Negare il diritto allo studio

17 Gennaio 2022

Spesso mi trovo a rispondere a domande che mi sorprendono. “Come stanno andando le cose all’università? I corsi sono ancora in DAD?” Mi rendo conto che questi dubbi sono legittimi per chi non ha l’istituzione accademica al centro della propria vita e non la vive giorno dopo giorno. È persino superfluo dire che si parla poco del tema. La scuola è al centro dei nostri pensieri in questi giorni, ma non possiamo dire lo stesso per l’università. Facciamo persino fatica a ricordare il nome della ministra che si dedica alla gestione degli atenei (Maria Cristina Messa) e siamo costretti a rintracciarla su Google: non troviamo sue interviste sui giornali e meno che mai ci capita di vederla nei dibattiti televisivi.

 

È quindi il caso di ricordarlo: nel primo semestre dell’anno accademico 2021-2022 le lezioni universitarie sono tornate a svolgersi in presenza, anche se le piattaforme digitali continuano a ospitare la modalità mista e a consentire la partecipazione da remoto. In effetti gli studenti che restano a casa sono tanti. È difficile offrire delle statistiche precise, ma ho provato a fare delle indagini, per forza di cose rapsodiche e quindi solo in parte attendibili. Parecchi docenti testimoniano, non senza disappunto, che gli allievi fisicamente presenti sono pochi. Alcuni di loro chiedono anche di poter usufruire delle lezioni in differita. Non hanno i mezzi economici per affrontare gli studi e sono costretti a lavorare per mantenersi. La pandemia ha consentito loro di scoprire una possibilità mai considerata prima. Talvolta approfittano delle ore notturne per ascoltare qualche lezione e prendere appunti, cercando di rimanere al passo con i colleghi di studio e di poter sostenere gli esami insieme a loro.

 

È quasi naturale porsi delle domande su disparità tanto forti. A chiarirmi le idee è Umberto, che ha frequentato i miei corsi di Storia alla Federico II di Napoli e ha partecipato con entusiasmo alle iniziative extracurricolari organizzate durante i mesi della pandemia. "Le borse di studio vengono erogate con mesi di ritardo, che talvolta si trasformano in anni. Gli studenti idonei non hanno nemmeno la certezza di riceverle. È necessario che il governo regionale sblocchi i fondi per poter avere certezze. Diversi enti sono coinvolti in questa procedura complessa, talvolta ardua da decifrare". La voce di Umberto è carica di amarezza. Mi sembra di non riconoscere lo studente che interveniva con lucidità e vivacità durante le lezioni, trattenendosi a chiacchierare con gli amici nella chat di classe anche dopo l'orario stabilito.

 

"Molti non sono a conoscenza dell'esistenza dei sussidi. Le informazioni vengono rilasciate in maniera sporadica, con tempistiche irregolari". Umberto rinuncia a venire di persona alle lezioni per una porzione della settimana. Abita a Secondigliano (quartiere noto anche a molti non napoletani, grazie alla celebrità acquisita in anni recenti attraverso libri, film e serie televisive) e i mezzi pubblici sono affollatissimi. "L'epidemia è di nuovo in crescita. Non credo di potermi permettere uno spostamento lungo per percorrere pochi chilometri. Vivo con persone fragili, di età avanzata. Se portassi a casa il contagio, non potrei perdonarmelo. Talvolta provo ad andare in auto, ma l'assenza di parcheggi a prezzi accessibili mi convince a desistere. Le lezioni telematiche non sono quello che desidero, ma mi aggrappo a questa opportunità per continuare a sentirmi parte di una comunità".

