Emmanuel Carrère. Fuori e dentro Il regno

30 Marzo 2015

Mi piace Emmanuel Carrère, gli ho dedicato anche un piccolo ebook edito da doppiozero, ma quando è uscito Il Regno e ho letto alcune delle reazioni che ha suscitato in Francia, mi sono chiesto cosa diavolo gli fosse venuto in mente. Un libro sulle origini del cristianesimo, Paolo di Tarso e Luca, l'autore di uno dei Vangeli era proprio necessario? Reduce da un'educazione cattolica che mi ha marchiato dall'asilo al liceo dai salesiani passando per dieci anni di oratorio, mi sono detto che forse non era il caso di tornare su cose che conosco fin troppo bene. Poi l'ho letto e, pensando anche a un analogo disorientamento dei suoi lettori abituali, ho cercato di riformulare alcune delle domande più frequenti sentite al suo proposito: che tipo di libro è? è un romanzo o cos'altro? come è fatto? si tratta davvero solo dell'ennesimo libro sul cristianesimo e sul conclamato ritorno della religione di tanti movimenti identitari? vale la pena leggerlo? Poi, nel tentare di rispondere, me ne sono nate altre.

 

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"Le leggi del Regno non sono, non sono mai, leggi morali. Sono leggi della vita, leggi karmiche", afferma Emmanuel Carrère  nel suo libro (le traduzioni quando non indicate sono mie); eppure non si sbaglierebbe di molto sostenendo che il suo intento, non nuovissimo ma sempre attuale, è quello di vedere cosa si può salvare del messaggio cristiano una volta constatata la sua eclisse forse inarrestabile come religione nelle moderne società europee, e se in esso si possono rinvenire dei principi utili anche per una morale laica non solo individuale, come Carrère sembra pensare per se stesso, ma collettiva. Anche se, a quanto pare, ogni tentativo di raggiungere qualcosa del genere si è finora risolto o in un fallimento o nella sua, è il caso di usare questa parola, conversione in una nuova forma di religione, con la sua sacralità, i suoi riti, e i suoi pregiudizi e dogmatismi.

 

Carrère torna alle origini del cristianesimo e alle figure che ne hanno favorito la diffusione dopo la morte di Gesù, per raccontarle a un pubblico che sembra ignorare ormai quasi tutto di quella che è stata la visione dominante della civiltà occidentale, e per cercare di capire come possa credere ancora alle storie inverosimili a proposito del suo fondatore un uomo moderno ormai secolarizzato e disincantato in tutti gli altri aspetti della sua vita.

 

E lo fa dopo essere passato lui stesso per una conversione che ha segnato profondamente tre anni della sua vita in età già matura, poi rimossi, e come a recuperarli mediante la scrittura di questo libro, pur senza riscattarli, con un'operazione simile a quella che ha dettato tutti i suoi libri recenti, dall'Avversario in poi, dei quali condivide molti temi e approfondisce la riflessione.

 

Tanto che può scrivere, ora: "Ciò che io chiamo essere cristiano", che è lo stesso "in senso stretto, che essere agnostico", è riconoscere, anche davanti a quello che appare il male o la menzogna assoluta "che non si può sapere" e (quindi...) che ci può essere un'altra possibilità... "Questa possibilità è ciò che si chiama il Cristo e non è per diplomazia che ho detto [a Romand] che ci credevo, o cercavo di crederci. Se il Cristo è questo, posso anche dire che ci credo ancora".

 

Caravaggio, Conversione di Saulo, 1601

 

L'obiettivo era anche di capire come era cambiata la sua vita con la conversione e poi con l'abbandono definitivo della fede, e come continuano ad agire in lui le parole di Cristo nonostante questo abbandono. Carrère scrive per capire come delle parole hanno potuto ribaltare la sua vita e come ancora improntino il suo agire. Scrive per cambiare la propria vita, e per agire su quella di chi legge.

