Architettura condivisa

18 Novembre 2014

Ho letto l’open_book di Carlo Ratti (con Matthew Claudel) Architettura Open Source con una domanda sempre più assillante: ma se fossi ammalata e dovessi farmi operare, vorrei al capezzale del mio letto operatorio un chirurgo di riconosciuto curriculum o una pletora di consiglieri globali dalle più variegate esperienze pronti a intervenire sui miei malanni?

 

Il chirurgo indubbiamente; tuttavia sarebbe anacronistico trascurare la possibilità che tra gli anonimi consiglieri ci possano essere altrettanti chirurghi in grado di contribuire alla risoluzione del problema.

La rete è un luogo straordinario, ma non trasforma me in un chirurgo né qualcuno in un architetto se non ha studiato per diventare tale.

Questo è il primo equivoco che il libro dovrebbe sciogliere: per essere architetti (nella sua più ampia accezione) serve aver studiato in una scuola apposita, aver conseguito una laurea e, per professarne il mestiere, anche aver superato un esame di Stato.

Occuparsi di architettura invece è una questione che deve coinvolgere tutti e il distacco di un popolo dalla sua cultura architettonica è una perdita incommensurabile, pertanto qualsiasi forma di apertura e coinvolgimento sono comunque benvenuti.

 

Il fatto che in Italia lo studio dell’architettura rientri tra le discipline umanistiche ha contribuito a confondere, forse più che altrove, i ruoli. Il coinvolgimento degli architetti nella produzione di visioni, di scenari, di storie prima ancora che di layout distributivi e schemi strutturali è sempre stata pratica corrente.

Ma le visioni hanno bisogno di un palcoscenico per diffondersi e su di esso gli attori principali sono stati finora gli stessi: una committenza illuminata e potente capace di derogare a qualsiasi regola; un progettista volitivo in grado di imporre la propria visione travestita da esegesi sociale.

Le visioni non sono un atto democratico e spesso sono chiare solo alla fine: si sa dove arrivare, ma non si sa come né quando.

 

Nel libro, il rappresentante di architetto prometeico del XX secolo è incarnato da Le Corbusier che, anche se sicuramente fu più arrogante di altri, semplicemente seppe scegliersi i propri committenti e soprattutto seppe comunicare con i media del suo tempo meglio di chiunque altro.

Le Corbusier capì che nel XX secolo l’architettura sarebbe esistita nell’immanenza dei suoi edifici, ma soprattutto nel racconto delle sue visioni. Il rapporto con le riviste e i media fu il cavallo di Troia per entrare, raccontare e accreditare le proprie visioni presso il maggior numero di imprenditori e intenditori.

 

Il tema del racconto e dell’accreditamento dell’architettura è centrale non solo nei contenuti del libro Architettura Open Source, ma anche nel suo apparato scientifico e autoriale. L’architettura finora è stata accreditata dalle riviste all’interno di un circuito di reciprocità, spesso ottuso e autoreferente.

Niente come le riviste e l’editoria tradizionale è stato più complice nell’aver osannato mediocri e oscurato geni, per convenienze lobbistiche, per assicurarsi sponsor e pubblicità (evidente nel design), per semplice pigrizia intellettuale. In questo senso l’apertura dell’architettura alla rete ha reso cortomirante la selezione elitaria tra pochi progetti e ha favorito un numero sempre crescente di voci fuori campo, di testimonianze laterali e impreviste.

 

Bernard Rudofsky, Architecture without ArchitectsBernard Rudofsky, Architecture without Architects

 

Oltre al rapporto strategico con i media della comunicazione, già dalle prima pagine, il libro affronta un altro tema scottante: il rapporto tra architettura e committenza.

Si cita La fonte meravigliosa di Ayn Rand perché difendeva il “genio ispirato” dell’architetto contro la “ottusa mediocrità” dei loro committenti, quando invece verrebbe da affermare esattamente il contrario, ossia che la buona architettura è generata in prima istanza da un’ottima committenza e poi anche da buoni architetti.

Chissà se il declino della committenza “geniale e ispirata”, che in Occidente è coincisa con l’estinzione della borghesia, potrà essere sostituita da un coraggioso crowd funding. Spero di sì.

 

Il libro, citando Architettura e potere di Dejan Sudjic – che gli studenti dovrebbero leggere come propedeutico ai corsi di storia dell’architettura – interpreta il fenomeno delle archistar. Se ne evince che non si tratta di una perversione culturale interna al mondo dell’architettura, ma di una deviazione nel rapporto politico tra media compiacenti e poteri finanziari per i quali l’architettura deve essere prima di tutto fotogenica. Non è un caso che i prodotti architettonici più “reclamizzati” siano i flagship store dei grandi brand della moda.

Per incoronare le archistar globalmente è necessario un consenso altrettanto ampio, ma soprattutto un gusto condiviso, quello di un’unica elite diffusa che veste gli stessi marchi, che scarica le medesime app, che legge i medesimi blog, che twitta e retwitta in una conversazione incessante, che è mobile ma non in movimento perché pur viaggiando ovunque risiede sempre dentro spazi identici, esclusivi, disseminati nel mondo.

 

Perché l’architettura sia open il libro deve affrontare un altro equivoco in merito all’architettura: l’autorialità.