 

Il Covid ha sconvolto le nostre vite, ma tante cose sono cambiate meno di quanto possa sembrare. Mi tornano in mente le mie esperienze da studente fuori sede, alla fine degli anni Novanta. Abitavo a Caserta, ed ero costretto a spostarmi quasi tutti i giorni per frequentare i corsi nello stesso ateneo in cui oggi insegno. I posti sui treni e sugli autobus scarseggiavano. Talvolta trovavo un autista compiacente che mi consentiva di rimanere in piedi o di sedermi in un angolino a terra. Decisi di affittare una stanza con alcuni amici. Trovammo una tripla con bagno condiviso, in un appartamento fatiscente, al costo di seicentomila lire, ovvero duecento a testa. Gli alloggi studenteschi erano di fatto inesistenti: poche decine di posti per migliaia di candidati. Apprendo con amarezza che la situazione odierna è simile.

 

Me lo racconta Federica, che viene dalla provincia di Foggia: "L'unico studentato accessibile è in un'area periferica. Si trova in strade che gli abitanti della città considerano non praticabili nelle ore serali, ma poco importa. Sarei andata volentieri a occupare una stanza, se mi avessero dato la possibilità di farlo. Purtroppo ho saputo di essere assegnataria quando i corsi erano già cominciati da un mese. E sono stata costretta a trovare da sola una soluzione d’emergenza".

 

 

Non le chiedo come i proprietari gestiscono gli immobili, ma è lei stessa a raccontarmelo senza il bisogno di essere sollecitata. "Gli assegnatari di borse di studio hanno diritto a un rimborso delle spese sostenute, ma devono ovviamente presentare le ricevute necessarie. È difficile trovare qualcuno disposto a stipulare un regolare contratto di affitto. Di norma, chi lo fa chiede un prezzo di gran lunga maggiore: non più 300 euro, ma 400; se ti avevano invece chiesto 350 euro, puoi arrivare anche a pagarne 500".

 

Problemi simili emergono dai dialoghi che ho potuto avere con Andrea, Iolanda, Teresa e Miriam. Le aule sono piccole, non in grado di contenere gli studenti che desiderano frequentare le lezioni. C’è in vigore un sistema informatico di prenotazioni che genera una triste competizione fra persone che avrebbero diritto a seguire i loro corsi. Molti rinunciano e preferiscono rimanere a casa. “Non è per pigrizia, ma solo per frustrazione”, mi spiegano. Gli ostacoli sono molti per studenti come loro, desiderosi di vivere quotidianamente la vita dell’ateneo. Talvolta i docenti, anche quelli più volenterosi e attenti, fanno fatica a capirlo. “Per aprire nuovi spazi alla didattica sono state utilizzate le aule studio. Di conseguenza, non abbiamo più idea di dove fermarci per utilizzare le ore di intervallo fra una lezione e l’altra.

 

Il tempo è prezioso per chi desidera laurearsi in fretta e non può sostenere i costi delle tasse. Chi ha già compiuto 26 anni, inoltre, perde il diritto di usufruire dei trasporti regionali gratuiti. Lo diciamo con amarezza, ma la tentazione di seguire le lezioni on line è comprensibile. Non ce la sentiamo di biasimare i colleghi che fanno questa scelta”. I servizi di ristorazione non versano in uno stato migliore. A parlarne è Francesco Tramontano, studente lavoratore e protagonista dell’esperienza della “mensa occupata” che va avanti da diversi anni: “Gli investimenti fatti non hanno garantito la presenza di uno spazio nel quale consumare un pasto caldo a prezzi accessibili. Gli enti preposti seguono logiche puramente aziendaliste e un servizio del genere non risulta conveniente, semplicemente perché non produce profitti”.   