 

La funzione performativa, che appartiene a ogni forma linguistica, in genere non ha un ruolo primario nei romanzi. In quelli di Carrère tuttavia è possibile trovare vari momenti in cui è molto marcata (per es. l'episodio del racconto erotico che la fidanzata deve leggere in treno di La vita come un romanzo russo) e ancor di più lo è in quest'ultimo. La volontà di agire sull'esistenza è peraltro caratteristica del discorso profetico e religioso, che sul linguaggio fonda gran parte della sua efficacia. Carrère, che non rinuncia mai a guardare qualsiasi cosa con lo sguardo dello scrittore, fa anzi derivare la dirompenza delle parole di Cristo dalla loro novità anche espressiva: è per questo che molte di esse continuano ad avere un'importanza fondamentale per lui nonostante non creda più che "rabbi Gesù di Nazareth, il più sovversivo mai vissuto sulla terra" sia figlio di Dio. Del resto erano state proprio delle parole a innescare la sua conversione. Scrive infatti:

"Dietro ogni conversione al cristo, penso che ci sia una frase e che ognuno ha la sua, fatta apposta per lui, che lo aspetta. La mia è stata questa (...): ciò a cui ti abbandoni – Colui a cui ti abbandoni – ti condurrà dove non volevi andare. (...) E io, ciò che volevo più di ogni altra cosa al mondo era proprio questo: essere condotto dove non volevo andare."

Ciò che vale per l'esistenza non è mai disgiunto in Carrère dalla scrittura, che ne è il fulcro, e quindi quanto ne dice dell'una può essere letto anche nella prospettiva dell'altra. Oltre che per la propria esistenza, o per certi particolari suoi momenti, quanto detto in quei versetti non è anche l'auspicio, la molla se non il programma, di chi si mette a scrivere? Non è una possibile definizione della scrittura, e in genere di ogni agire artistico? Non solo, e non tanto, andare dove non si sapeva (questo è facile, quasi automatico), ma proprio dove non si voleva, per quanto doloroso possa rivelarsi.

 

Non si sa a chi ci si abbandona: possono essere le voci silenziose, presenti e dimenticate, di tutti coloro che abbiamo sentito o letto, di tutto ciò che abbiamo visto o fatto e che si è in qualche modo abbarbicato o mescolato o camuffato nelle lingue da cui siamo circondati, nutriti e perseguitati. Non si sa mai dove si arriva quando si comincia a scrivere, e a volte il dolore è la faccia nascosta dello scoperta, il lato in ombra dello stupore che ci coglie mentre camminiamo e, alla fine del percorso, il suggello che non è stato inutile, della sua necessità fino a un momento prima ignorata.

 

Vale anche per il lettore? Meno di quanto si sarebbe aspettato. Il regno infatti è stata una lettura di volta in volta affascinante, profonda, curiosa, istruttiva e persino, a tratti, divertente, ma mai, duole dirlo, entusiasmante: mai, leggendo, mi è venuto di pensare "Ah!" o di alzare la testa, o appoggiare il libro sul tavolo o le ginocchia per guardarmi attorno spaesato, con l’occhio che non vede niente perché tutto è annebbiato dallo stupore, che poi lentamente si dirada e, prima di indurre a tornare alla lettura, lascia vedere le cose attorno uguali e, sia pure di un grado, fuori asse, scontornate, e spostate in diverse costellazioni. E nemmeno è stata una lettura respingente o che ha suscitato intenso disagio, che sarebbe un altro indizio che era stato toccato qualche punto vivo, come era accaduto con i libri precedenti (praticamente tutti da La settimana bianca a Vite che non sono la mia): piuttosto a volte un po' fiacca, e a tratti indisponente per la facilità di alcuni passaggi e per tutto il ventaglio di blandizie lanciate in ogni direzione per accattivarsi (meglio: affascinare, perché non sono quasi mai troppo scoperte o volgari) quanti più lettori: il che, mi dicono, è sintomo di una certa ansia.

 

La ricchezza della materia, la varietà dei modi e delle prospettive in cui è organizzata e il grande mestiere (sia detto senza alcuna sfumatura restrittiva) che traspare in ogni pagina del libro, rendono comunque la lettura sempre profittevole, se non sempre coinvolgente. I temi affrontati sono di notevole peso e proprio questo induce a concentrare l'attenzione su di essi, verso i quali infatti convergono la maggior parte delle critiche, vuoi sotto forma di accuse di errori o superficialità, o per avanzare integrazioni e sfumature e tutto il repertorio di chi vuole togliere a ciò che gli altri lodano, o aggiungere a ciò che non ci si può esimere dal lodare. Va bene. Però così si evidenziano i temi toccati, ma non si vede il toccare.

