Dell'arte di cacciare con gli uccelli rapaci

1 Agosto 2015

Roma, aeroporto di Fiumicino, 15 maggio 2015

 

Abdul Abulafia salì sul taxi che lo avrebbe portato a Città del Vaticano. Tra poco l’antico manoscritto sarebbe stato tra le sue mani.

Ottenere i permessi necessari per permettergli di sottoporlo ad un esame strumentale minuzioso non era stato facile, neppure per lo sceicco per il quale lavorava, ma alla fine la diplomazia aveva trionfato ed ora lui stava attraversando il cortile del Belvedere che dava accesso alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Sua meta il Salone Sistino, a lato del quale si apriva la saletta di consultazione che gli era stata riservata, dotata di tutta la strumentazione tecnica necessaria al compimento della sua missione, microscopi, alambicchi, computer et similia.

 

Ms. Pal. Lat. 1071, f.093v, dettaglio, (ph. BAV)

 

Castel del Monte, 23 aprile 1240

 

Stava sorgendo l’alba. Il miniaturista depose il calamo davanti a sé e si soffregò gli occhi stanchi. Aveva lavorato a quella pagina per tutta la notte al flebile chiarore di una lanterna, e ora, alla luce del giorno l’avrebbe ornata di miniature dai colori accesi. Ma prima aveva bisogno di concedersi una pausa. Sorseggiò il vino rimasto nel calice, avanzo dalla cena della sera precedente, e valutò compiaciuto il lavoro svolto. Poggiò di nuovo il calice sulla mensa, afferrò un pennello e iniziò a stendere del carminio sulla veste di un falconiere e del blu su quella dell’altro che aveva disegnati a fondo pagina nei pressi di ripari turriti.

Ah, come gli sarebbe piaciuto poter impiegare gli smalti splendenti dei pittori di maioliche in luogo dei pigmenti di origine vegetale diluiti in acqua che perdevano di brillantezza non appena si asciugavano.

 

Alcune pagine miniate del “De arte venandi cum avibus” di Federico II, sec. XIII, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms. Pal. Lat. 1071, (ph. BAV)

 

Guardò i disegni in cui aveva rappresentato il volo degli uccelli e non poté trattenersi dal sorridere. Nel suo recente viaggio al di là delle Alpi aveva imparato a stilizzare le forme di uomini e di animali con linee vigorose e guizzanti. Quei suoi uccelli parevano volare fuori dalla pagina, ognuno seguendo la propria indole e con la propria attitudine al volo: quali leggeri e veloci, quali pesanti e lenti, quali librantisi, quali altri in atto di ghermire la preda, ma tutti palpitanti di vita sotto i piumaggi variopinti e frementi.

 

Prima di riporre i fogli ultimati nel forziere che il sovrano aveva fatto costruire appositamente per custodirli, si soffermò ad osservarli. Su di uno aveva raffigurato uno stagno, con alcuni uccelli acquatici in procinto di tuffarsi in acqua per catturare i pesci, altri occupati invece a lisciarsi il piumaggio: gru, trampolieri, cigni, anatre e beccaccini (per rigore scientifico li aveva corredati di titula, ciascuno con il proprio nome scrittogli accanto, in corsivo). Su un altro foglio aveva invece riprodotto, vista dall’alto, un’azzurra distesa lacustre in cui nuotava un cacciatore che, spogliatosi degli abiti, li aveva ammonticchiati sulla riva di sinistra, mentre su quella di destra un falco teneva un’anatra stretta fra gli artigli possenti.

 

Sfogliò le pagine dedicate ai falconieri e la spessa pergamena crepitò sotto il suo tocco garbato. Li aveva ritratti nelle fogge più diverse: in atto di portare i rapaci sulla mano guantata, a piedi o a cavallo; mentre li assicuravano alle pertiche o ai sediles per impedire loro di volare via; mentre li nutrivano o li accarezzavano per renderli più docili all’ammaestramento. I falconieri erano tutti abbigliati con tuniche striate e variopinte, dalle maniche sgargianti, il capo coperto da cuffie bianche, da tocchi o da berretti puntuti. Si muovevano sopra prati verdeggianti sui quali occhieggiavano fiori rossi, gialli, azzurri, in un tripudio di accenni primaverili fedeli al vero visibile.

 

Manifestare ea quae sunt sicut sunt, far vedere le cose che sono così come sono, raccomandava Federico II di Svevia nel paradigma d’esordio di quel medesimo trattato che avrebbe avuto per titolo De arte venandi cum avibus, da lui personalmente redatto in un latino limpido e ricco di neologismi tecnici, appositamente coniati per sopperire ai vuoti del lessico specifico ancora tutto da inventare. Al miniatore il compito di trasporlo su pergamena e di illustrarlo con immagini acconce.

