Speciale

Attentato o guerra?

19 Aprile 2015

Dal barbiere

 

Nella poltrona di fianco alla mia un bellimbusto barbuto (alla Francesco I) si crogiola tra il barbiere che si dà da fare e la manicure che armeggia con le sue mani molli e abbandonate. La conversazione è generale, partecipa tutto il salone. A un certo punto sento una frase molto chiara, ben formata, come una massima: «Io ho un metodo per domare sia i cani che le donne. Ma con le donne è più difficile». La manicure e la cassiera sembrano estasiate, sia che ci tengano a sottolineare la buona battuta, sia  che si sentano lusingate di avere più carattere dei cani, sia più semplicemente perché assaporano il comfort dello stereotipo. L’uomo in effetti ha un cane, dolce e triste, seduto con aria frettolosa su una poltrona dietro di lui: «L’ho preso a quattro mesi, non mi ha mai lasciato da cinque anni», dice con la soddisfazione del padrone amato (perché i cani, spesso così nobili, non si accorgono dell’imbecillità dei loro padroni?). Qualche giorno dopo leggo su Libération il seguente annuncio: «Tu, donna! Sei la dea e la padrona del mondo, noi altri ragazzi sbaviamo per voi, e voi non siete altro che cagne! Chi saprà mostrarmi che l’amore esiste ancora?»

 

 

Sirene

 

Di tanto in tanto, il giovedì, a mezzogiorno, si sentono le sirene. È solo rumore bizzarro tra il ricordo molto lontano della drôle de guerre e un futuro vago, che sarebbe orribile da immaginare: ma non lo si immagina, i Francesi non hanno più paura della guerra: hanno paura… dei ladri.

 

 

Lo sgambetto

 

Una signora è stata aggredita in un parcheggio, volevano strapparle la borsetta. Fortunatamente c’era suo marito: «Ho gridato a mia moglie: picchialo con l’ombrello!» L’uomo ha mollato la presa ed è scappato: «Fermatelo! Fermatelo!» Un coraggioso passante ha fatto lo sgambetto al malfattore che è crollato per terra, dopo di che è stato facile prenderlo. Sollevo il capo dal giornale e comincio a sognare. Sogno Le mille e una notte in cui ci sono molti ladri, mi sembra, ma non un solo sgambetto. Allora mi dico che l’arte dei grandi racconti, dei signori racconti, è forse incompatibile con l’infamia, la piccola infamia dei coraggiosi passanti: c’è una nobiltà del racconto, che può raccontare i grandi tradimenti, ma assolutamente non le meschinerie della brava gente (è l’attestato di benemerenza decretato dal commissario di polizia agli attori della scena).

 

 

Giapponese

 

Una volta di più (benché il pomeriggio sia grigio e freddo fino all’oscurità), un giapponese senza età fotografa lo sfondo della Concorde, verso i tetti lontani e nutri del Grand Palais (a dire il vero, non c’è un gran che da vedere). Domanda: i giapponesi guardano qualche volta, e nel corso di quali rituali, le fotografie che li vediamo prendere senza sosta? Si indovina che è l’atto che li appassiona, non si è sicuri che sia il prodotto. E in questo sono forse molto moderni: lasciar svanire l’immagine a beneficio della sua cattura.

 

 

Ciliegie

 

Al mercato di Saint-Germain ho trovato delle ciliegie (vengono dall’Australia). Qualcuno mi dice che anche al mercato di Buci, che è ancora più popolare, ci sono, adesso, dei frutti fuori stagione. Anche se questi prodotti restano cari, molto cari, è in ogni modo un po’ Fauchon nella strada. Ma non è l’enigma economico che attira la mia attenzione, è piuttosto il fatto che il progresso tecnico (far venire della frutta dagli antipodi in poche ore) priva a poco poco l’uomo del giusto ritmo delle stagioni (del loro tempo [in italiano nel testo]) – credendo di far bene – gli nega un piacere, quello dell’alternanza: perché forse ce n’era uno nell’attendere la fine dell’inverno, nel veder spuntare, e poi sparire, nel rimpiangere le belle cose, mentre passano e ritornano. Fine della più grande delle gioie, quella del ritorno. Ormai, all’orizzonte, dei mercati senza primizie: passato il tempo delle differenze.

 

 

Il guasto

 

Questo martedì ho visto la lampada della mia cucina scintillare, indebolirsi, spegnersi. Subito sono partito alla ricerca di un nome: sciopero o guasto? Altri, a quanto pare, hanno pensato: attentato o guerra? Tutto ciò che fa breccia nell’equilibrio complicato della nostra vita comune tende così a ricevere immediatamente un nome che la richiuda: il linguaggio tappa i buchi, è questa la sua funzione. Un tempo il tappa-buchi era semplice: Dio, il demonio; oggi è molteplice e razionale, l’avvenimento è immediatamente polisemico, siamo entrati nell’era dell’interpretazione: un guasto non è mai un guasto, è uno sbaglio del governo.