Religione, teologia, ricostruzione storica, riflessioni morali e politiche, scavo interiore, confessione, biografia immaginaria,  profondità e banalità, erudizione e approssimazione sono tutti elementi di una certa rilevanza, la cui numerosa e non episodica presenza già dice delle ambizioni del libro, anche se da sola ovviamente non basta a determinarne le qualità. La sua peculiarità infatti è data dalla molteplicità e varietà dei modi in cui sono combinati e intrecciati tra di loro, tanto da determinare le reciproche modalità di porsi influendo a vario titolo sugli sviluppi e le direzioni di ciascuna delle linee, curvandole, interrompendole o sfilacciandole ovvero sovrapponendole e confondendole. È forse utile, allora, cercare di districare le principali componenti del libro e i loro livelli, sia pure a rischio di semplificazione:

 

1 – Storia (documentaria, congetturale e romanzata: né peplum, né romanzo storico però) delle origini del cristianesimo: in particolare della figura e dell'apostolato di Paolo,  - delle prime comunità da lui fondate e dei contrasti con quelle legate a Gerusalemme e agli apostoli, più tradizionaliste -, e di Luca, visto come autore di buona parte degli Atti degli apostoli e di alcune delle invenzioni narrative e morali più alte del Vangelo che porta il suo nome.

2 – Storia della scrittura del libro; metanarrazione; saggismo; riflessione sulla scrittura nel suo farsi e come chiave per interpretare quella di Luca e dargli forma coerente di personaggio e autore (narratore: collega), avventurandosi nei dettagli degli eventi a cui avrebbe assistito o di cui avrebbe avuto notizia da testimoni diretti, dei loro protagonisti e della cronaca della loro quotidianità (vera e presunta) rapportandoli alla "grande" e "documentata" Storia, quella della Roma imperiale del primo secolo.

3 – Storia personale di Emmanuel Carrère, uno e trino: giovinezza inquieta ma anche, all'esterno, spavalda, anticonformista e cinica; crisi famigliare e artistica, conversione e fase acuta della fede (durata tre anni, dal 1990 al 1993, come la predicazione di Cristo, in cui ha quotidianamente commentato il Vangelo di Giovanni riempiendo una ventina di quaderni, ha assistito alla messa comunicandosi quotidianamente, si è sposato e ha fatto battezzare i figli con nomi che gli rinfacciano tuttora, ecc.); rimozione del periodo, morte della memoria e resurrezione alla vita del narratore (del personaggio-autore),

4 – che approda infine al recupero di quella porzione di memoria che era stata rimossa e infine a questo libro che, nell’andirivieni temporale tra l'allora delle fede e l'oggi della scrittura, include la narrazione della sua esistenza attuale e il dialogo con il lettore (implicito e esplicito).

5 – Rimescolamento di tutti questi ingredienti attraverso continui raffronti e esemplificazioni e i continui ribaltamenti dei piani temporali: storici (20 secoli fa, passato recente – in particolare XX secolo con la sua storia politica, con riferimento privilegiato a quella russa, già oggetto altri suoi libri, oltre che di quelli di sua madre, storica e accademica di Francia – e oggi) e personali (dal 1990 al presente: amori, figli e vita privata in genere; ma più di tutto l'amicizia con lo studioso del buddismo Hervé, lui pure figlioccio della madrina Jacqueline che aveva favorito la conversione dello scrittore: due delle figure di maggior impatto di tutto il libro).

 

Pontormo, Cena in Emmaus, 1525

 

Il regno si presenta quindi come un testo ibrido, ma meno nel senso che mette insieme materiali e forme di diversa provenienza, che per il fatto di muoversi ai limiti di queste eterogeneità, di percorrerne i confini, passando senza soluzione di continuità da una parte all'altra, sino a cancellarli, ma senza indulgere a facili confusioni. E' infatti costruito con estrema perizia grazie ad alcune procedure stilistiche e tematiche che ne assicurano l'unitarietà e la coerenza.

 

Oltre a quella determinata dal tono del discorso, variato e modulato quanto si vuole ma piuttosto omogeneo, e dal filo rosso della riflessione sullo scrivere e sulla letteratura (come vengono presentati gli Atti degli apostoli e gli stessi Vangeli), il principale dei collanti che tengono assieme tutto e gli conferiscono unità è l'insistenza del tema della verità: la verità (e la necessità) dell'impulso che ha spinto Carrère a scrivere di questi argomenti; la veridicità della ricostruzione dei fatti narrati, o almeno la loro grande plausibilità, dichiarata e motivata esplicitamente in assenza di documentazione; e la completa, quasi spudorata, sincerità quanto alla propria esperienza, dai sentimenti alle relazioni personali più intime.