 

Allargando lo sguardo ad altre realtà italiane, non è difficile rilevare la presenza di problemi simili. Il collettivo studentesco Split ha occupato le aule del rettorato di Bologna, denunciando il dramma di tanti universitari costretti a vivere in “appartamenti fatiscenti con prezzi esorbitanti, rincorrere le scadenze di CFU imposte dall’Università per non perdere la borsa di studio, lavorare a nero con paghe con cui a malapena si riesce a pagare l’affitto”. La protesta si è spostata anche nello Student Hotel, una delle tante residenze di lusso nate in Italia negli ultimi anni, gestite da multinazionali e destinate a offrire camere a prezzi molto alti. Gli animatori della mobilitazione chiedono “alloggi per gli idonei non assegnatari degli studentati”, vogliono che l’ateneo si faccia “garante degli affitti concordati”, che tolleri i ritardi nel pagamento delle tasse e recuperi gli “spazi vuoti” convertendoli “in case per studenti e studentesse”. Anche fra i docenti ci sono state mobilitazioni significative, fin dai primi mesi della pandemia. A Padova è nato un gruppo denominato “Università libera, università del futuro”, che ha chiesto a gran voce di “rendere effettivo il diritto allo studio con finanziamenti adeguati per i meno abbienti”. Riflessioni importanti sono state dedicate anche alla didattica, senza demonizzare le nuove tecnologie, ma sottolineando la necessità di integrare l’esperienza virtuale con quella “diretta, fisica, corporea”, fatta di discussioni con gli insegnanti e fra studenti: “La vera uguglianza non è garantita dalla Dad, ma da uno Stato che interviene per rimuovere le disuguglianze”. 

 

La lezione mista – capace di garantire contemporaneamente la possibilità di seguire in presenza o in rete – è stata quella preferita dalla maggioranza degli atenei tradizionali. Eppure proprio contro questa modalità si erano pronunciati i docenti in maniera quasi unanime. È stata sottolineata l’impossibilità di far convivere due tecniche di insegnamento completamente diverse l’una dall’altra, mettendo sullo stesso piano studenti che si trovano in luoghi diversi, garantendo a tutti lo stesso livello di partecipazione, rendendo fruibili gli stessi materiali. Ha inoltre preso corpo una tendenza massiccia a far uso delle registrazioni delle lezioni, che riporta l’intero processo di apprendimento in una dimensione asincrona, consolidando l’idea di un sapere statico, destinato a essere trasmesso, ma non condiviso. Molti hanno sottolineato anche gli enormi svantaggi dei disabili e delle persone affette da disagi psichici, costrette a rimanere chiuse in una stanza davanti a uno smartphone o a uno schermo. Si rischia, in definitiva di creare distanze sempre più profonde tra chi ha la possibilità di vivere l’università nella sua concretezza relazionale e chi la vive invece in differita, “come qualcosa che accade altrove”, da incontrare “solo di tanto in tanto”. 

 

Emergono quindi alcuni problemi cruciali, tanto scontati quanto dimenticati: il sistema va ripensato alle fondamenta, a partire proprio dalla centralità di una didattica da sviluppare in classi ristrette (ben diverse dagli attuali stanzoni che accolgono centinaia di studenti appollaiati fra sedie e pavimenti), con dialoghi aperti fra tutti i protagonisti del processo formativo, con un’attenzione costante al rapporto fra insegnamento e ricerca. Questi obiettivi si possono raggiungere solo con alloggi, borse di studio e strutture efficienti: l’assenza di questi ingredienti finisce per escludere chi è più povero o ha avuto meno opportunità nella vita. La riapertura di questo anno accademico è stata ispirata dalla volontà di tornare alla “normalità”, senza capire che proprio la “normalità” era il problema.

 

L’università è un percorso fatto di presenza, ma anche di spazi condivisi, biblioteche aperte, luoghi di riunione, occasioni di confronto non pianificate: tutte cose che oggi abbiamo in maniera singhiozzante, o non abbiamo affatto. Non può ridursi a una corsa affannata fra un'aula e l'altra, prima di prendere l'autobus o il treno che ti porterà a casa. L’università deve poter essere amicizia, aiuto reciproco, notti trascorse a studiare insieme prima degli esami, incontro fra diverse culture e visioni del mondo. Deve mettere in moto il sapere e non replicarlo in maniera statica. Deve rendere possibile la mobilità sociale e non limitarsi a ratificare le gerarchie esistenti, operando una vuota e ingiusta selezione fra disuguali. 

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