Minerva e lo scimmione

15 Luglio 2015

Nel 1917 Ettore Romagnoli, grecista noto all’epoca soprattutto per le sue brillanti traduzioni di Aristofane, poi accademico d’Italia e tra i più attivi fomentatori delle politiche culturali del fascismo, pubblicò Minerva e lo scimmione, nel quale in piena guerra mondiale attaccava la filologia classica tedesca e i suoi seguaci italiani (dei quali il più noto era Girolamo Vitelli) teorizzando l’impotenza della razza germanica nello studio dei classici greci e latini. Il prendersela con l’antichistica d’oltralpe era del resto da noi un’abitudine consolidata: di quella méthode, che per prima applicò criteri scientifici all’indagine letteraria, si diceva che anatomizzava i testi e gli autori antichi con la spietatezza del medico che uccide il paziente, e che era una barbarie da pedanti tipica di un popolo incapace di sentire la bellezza. Questo privilegio era invece concesso alle stirpi latine, e in particolare all’italiana, che alla conoscenza univa il sentimento, il senso estetico, la profonda comprensione e compassione che nasce dal sentirsi tutt’uno con l’oggetto di studio. Nella copertina del libro Minerva, ovvero la Grecia, respingeva il brutale abbraccio di un gorilla dal ghigno osceno, che simboleggiava la Germania.

 

Oggi, su temi più adeguati ai tempi (si parla di soldi, non di letteratura) sembra tornata di nuovo la contrapposizione fra i popoli che inseguono l’anima immortale e quelli devoti alla ragione e alla materia, con la Grecia tutta intera a fare la parte del paziente brutalizzato dal bisturi tedesco. Dilaga la retorica, che in molti casi è solo propaganda, di chi si oppone al rigore richiamandosi ai più usurati luoghi comuni della Grecia come luogo di nascita di più o meno tutto quel che c’è di buono in Europa, mentre in Germania aleggerebbe ancora lo spirito di Arminio e i fantasmi della carneficina di Teutoburgo a chiedere vendetta. In un senso più ampio l’odio, la diffidenza e l’invidia astiosa per la Germania, nazione che secondo la voce comune si può stimare ma non amare, fanno parte di uno dei più tipici cliché europei.

 

 

Prendiamo l’Italia ad esempio: pur avendo condiviso con i tedeschi pezzi importanti e spesso imbarazzanti della propria storia, ha sempre avuto un grande talento nello schivare l’ultimo disastro, oltre a una spiccata propensione a perdonarsi tutto. Alla vigilia della Prima guerra mondiale con un ammirevole giro di valzer trasformò la Germania da alleato in nemico, e qualcosa di simile accadde nell’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Non è difficile prevedere, se ne intravedono già le premesse, la prossima piroetta per divincolarsi dall’abbraccio con lo scimmione teutonico nel caso in cui la situazione lo richiedesse, come è possibile e, al punto in cui siamo, anche auspicabile.

 

Su un altro fronte, negli ultimi tempi si ingrossano le file dei professionisti dell’anticlassicismo, di chi cioè si diverte a prendere di mira gli stereotipi della Graecia felix con qualche reminiscenza dai libri di storia del liceo: ecco dunque i distinguo sulla democrazia ateniese, privilegio di una élite e perciò stesso incompatibile con l’idea moderna di democrazia, e poi lo schiavismo, le tirannidi e via dicendo. Per quanto mi riguarda, questa è una retorica molto più fastidiosa di quella degli entusiasti, prima di tutto perché pretende di dire la verità senza fatica, cosa che, per quel poco che ho imparato, è pressoché impossibile. Il ditino alzato spesso si accompagna al sorriso arrogante di chi crede di saperla lunga, mentre invece non sa, o fa finta di non sapere, che la democrazia è un concetto scivoloso per natura, lo era anche per gli antichi, e che noi stessi abbiamo convissuto e continuiamo a convivere con tali e tante limitazioni del diritto individuale e collettivo che se riuscissimo a vederle da fuori sono convinto che fremeremmo di sdegno.

 