 

Thomas Bernhard ha scritto che "ogni volontà di verità è [...] la via più rapida per la falsificazione e per la contraffazione di un fatto",  "ciò che è reale è sempre in realtà diverso, è il contrario che in realtà è sempre reale [...] alla fine quello che importa è soltanto il contenuto di verità di una menzogna". Parole condivise da molti, ma che immagino Carrère rifiuterebbe di sottoscrivere, almeno quanto ai suoi ultimi libri: il suo discorso tende sempre infatti a convincere il lettore della verità passo per passo di ciò che dice, di cui dichiara ogni volta lo statuto: che creda che è vero quando dice che è vero, e che lo è anche quando dice che non è vero alla lettera, ma in qualche altro modo: che lui pure "senta" la verità dell'accento anche nell'invenzione e riconosca le marche stilistiche che le conferiscono flagranza, o adotti lui pure come guida il "criterio dell'imbarazzo", secondo il quale quando una cosa dovrebbe essere imbarazzante per chi la scrive, è molto probabile che sia vera,  ecc. La verità è nel linguaggio: nel suo modo di darsi, nella sua novità e in un certo suo tono che si impone fuor di ogni dubbio.

 

Per esempio, della parola di Cristo Carrère scrive: "anche senza credere [alla resurrezione] se esiste una bussola per sapere in qualsiasi momento della vita se si è sulla strada giusta o sbagliata, è questa". "Ciò che dice Gesù è il contrario [degli scrittori e degli storici del tempo, del loro modo di dire e di far parlare i personaggi]: naturale, lapidario, completamente imprevedibile e allo stesso tempo completamente identificabile. Quel modo di maneggiare il linguaggio non ha equivalenti storici" e proprio da questo scaturisce la sua intatta efficacia.

 

Carrère insomma, da scrittore, trova l'accento di verità, la capacità di colpire e di andare a fondo, nella straordinaria novità del linguaggio di Gesù. Per dire le cose inaudite che ha detto, Gesù ha dovuto dare una inaudita torsione al linguaggio che era in uso nel suo tempo. Così forte che ancora oggi, per quanto soprattutto la cultura occidentale sembri averci fatto l'orecchio, non ha cessato la sua carica sconvolgente: cioè non ha esaurito la sua novità.

 

L’altro, e più fondamentale legante è dato da “Emmanuel Carrère” autore-narratore-personaggio, cioè da colui che dissemina di “io” tutte le pagine, dalla prima all’ultima, con gran dispitto di tutti coloro che non perdono occasione per gridare al narcisismo e scagliarsi contro il calderone dell’autofiction. Personalmente, a me non dà fastidio la ricorrenza del pronome di prima persona singolare (molto più fitta in francese dal momento che nei verbi è obbligatoria: il che forse aiuta a spiegare un po’ della vera o presunta prosopopea transalpina) che a volte alcuni, oltre a trovarla eccessiva, hanno la bella idea di ritorcere persino contro l’aspirazione, scettico-ma-possibilista quanto si vuole ma comunque sacrosanta, all’ingresso nel Regno (dei cieli), ricordando che chi si innalza sarà abbassato, e peggio ancora chi di abbassarsi fa solo le mosse.

 

La sua onnipresenza invece è il perno della strategia di Carrère: il soggetto dell’enunciazione (e dell’enunciato) è il filtro e la pietra di paragone a cui tutto si rapporta. Tutto qui. Se qualcosa c’è di sgradevole non è nella figura complessiva che il soggetto viene a comporre, ma in certe sue sfaccettature, che nelle persone reali diremmo del loro carattere, mentre nel testo sono relative all'uso e agli obiettivi presi di mira (inclusa l’idea implicita di coloro che da queste strategie sono presi di mira; cioè i lettori).

 

Del resto lo afferma esplicitamente (polemicamente, quindi) lui stesso: non solo di vivere nel "culto e nella cura perpetua della (propria) persona", ma di crederci “dur comme fer". "Non conosco nient'altro che "io", e credo che questo "io" esiste", dice in contrapposizione a Hervé, che, con pacata saggezza, fa da controcanto alle supponenze e certezze a cui Carrère a volte approda faticosamente e altre indulge un po' superficialmente, recitando la parte dell'avvocato del diavolo dei credenti senza esserlo lui stesso, e proprio per questo, agli occhi di Carrère e ai nostri, in modo credibile.