Pare che sia stata colpa del Vasari che, nelle sue Le Vite de’ più eccellenti Pittori, Scultori, e Architettori, ricondusse alla genialità di un singolo la creazione dell’opera. Eppure a Vasari capitava sicuramente di entrare nelle botteghe piene di operai che lavoravano a stretto contatto con l’artista proprio come adesso accade entrando in uno studio di architettura di media/grande dimensione pieno di gente di tutte le età e le culture intente a lavorare su progetti a firma dello studio per cui lavorano. L’autore, allora come oggi, era il riferimento per tutti, era un marchio e non necessariamente una persona fisica.

La questione vera dell’autorialità, non sta però nel nome che firma, ma nella forza carismatica della visione unita all’assunzione di responsabilità: potere e responsabilità sono la cifra di un autore che sia individuale, aziendale, collettivo.

 

Per il libro, l’antagonista dell’idea vasariana di autore è la mostra Architettura senza architetti del 1965 al MoMA di New York, curata da Bernard Rudofsky. Ma il curatore non aveva forse in mente una crociata contro gli illustri colleghi, quanto la sensibilità e l’urgenza di mostrare quell’architettura progettata anonimamente, senza firma, e voleva far riconoscere quel rapporto negato tra la forma dell’architettura e l’abitare che aveva dato forma a opere ugualmente straordinarie.

Le esperienze degli anni Sessanta cercarono di legittimare la progettualità dal basso e la teorizzarono anche in un saggio sulla teoria del Non Plan.

Gli architetti Smithson volevano addirittura restare anonimi, anche se questa scelta rimase un puro esercizio retorico considerando che le opere degli Smithson sono riconosciute con il loro nome nonostante le intenzioni.

 

Bernard Rudofsky, Architecture without ArchitectsBernard Rudofsky, Architecture without Architects

 

La figura dell’autore permane cardinale tanto in un’opera collettiva nel XX secolo quanto nell’era digitale: se dico Apple penso a Steve Jobs; se dico facebook penso a Mark Zuckerberg, se dico Arduino penso a Massimo Banzi.

Cosa cambia allora se dietro a ognuno di questi nomi c’è un singolo nome o righe di collaboratori? A chi interessa se si tratta di Zuckerberg o di Zaha Hadid? Cosa importa se il libro è scritto da Carlo Ratti con altri 15 curatori, se poi comunque per comprare il libro su Amazon devo digitare il nome di uno solo?

L’autore collettivo ha comunque la necessità di eleggere all’interno di un “comitato di autori” tutti uguali, una voce che le rappresenti e quella rimane il referente nella testa delle persone e quella, volente o nolente, rimane la voce “più uguale delle altre”.

 

La questione dell’autorialità riguarda inoltre l’interpretazione dell’architettura come espressione creativa e/o come servizio: nel primo caso porta la firma stilistica dell’autore, nel secondo diventa offerta di competenze a un committente o una comunità.

Se la maggioranza delle utopie dal basso degli anni Sessanta furono un fallimento architettonico, nel contempo esse furono straordinari esercizi sul futuro, anticipazioni del nostro presente. I progetti di Cedric Price, di Takis Zenetos, dei Metabolisti, ma anche del più composto Giancarlo de Carlo, suggerirono visioni potenti alle generazioni di architetti futuri come i racconti di Jules Verne lo furono per generazioni di giovani lettori.

Fu nel tentativo di concretizzarsi che molte utopie si trasformarono in mediocri compromessi, in ipocrite formulazioni di esperanto architettonici, in burocratiche costruzioni di buon senso che annoiarono gli innovatori e glorificarono i pedanti.

 

Sarà la rete con le sue dinamiche collaborative a introdurre i parametri mancanti alla fallita partecipazione?

La rete ci ha già insegnato che se siamo generosi nella vita reale, probabilmente sappiamo condividere anche in quella virtuale; che l’economia della reputazione ci entusiasma quanto quella del capitale; che il baratto ci convince più della finanza; che internet è una gigantesca banca del tempo; che ci piace di più essere “investitori” dal basso di una buona idea che pubblico pagante di un brutto spettacolo; che qualsiasi progetto in rete è una forma vivente in grado di essere revisionato, corretto e aggiornato in continuazione; che la condivisione funziona bene quando aderisce all’etica del villaggio di nudisti: se vuoi entrare ti svesti anche tu, altrimenti sei solo un guardone e stai fuori.

 

Poi arriva la domanda cardinale del libro: “dov’è il Linux delle abitazioni, degli uffici e delle biblioteche?”.

Il copyleft; le creative commons, Arduino, la maker-bot, la Free Beer, la RepRap più che risposte sono ridefinizioni della domanda vera, ma forse mi sbaglio.

Quello che emerge di straordinario è che la rete è più pop di Warhol e la replica, la copia, la reiterazione, la declinazione aggiungono, anziché togliere, al progetto, secondo la nuova formula “più mi copi, più esisto (almeno nella rete)”.

 

In architettura i primi esperimenti sono anch’essi in rodaggio (anche se alcuni hanno quasi 10 anni): l’OAN (Opensource Architecture 2006) di Cameron Sinclair, che teorizza collaborazioni disciplinate tra progettisti online (open 24 hours), disseminati in giro per il mondo in grado di rispondere/revisionare in tempo reale alle esigenze; Wikihouse, che nel 2013 un giovanissimo Alaistar Parvin presentò a un TED in cui si mette a disposizione una library di progetti generati dagli utenti, da stampare, tagliare e assemblare; poi ancora Brickstarter, Godeo, Estate Guru.

Il libro non risponde, racconta, inizia soprattutto a identificare i “punti” di fragilità, quelli da fortificare, perché da questa straordinaria rivoluzione in corso anche l’architettura tragga finalmente beneficio.

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