Il fatto è che la retorica, in pace e ancor più in guerra, è inseparabile da ogni discorso sulla Grecia. È inutile cercare di sfuggirla: ce la ritroviamo sempre sulla bocca o nelle orecchie, e divincolarsi è ancora peggio, perché i nodi si stringono e ci si intriga ancora di più. La retorica sulla grecità è inversamente proporzionale al peso politico della Grecia. Quando la lega di Atene e Tebe venne battuta dall’esercito macedone nel 338 prima di Cristo, la Grecia diventò il punto di partenza per la conquista del mondo, non più con le armi, ma con il suo stesso mito. Il console Tito Quinzio Flaminino nel 197 sconfisse a Cinocefale Filippo di Macedonia, e ai giochi istmici dell’anno successivo proclamò solennemente la libertà della Grecia. Cinquant’anni dopo un altro console, Lucio Mummio, chiarì l’equivoco radendo al suolo Corinto. Nel 27 a. C. Augusto trasformò la Grecia in una provincia col nome di Acaia; cento anni dopo, sempre a Corinto, Nerone volle ringraziare la sua patria dello spirito donandole ancora una volta la libertà, sotto forma di esenzione dai tributi; privilegio che l’oculato Vespasiano annullò appena salito al trono. Questa è stata da sempre la modalità pressoché unica di rapportarsi con la Grecia: riconoscenza, studio e amore per tutto ciò che ha prodotto nei secoli, e al tempo stesso la più spietata realpolitik, magari nascosta sotto il paludamento della causa nobile. La Guerra d’indipendenza greca gonfiò le lacrime e il cuore della migliore intelligenza europea. Si piangeva sull’Ellade in catene ai piedi del turco, finché con l’aiuto di un esercito francese, inglese e russo quelle catene vennero spezzate e la Grecia tornò libera, alla maniera solita. Il primo re imposto ai suoi cittadini fu per l’appunto un tedesco, Ottone di Wittelsbach, che appena salito al trono alzò le tasse per onorare i debiti contratti, occorre dirlo?, con le banche, e i greci si accorsero che la libertà occidentale era più dura della schiavitù ottomana. Nello stesso periodo l’Europa, finalmente libera di muoversi a piacimento per l’Ellade, si spartiva i luoghi santi della classicità a colpi di concessioni di scavo: Olimpia andò ai tedeschi, Corinto agli americani, Delfi ai francesi, Eleusi agli inglesi, Festo e Gortyna agli italiani, e così via.

 

 

Come si spiega questo paradosso della Grecia calpestata, umiliata, depredata, e al tempo stesso modello di civiltà per tutte le nazioni europee? Si spiega distinguendo una volta per tutte fra Grecia e grecità. La Grecia era morta, ma la grecità era viva e prosperava, e non solo nel senso quasi puramente decorativo che conosciamo oggi. Sconfitta in patria, svuotata di ogni reale peso politico, la Grecia se ne andò dalla Grecia come da una casa ormai in rovina, divenne paidèia e si disperse per il mondo. Per prima cosa trovò rifugio a Roma, et artes intulit agresti Latio. Per quanto ci si possa accanire elencando i caratteri originali del genio latino, è indubitabile che tutto quello che noi siamo, il concetto più alto che noi abbiamo dello stare al mondo, è il frutto di questa prima, potente ibridazione, molto più di qualunque radice cristiana (se non per quanto essa stessa deve all’antica humanitas). Ma la nazione che più di ogni altra contribuì a creare l’ideale della perfezione greca, e a fare della Grecia una funzione essenziale nello sviluppo della civiltà europea, fu proprio la Germania. Dal neo-umanesimo wolfiano a quello jaegeriano, la Grecia, portata ad altezze quasi sovrumane, fu il modo in cui la Germania volle purificarsi il sangue dal veleno del proprio medioevo, proponendosi come interprete privilegiata di quel mondo e quasi come sua reincarnazione.

 

Tornando allora alla polemica fra pedanti e geniali brevemente richiamata in principio, non occorre aver fatto studi specifici per sapere che proprio la filologia classica tedesca è alla base di ogni acquisizione di metodo e di contenuto che si è avuta rispetto al mondo classico dalla metà dell’Ottocento in poi. Che per lungo tempo, e in parte ancora oggi, non è stato possibile muovere un passo senza i poderosi sussidi di studio approntati da un esercito di studiosi di diversa indole e valore; che è soltanto grazie a quella filologia, l’unica realmente europea, che l’Italia poté recuperare dalla fine dell’Ottocento in poi la distanza che la separava dalle altre nazioni colte, sbrogliando i piedi, seppure a fatica e non del tutto, da una palude fatta di attardato neo-umanesimo, romanticismo d’accatto, idealismo anti-scientista e spirito risorgimentale unito al più becero nazionalismo. Nel bene e nel male, l’immagine della Grecia che qualunque persona colta ha ancora oggi, quella stessa idea di Grecia usata da molti per demolire la Germania, è nata in gran parte proprio in quelle terre scarse di sole. Questo scambio continuo fra i due popoli è un dare e un avere che le banche non potranno mai gestire.

 

Questa Grecia fuori dalla Grecia, nella forma proteiforme e contraddittoria appena ricordata, piena di luci e ombre e gravemente compromessa con la contemporaneità, da tempo, nel bene e nel male, dovrebbe chiamarsi semplicemente Europa. Giorgio Pasquali in Filologia e Storia, un testo esemplare nato proprio come risposta a Minerva e lo scimmione, scriveva: “L’autore […] mentre giudica concetto assurdo quello di Stati ai quali dello Stato manchi l’attributo essenziale, la sovranità, crede all’unità dello spirito europeo, dello spirito umano. […] Egli crede alla Weltkultur e in certa misura alla Weltliteratur. Una Weltliteratur c’è dal giorno nel quale l’uomo colto romano, senza rinunciare all’uso della lingua latina, studiò il greco, sentì i capolavori greci, li imitò”. Da allora, non è greco chi è nato in Grecia e abita in Grecia, ma chi si comporta da greco, ovunque si trovi, anche su Marte, anche in Germania. La Germania ha lo stesso diritto di chiamarsi Grecia della Grecia stessa, così come l’Italia, la Francia, la Spagna. Purché, appunto, si comporti alla maniera greca.

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