 

Ma poiché questo io non è un dato originario della nostra coscienza, ma solo "un'eco, diretta o indiretta, continua o intermittente, delle nostre percezioni passate nelle nostre percezioni presenti" (come diceva già un filosofo dell'800 citato da Nathalie Tresch in un suo saggio) Carrère, che ritiene interrotta questa catena dei ricordi quanto a sé, "tenta di ricostituirla attraverso i suoi romanzi" (ibidem), affrontando in ciascuno di essi uno dei momenti dove si interrompe, o riempiendo i vuoti che la crivellano, in particolare i segreti personali e di famiglia che sono incriptati al loro fondo, con tutto il carico di colpa e vergogna ma anche con tutta l'assunzione di responsabilità che questo comporta. Anche se, nonostante forse Carrère lo creda, la divulgazione e la presa in carico di questo segreto, invece di approdare a qualche verità definitiva, non fa che spostarlo, ricoprendo di un altro strato di detto ciò che resta, al suo centro, nella cripta o ancora sotto di essa, di indicibile e destinato al silenzio. (L'immagine della cripta è tratta dallo splendido libro di N. Abraham e M. Torok L'écorce et le noyau, ma l'interpretazione del segreto è da attribuirsi solo al sottoscritto, via Derrida). Una volta giunti alla cripta e terminato il lavoro di sgombero, il risultato sarebbe sempre provvisorio, quindi; alla fine ci si accorgerebbe di non avere svuotato un bel niente e di avere invece eretto un nuovo edificio con i materiali della rimozione: materiali che si riveleranno poi inesauribili, mentre lo stesso lavoro di scavo e svuotamento finirà per nascondere una cripta e un segreto ulteriori, che esso stesso avrà contribuito a modificare, se non addirittura a creare.

 

Emmanuel Carrère

 

Se si guarda all'argomento Il regno può apparire come un peplum, genere tornato di moda grazie al cinema e alle serie televisive, o un romanzo storico, ma non lo è, non solo perché anziché fare del racconto e quindi del coinvolgimento del lettore la sua priorità, si ingegna in modi sempre diversi a spezzare la storia e spiazzare il lettore, con cui peraltro è in dialogo continuo, ma soprattutto perché con il "il romanzo storico, e a fortiori il peplum" Carrère dice di avere "immediatamente l'impressione di essere dentro Asterix". Infatti confessa di non essere mai riuscito a finire di leggere nemmeno un libro così distante dalle creazioni di Goscinny e Uderzo come le Memorie di Adriano. Il motivo è piuttosto semplice: Marguerite Yourcenar era convinta che in un romanzo storico non deve trasparire neppure la minima ombra proiettata dell'autore; Carrère al contrario crede che sia impossibile evitarlo, e che comunque poi si vedrebbero "le astuzie con cui si cerca di cancellarla e allora tanto vale accettarla e metterla in scena... ". "Gli sguardi nella cinepresa non mi danno nessun fastidio: al contrario li conservo e attiro pure l'attenzione su di essi". Ma allora perché insiste tanto sulla "verità" della masturbazione nelle pagine che dedica al video in cui una giovane donna si dedica a questa pratica encomiabile? Sono certo che Carrère direbbe che non c'è contraddizione: nei porno lo sguardo in camera è sicuro indizio di falsità, di recitazione proprio nel momento in cui l'eccitazione dovrebbe vincerla sul controllo e sull'intenzione: viceversa, quando inventa, lui guarda il lettore negli occhi e gli dice cosa e come inventa: cioè la verità di ciò che sta facendo; non finge di fare altro, come non lo finge la ragazza davanti alla cinepresa piazzata con immagine fissa davanti al suo letto: proprio questa assenza sarebbe, per lui, la certificazione che ciò che viene mostrato non è inscenato né recitato: che sarebbe una vera masturbazione, cioè: la sua verità.

