il dettato alla scuola primaria? O il tema, già dai primi anni di scuola? O la correzione sistematica delle prove scritte in ogni loro parte (e so quanto è stancante l’intervento su “quelle cose” che a tutto assomigliano fuorché a un testo)? Insomma, se ci fossero meno “crocette” dei test “vero/falso”, meno pretese di oggettività, forse (forse!) la frana non sarebbe così estesa. 

 

E, visto che ci siamo, non è che la categoria ospiti troppe mezze figure, gente che alligna galleggiando con qualche formula imparaticcia, senza mai aver davvero letto un libro vero? Si sa che nei grandi numeri ci sta tutto: ma non sono un po’ troppi, nel nostro stralunato paese, gli insegnanti impreparati, velleitari, indifferenti a tutto, sconfortati e, ahimè, del tutto sottratti a qualsiasi possibile forma di valutazione del loro “operato”? 

Ma poi sorge un altro dubbio, che da sempre mi accompagna, e che non troverà mai una risposta. Si può davvero insegnare a scrivere a scuola? Oppure si tratta di un’abilità che si apprende anche a scuola (all’inizio soprattutto, in minima parte nelle scuole superiori), ma che poi fondamentalmente si riesce ad acquisire perché si cresce in un certo contesto, perché magari in casa circolano anche dei libri e vengono pure letti e rimane addosso quel qualcosa da dire che prima o poi comparirà e permetterà di esprimersi con efficacia?

 

Certo che, se così fosse, il quadro risulterebbe ancora più desolante, perché, al di là di rare eccezioni, in qualsiasi ambiente si cresca oggi, appare evidente il sottile discredito che si nasconde nei confronti della parola scritta, del libro, dell’intellettuale stesso (ammesso che si abbia il coraggio di usare ancora questa parola che qualche brivido in effetti lo fa venire). Un clima di sfiducia, fatto di sensazioni miste tra la noia e la lentezza, che certamente non godono di buona stampa. Un clima che porta il docente (altro termine su cui riflettere) a essere messo quasi sistematicamente sotto accusa perché del mondo sembra rappresentare il versante vecchio, e da lui ci si aspetta, più che altro, il lasciapassare per poi finalmente cominciare la vera vita che, secondo il più rancido dei luoghi comuni, “è altra cosa”. Un clima che, sia detto, è anche favorito da un certo modo di porsi di chi le idee le ha (per non riusare il termine intellettuale), della spocchia con cui ci si confronta col mondo degli altri, quello di chi non ha Barthes e Lacan sugli scaffali e non fa vacanze rarefatte confrontando l’alba con il disincanto della post-umanità. 

 

 

Umilissima risposta di un insegnante sconosciuto agli Illustri Seicento

Alessandro Banda

 

Sono un insegnante. Da ben venticinque anni insegno l’italiano nelle scuole superiori. E, in quanto tale, rimango profondamente stupito davanti all’ormai celebre lettera dei seicento professori universitari che lamenta l’incapacità degli studenti in relazione allo scrivere, allo scrivere in buon italiano.

Gli studenti dunque non sanno scrivere. Ignorano la sintassi. Producono frasi aggrovigliate. Confuse. Indecifrabili. Non si capisce cosa vogliano dire. Sia pure. Ma, mi permetto umilmente di dire io, ve ne accorgete adesso? Mi pare di ricordare che simili lagnanze venissero fatte anche nei lontani tempi in cui ero studente universitario anch’io. Anzi, rammento precisamente che un mio professore, l’insigne cattedratico Gianfranco Folena, eccellente storico della lingua italiana della gloriosa Università di Padova, lamentava le stesse carenze espressive degli studenti, dei suoi studenti: non sapete scrivere, diceva, non si capisce cosa intendete significare. E proferiva tali sconsolate considerazioni, con il suo poderoso vocione, in sede di seminario. E il seminario verteva sui libretti giocosi del Goldoni, di cui il summenzionato Folena era un notorio specialista. Si era nell’anno accademico 1982-83. Già all’epoca quindi i frutti delle fatiche scrittorie degli studenti (nella fattispecie le nostre esercitazioni goldoniane) provocavano reazioni desolate da parte dei docenti universitari. Cito il mio caso personale, ma sono sicurissimo che non fosse affatto isolato.

Adesso che sono un insegnante e, ripeto, lo sono da venticinque anni, dovrei sentirmi in colpa. Dovrei accusare me stesso. Potrei anche farlo, non mi costerebbe nulla, ma non lo faccio invece. Non credo proprio che sia colpa mia. Non credo nemmeno che sia colpa della scuola. Tutt’altro. Io credo con fermezza che la scuola italiana svolga egregiamente la sua funzione. Si tratta solo di capire qual è, questa funzione della scuola italiana (parlo soprattutto delle medie, inferiori e superiori). Intendo naturalmente la funzione reale della scuola, non quella dichiarata.