 

 

Banale e singolare

 

Un’auto impazzita va a sbattere contro un muro, sulla periferica Est: è (ahimè), banale. Né la causa dell’incidente né i cinque occupanti, tutti giovani, morti o quasi, possono essere identificati: è singolare. Questa singolarità è quella di una morte che oserei dire perfetta, nel suo vanificare due volte ciò che può calmare l’orrore di morire: sapere chi e cosa. Tutto si richiude sul nulla, peggio, sulla nullità. Da ciò si comprende quella specie di riempimento accanito che la società elabora attorno alla morte: degli annali, delle cronache, una Storia, tutto ciò che può nominare e spiegare, dare una presa al ricordo e al senso. Inferno davvero generoso quello di Dante, in cui i morti sono chiamati col loro nome e commentati secondo i loro errori.

 

 

L'imperativo

 

Il caso vuole che io abbia ricevuto una dopo l’altra, a titolo di scherzo affettuoso (e ben intenzionato) tre o quattro ingiunzioni: “Non fumare più”, “Non essere triste”, “Non dimenticare gli occhiali” eccetera. Allora penso: e se si sopprimesse l’imperativo? Se gli uomini si dessero il potere di radiare dalla lingua tutti i morfemi repressivi? Sono sempre stato affascinato dalla storia seguente, che un amico aveva colto per me in un manuale di geografia: certe popolazioni australiane, alla morte di un membro della tribù, sopprimevano una parola dal vocabolario, in segno di lutto. Era far equivalere il linguaggio e la vita, affermare che gli uomini hanno ogni potere sulla lingua, che le danno degli ordini, invece di riceverne.

 

- Come sempre costruisci delle utopie che per di più hai la malafede di immaginarti a partire da informazioni che provengono dalla scienza (storica, etnologica e persino biologica: vedi quello che hai scritto qui sulla discontinuità del sistema nervoso e la complessità della comunicazione neuronica). Se un decreto del governo Barre sopprimesse l’imperativo, che immediata levata di scudi! E poi, soprattutto, questo modo sarebbe immediatamente sostituito nell’uso da mille altre forme di ingiunzione. D’altronde è quanto accade in almeno due dei nostri discorsi: quello della Legge (“è vietato”, “nessuno potrà”) e quello della cortesia, che usa delle circonlocuzioni (“avreste la compiacenza di”)

- Insomma sei formalista. È la forma imperativa che ti disturba.

- La forma è una traccia. C’è nell’imperativo una violenza che è ancora più manista quando ti è indirizzato per il tuo bene. Checché se ne pensi, l’imperativo è indice di una presa di possesso, è un desiderio di potere.

 

 

La vecchiaia mi commuove più dell'infanzia

 

Una donnetta anziana, vestita molto poveramente, voleva comprare un vasetto di orchidee. Costavano cinquanta franchi. Lei ha proposto una moneta da cinque franchi. Ho indovinato il malinteso e ho seguito la scena. Credendo che trovasse le orchidee troppo care, il giovane venditore le ha proposto di prendere un vaso di primule a trenta franchi. Stessa risposta. Lei non sapeva contare i nuovi franchi (e, forse, era anche un po’ sorda). Quando le si fu spiegato che facevano tremila franchi, anziché indignarsi del prezzo ha riso, ed a tirato fuori a fatica da un vecchio portamonete molto piatto tre biglietti spiegazzati. Durante tutto questo lungo maneggio, vedendo che la guardavo con simpatia, mi aveva parlato e preso a testimone della sua vita intera. Aveva ottantacinque anni, il cuore affaticato, aveva l’affanno, spesso era obbligata a fermarsi, ad appoggiarsi contro a un muro: «Ho lavorato, ho lavorato, lei non può sapere. Se non sono morta, è perché il lavoro non uccide. Non era come adesso, che si sta seduti su una sedia in un ufficio». Il vaso di primule lo acquistava per un’amica che veniva a trovarla ogni settimana da cinquant’anni. Mi sono trattenuto dall’offrirle dei fiori, per pudore nei confronti del venditore.

 

- Ma ha costruito un grazioso racconto, di un populismo perbene! Lavoro, pensione, anziani, carovita!

- Potrei risponderti (riprendendo le parole di un celebre rivoluzionario) che “i fatti sono testardi”. Ma in fondo, non è per una ragione politica che ho raccontato questa storia, è perché mi ha raccontato la cosa seguente: che io non credo ai fatti se non quando mi commuovono – e per questo so bene, dentro di me, da dove veniva l’emozione.

 

 

Da La cronaca, Comune di Reggio Emilia 1984. Traduzione di Paolo Fabbri e Isabella Pezzini.

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