 

Si torna sempre a questo punto. Come in molti altri suoi libri (Limonov, Philip Dick nella biografia a lui dedicata, Romand, il protagonista di L’avversario, persino il bambino della Settimana bianca), anche i personaggi principali del Regno (Luca, Paolo, Giovanni, Seneca, Flavio Giuseppe, Hervé) sono quasi tutti narratori: scrittori, poeti, storici, raccontatori di storie vere o menzognere, ma per Carrère, pur affascinato dall’invenzione, il problema che ricorre sempre è dove e come riconoscere la verità del dettato, la sincerità della confessione, l’evidenza della realtà dei fatti: dalle marche che forse involontariamente Luca dissemina negli Atti e nel Vangelo, ai video porno, appunto. Da cosa si riconosce l’accento di verità rispetto alla finzione che scimmiotta la realtà; dove l’esibizione delle pieghe e delle piaghe più nascoste dell’anima e la sincerità rispetto all’oggetto non bastano, e il rischio è che davvero tutto diventi più pornografico del video “amatoriale” fatto per il presunto piacere personale dalla giovane donna che vi si ritrae, di cui Carrère indaga i segni della verità come un filologo della masturbazione (o come la masturbazione di un filologo), salvo poi capire, noi, che, al di là della volontà di provocazione (in particolare quando poi fa riferimento a Maria) di fatto proprio lì il narratore, nascondendolo, rivela meglio che altrove il proprio metodo, le procedure e gli obiettivi del suo operare.

 

“Quando mi raccontano una storia, mi piace sapere chi me la racconta. È per questo che mi piacciono in racconti in prima persona, e io stesso ne scrivo, e non sarei capace di scrivere niente in un altro modo”. Una delle domande rituali del '68 era: "Da dove parli, tu?". Io la trovo sempre pertinente. Per essere toccato da un pensiero, io ho bisogno che sia portato da una voce, che emani da un uomo, che io sappia che percorso essa si è tracciato dentro di lui. (...) Paolo faceva parte degli uomini che non si fanno pregare per dire da dove parlano, cioè per parlare di se stessi, e Luca non ha tardato a conoscere la sua storia, spiazzante quanto i suoi discorsi".

 

Van Der Weyden, San Luca che dipinge la Madonna, 1440

 

Naturalmente questo continuo ritorno su se stesso e sulla propria scrittura ha anche altre valenze, non ultima quella di agire come apparato difensivo, paranoico la sua parte.

 

Dopo avergli parlato della raccomandazione di Paolo di non credergli se in futuro avesse rinnegato ciò che aveva sostenuto fino allora (lettera ai Galati), e aver segnalato questo passaggio come qualcosa di assolutamente inedito per l’antichità, e piuttosto simile nella sua perfetta paranoia a Dick e Stalin, Carrère riporta questa osservazione di Hervé: “È di te che stai parlando... La cosa che più di tutto temevi quando eri cristiano, era di diventare lo scettico che sei contentissimo di essere oggi”. Ed è risaputo: è soprattutto quando si parla degli altri che si rivela qualcosa di sé; ma Carrère non resiste a farlo notare, come se un difetto di autocoscienza fosse automaticamente un difetto di scrittore, ma soprattutto di uomo: l’esposizione di una debolezza (una vera, non di quelle che sono esibite a vanteria e scandalo degli altri), e dunque di risultare un facile bersaglio per eventuali nemici: automatico perché sarebbe automatico per lui nei loro confronti. Se c’è un punto debole, è scontato che mi attacchino proprio lì; e quindi non solo io li prevengo, ma ne faccio un metodo e un merito: un punto di forza del mio modo di vedere le cose e della scrittura.

 

Ma questa è anche la grande bravura di Carrère: riportare ogni cosa alla sua vita e/o ad altri aspetti e momenti del libro, alla sua vita come tema del libro e insieme come possibile aggancio all’esperienza e alla vita del lettore, che tende a identificarsi. Così, quando parla delle Lettere a Lucilio, dice: “mi ricorda la mia amicizia con Hervé” e al lettore, tramite Seneca: “parlo con te del male di cui entrambi soffriamo, ti passo le mie ricette, per quel che possono valere”.

 

La notte dopo l'incontro con Filippo, Carrère, che ha inventato sia il personaggio che la scena, immagina l'esaltazione di Luca per avere conosciuto un uomo che aveva incontrato di persona Gesù. "Ciò che mi permette di immaginarla, sono i momenti in cui un libro mi è stato dato. (...) impressione di evidenza assoluta. Ero stato testimone di qualcosa che doveva essere raccontato, spettava a me, e a nessun altro, il compito di raccontarlo".