Tutte le istituzioni posseggono queste due funzioni, una reale e l’altra dichiarata.

Prendiamo per esempio il carcere. (Uso quest’esempio per il semplice motivo che innumerevoli studentesse e studenti associano immancabilmente la parola scuola alla parola galera o prigione o, per l'appunto, carcere).

 

ph. Arturo Zavattini

 

Orbene, il carcere ha una funzione dichiarata che sarebbe, a norma di costituzione, quella educativa o rieducativa. Esso dovrebbe redimere il criminale, rieducandolo (in ossequio a certi principi illuministici enunciati proprio dal Beccaria, di cui si veda il capitolo quarantacinque della sua celebre operina; specifico, per gli studenti ignoranti, che si tratta del libro uscito nel 1764 Dei delitti e delle pene che, all’epoca, godette di una certa notorietà; oggi invece va sicuramente più di moda Sofia Viscardi).

Tutti sanno che la funzione reale del carcere è esattamente opposta a quella dichiarata. È una frase fatta, ma è anche, purtroppo, una realtà che il carcere è un’università del crimine. Recentissimi accadimenti di cronaca nera lo hanno testimoniato ampiamente.

Allora, tornando alla scuola, da un lato essa possiede una funzione dichiarata che è quella, che so, di trasmettere sapere, conoscenze o, come si dice oggi secondo lo slogan più corrente, competenze. Qualcuno si spinge addirittura a sostenere che essa avrebbe anche una funzione educativa (esagerato!) o persino che essa dovrebbe alimentare nello studente lo “spirito critico” (illuso!).

Ma, dall’altro lato, essa scuola ha una funzione reale, ripeto reale, completamente diversa.

La funzione reale della scuola italiana contemporanea è triplice. O, per essere chiari (sempre in riferimento agli studenti analfabeti di cui sopra che potrebbero magari sgomentarsi davanti all’insolito aggettivo triplice) le funzioni della scuola sono tre.

La prima è quella che presiede alla formazione e al funzionamento, tendenzialmente e illimitatamente autoreferenziale, di un enorme apparato burocratico-amministrativo. La scuola è dunque innanzitutto questo macchinone, questo mostruoso organismo burocratico, che dà lavoro e nutrimento a una folta schiera di impiegati, funzionari, ispettori eccetera. Il che è certo una cosa buona.

La seconda funzione è quella che si potrebbe definire la funzione-parcheggio o area di sosta. È quindi, la scuola, un grande, vasto, estesissimo parcheggio per giovani, giovanetti, adolescenti e fanciulli, che altrimenti non saprebbero dove andare e che, soprattutto, i loro genitori non saprebbero dove collocare adeguatamente. E anche questa è una cosa buona. Senza parcheggi non si può vivere.

La terza funzione è quella che tutti negano. Chiunque parli di scuola esordisce infatti sempre con la premessa: la scuola non è un ammortizzatore sociale. Oppure: la scuola non dev’essere un ammortizzatore sociale. O anche: la scuola non sia un ammortizzatore sociale (congiuntivo esortativo, specificazione valevole per gli studenti di cui sopra). Non serve aver letto Freud e il suo famoso saggio sulla negazione (Verneinung) per capire che invece è proprio così, la scuola; che a questo serve: ammortizzatore sociale.

Anch’io ne usufruisco con gratitudine da venticinque anni. Lo so che a molti potrebbe non interessare, ma dovrò pur mangiare, poco e parcamente, anch’io. Che diavolo potrei fare senza la cara, buona, vecchia scuola? Come sbarcherebbero il lunario tanti laureati e/o dottori di ricerca in Italia? E sono i più fortunati quelli che, in quella spietata lotteria ch’è la ricerca d’un lavoro in Italia, finiscono nella scuola.

Naturalmente non è affatto escluso che, a scuola, ci siano pure ottimi insegnanti che insegnano e eccellenti studenti che studiano, ossia persone che onorano il verbo di cui il loro nome è participio presente.

Ma questa è una funzione secondaria, della scuola. Un suo, per dir così, epifenomeno (studenti, consultate un dizionario filosofico!). Per questo motivo nei test internazionali (PISA) l’Italia da anni fa ben magre figure. Ma, ripeto, non è suo scopo principale quello di fornire competenze nella lettura, scrittura o calcolo. I suoi scopi primari, come ho cercato di spiegare sopra, sono altri.

Mi scuso per questo mio umile sfogo e grazie per la, eventuale, attenzione.

Cordialmente.

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