Aveva già ultimato le pagine dedicate alla descrizione delle attrezzature necessarie per esercitare l'arte della falconeria ed era a buon punto anche con quelle dove si trattava delle modalità di cattura dei falchi e della loro nutrizione. La parte riservata alla descrizione della cigliatura (la cucitura delle palpebre per renderli più docili) e dell'ugnatura (il taglio delle unghie) aveva invece subito una battuta d’arresto a causa delle lunghe consultazioni che l’imperatore ancora intratteneva con gli esperti falconieri arabi che risiedevano alla sua corte di Palermo.

 

Un leggero bussare all’uscio costrinse l’amanuense a riscuotersi.

Si alzò e andò ad aprire stiracchiandosi le membra anchilosate.

“Entra” disse all’uomo che aspettava fuori. “Poggialo lì sullo sgabello, accanto al braciere.”

Il servitore compì quel gesto con grande destrezza, rivelatrice di consuetudine, quindi, fatta una frettolosa riverenza, lasciò il piccolo laboratorio ospitato in una delle otto torri ottagonali che munivano il castello di Andria.

Ogni mattina un messo di Federico II consegnava all’artista un foglio di pergamena, uno soltanto e uno al giorno. I fogli erano sempre umidi e prima di poter essere vergati e miniati dovevano asciugare accanto al braciere. Era per questo che lui era costretto a lavorare di notte.

Il sovrano aveva infatti disposto che i medici della Scuola Salernitana, dei quali amava circondarsi, immergessero ogni foglio in un liquido dalla formula segreta, da loro stessi messa a punto all’uopo, prima che venisse scritto e dipinto, così da renderlo più setoso e più facile da trattare con l’inchiostro e con il colore. Ma il miniatore sospettava che dietro quei bagni si celasse ben altro e molto di più, tuttavia non lo avrebbe mai ammesso, tema l’ira del proprio signore.

 

Ms. Pal. Lat. 1071, f.090v, dettaglio, (ph. BAV)

 

Roma, 20 maggio 2015

 

Se Abdul Abulafia si trovava a Roma, lo doveva sicuramente alla vanità del potente Qābūs bin Sa īd Āl Sa īd, sceicco dell’Oman ma soprattutto alla sua cultura umanistica. Questi, infatti, da quando aveva superato la settantina, non aveva saputo resistere alla tentazione di giovarsi dell’elisir di giovinezza di cui – riferiva un incunabolo del XV secolo conservato nella sua ricca biblioteca personale – lo Stupor mundi avrebbe fatto intridere le pagine del suo trattato di caccia prediletto, avendo in animo di sfogliarlo spesso. Cosa che sarebbe di sicuro accaduta, prolungandogli la vita, se una morte improvvisa e prematura non glielo avesse impedito. La stesura del De arte venandi cun avibus si era quindi giocoforza interrotta, ripresa alcuni decenni dopo dal di lui figlio primogenito, Manfredi di Svevia, anch’egli appassionato di falconeria.

Ed ora lo splendido codice si conservava a Roma.

 

A riaccendere l’interesse dello sceicco dell’Oman per il manoscritto federiciano era stata una notizia di cronaca riportata da un quotidiano italiano, in cui si riferiva della inusitata longevità che nei due secoli appena trascorsi aveva caratterizzato indistintamente tutti gli addetti alla sua tutela e alla sua conservazione diretta. Ravvisando nel fatto narrato una gradita coincidenza con quanto tramandava l’incunabolo in suo possesso, lo sceicco aveva subito spedito a Roma il professor Abulafia – il miglior chimico della penisola Arabica e il più illustre ricercatore dell’Università di Muscat – affinché sottoponesse le pagine del trattato a prove di laboratorio con il fine di sintetizzare l’elisir di lunga vita che vi supponeva contenuto e di cui ambiva avvalersi per prolungarsi la propria.

 

Ms. Pal. Lat. 1071, f.079r, dettaglio, (ph. BAV)

 

Muscat, 25 maggio 2015

 

Il segretario di stato aprì la posta elettronica e vi trovò una mail del prof. Abulafia. La stampò e si affrettò a consegnarla allo sceicco.

 

“Vostra maestà,

missione non compiuta. Dopo aver sottoposto ad esame chimico-fisico le pagine del manoscritto Pal. Lat. 1071, come mi avevate ordinato, non ho avuto difficoltà ad individuare la formula del composto chimico di cui erano state imbibite, del quale ho riconosciuto tutti i componenti e il rispettivo dosaggio, ad eccezione di uno. Purtroppo non mi è stato quindi possibile procedere alla sua sinterizzazione poiché di quell’elemento sconosciuto (sicuramente di natura organica, probabilmente saliva umana) è ormai impossibile ricostruire il DNA.”

 

Lo scritto proseguiva, ma lo sceicco neppure lo lesse. Appallottolò il foglio con un moto di stizza e lo gettò nel cestino della carta straccia.  

Ad inseguire il sogno dell’eterna giovinezza aveva solo sprecato tempo e danaro.

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