 

È il meccanismo della proiezione, che gli permette di certificare la legittimità dell'invenzione, la verità di un'ipotesi anche non dimostrata o la realtà di un fatto anche non documentato: lo so perché mi è capitato qualcosa di analogo, ovvero, è lo stesso, perché una stessa forza mi ha afferrato, una stessa evidenza mi si è imposta. Qualcosa di non molto lontano dalla fede, insomma; qualcosa che permette di compiere salti logici con l'innocenza della buonafede (appunto). Qualcosa che farebbe acqua da ogni parte, non fosse che anche il lettore, una volta o l'altra, ha fatto esperienze analoghe (niente di teorico o astratto: di molto concreto, anzi, una percezione, un'emozione, una situazione, un fatto...): il che gli permette di non fare resistenza alla versione di Carrère e quindi, tramite questa doppia immedesimazione, di accettare la plausibilità di ciò che dice, di adottarla e farla propria: cioè di credere alla sua verità e di abbandonarsi a quanto di buono e consolatorio il suo libro possa contenere. Di non rifiutarsi alla forza delle parole di Paolo e alle verità sconvolgente di quelle di Cristo, figlio di dio o "semplice" profeta, di cui però senza Paolo si sarebbe forse persa la memoria come è avvenuto per i tanti altri che popolavano il medioriente in quel periodo, e di lasciare uno spiraglio aperto alla profezia del Regno, perché è vero che, come sostiene Carrère, non è tanto dell'altro mondo quanto di questo, della vita e non di dopo la morte, però, insomma, magari... Perché si fa sempre fatica a pensare alla propria morte come a una scomparsa davvero definitiva, come il passaggio, che non saremo noi a compiere ma avverrà da sé, a un prosaico nulla, un nulla totale, senza residui, nemmeno quello patetico della dispersione dei nostri atomi nell'aria, in un fiume o in una foglia di cicoria. Qualsiasi alternativa, per quanto ipotetica, irreale, è più consolante, più poetica. E chi se ne vorrà mai privare? Pensarci così, in un modo piano, senza drammi, è facile solo da lontano. O anche da vicinissimo (come se non lo fossimo sempre), eccetto quando se ne percepisce, in un lampo di consapevolezza, l'imminenza.

 

Ma prima, i classici esempi, nobili e disillusi, di Seneca che convoca gli amici dopo essersi tagliato le vene (con un rituale piuttosto atroce, in realtà, dal momento che la morte ha fatto le bizze e necessitato di ferite supplementari e di una lunga e penosa attesa di cui Carrère, che ama smitizzare, non risparmia al lettore nemmeno un passaggio, inclusa l'ironia sul fallimento dell'analogo tentativo della moglie: perché alle donne piace giusto inscenarli, i suicidi, tanto che l'errore è solo quando vanno in porto...), e di tanti filosofi e eroi antichi e moderni, consolano, e fanno invidia; al pari di quelle morti serene, capolavori del futuro anteriore – dell'immagine che si vuole sia ricordata: il nobilissimo monito ai sopravvissuti più forti o inclini a dimenticare; per i più deboli, il precedente agghiacciante invece –, circondati da figli e nipoti, chi li ha, o circonfusi di qualche speranza, avvolti dalla sua tenue radianza, sbirciando la fessura della porta che, in fondo, non si è voluto chiudere del tutto, anche quando si credeva di averla piombata e sigillata, caso mai filtri una lucina, un barbaglio... be', a tutti costoro, e anche alla miriade di altri meno saggi o fortunati, Il Regno quella porticina la tiene socchiusa mentre si esibisce nel gesto, più volte ribadito, di chiuderla: e anche i lettori fanno propri i suoi dubbi mentre li respingono, e viceversa dubitano delle sue certezza nell'atto stesso di farle proprie. La debolezza altrui rafforza e consola: poi si può anche, magari, ammirarne la forza, e tutto il resto.

 

Nel frattempo ci si è riservato il doppio beneficio di vivere senza i fardelli della fede (i “pregiudizi” e i “divieti”: i peccati e le colpe; il cui sentimento tuttavia Carrère non si risparmia quanto ad altri campi, morale soprattutto: e quindi ancora religioso in un certo senso), e quello del rotto della cuffia a cui potersi aggrappare in extremis per una salvezza, che, forse, chissà... Appena prima di trovarsi fuori tempo massimo. “Non so” è la frase che chiude il libro: da considerarsi in tutte le sue valenze.

 

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