Londra. The Mind as a Matter

18 Giugno 2012

Con gli straordinari progressi degli ultimi decenni nel campo delle neuroscienze e lo sviluppo dei sistemi di brain imaging, il sogno eterno di svelare i segreti della coscienza sembra diventato un obiettivo scientifico neppure troppo distante. Contemporaneamente l’interrogativo se la coscienza sia o meno riducibile a processi celebrali è diventato la grande ossessione di filosofi e scienziati così come del grande pubblico.

 

La recente esposizione alla Wellcome Collection di Londra, Brains: the Mind as a Matter, taglia corto con questo groviglio di speranze, effettivi progressi scientifici e interrogativi filosofici e offre una prospettiva sul cervello inedita per i nostri tempi, che ricorda un approccio naturalistico di stampo ottocentesco. Non il cervello come macchina pensante e come origine della coscienza dunque, ma il cervello come oggetto fisico: quella materia organica biancastra e spugnosa del peso di circa un chilo e quattrocento grammi che sta mollemente adagiata sulla sommità della colonna spinale e protetta dal cranio.

 

L’esposizione si presenta come una sorta di cabinet de curiosités, più che come un percorso pedagogico dal taglio storico e sociologico. Secondo le intenzioni dei curatori, Marius Kwint e Lucy Shanahan, non si tratta di esplorare “cosa i cervelli fanno a noi, ma cosa noi abbiamo fatto ai cervelli”, visti come oggetti da misurare, classificare, mappare e riprodurre in modelli, fare a fette e conservare in celle frigorifere e soluzioni preservative.

 

 

Il banco del macellaio viene inesorabilmente alla mente a più riprese: di fronte ai cervelli conservati in barattoli, soprattutto durante l’epoca vittoriana, ossessionata dalla misurazione e convinta che le facoltà intellettive degli individui fosse direttamente proporzionali alla forma e peso del loro cervello; o alle foto dell’estrazione dei cervelli dalla scatola cranica; ma soprattutto di fronte ad un documentario prodotto per l’occasione, in cui si mostra l’operazione di dissezione di cervelli di pazienti recentemente deceduti che viene fatta ogni mercoledì all’Hammersmith Hospital di Londra.

Proprio in questa sua brutale matericità sta la forza della mostra: nel dissacrare gran parte della fascinazione intorno ai poteri del cervello e al mistero dell’emergenza della coscienza per mostrare quanto questa materia, qua materia, sia già di per sé meravigliosamente interessante. 

 

 

Tra le mirabilia esposte non mancano fettine del cervello di Einstein (conservate malgrado la sua volontà di essere cremato integro), nonché di criminali che hanno eccitato l’opinione pubblica inglese all’inizio del secolo scorso, crani riportanti tracce di trapanazione e strumenti antichi e moderni per realizzare questa operazione in uso dall’età del bronzo fino alla prima guerra mondiale (una nota ci informa che alle volte alcuni pazienti affetti da un’eccessiva pressione sanguigna nel cervello ottenevano un parziale sollievo dall’operazione).

 

 

Coerentemente con l’intento della mostra di stupire ed emozionare più che informare, ciò che rimane più impresso sono le numerose opere d’arte contemporanea esposte che insistono sul cervello come un oggetto di cui contemplare le  proprietà estetiche, al pari di altri oggetti dalla forma e consistenza peculiari. L’opera di Katharine Dowson, My Soul, una rappresentazione 3D del cervello dell’artista, dialoga con un modello del sistema sanguigno ad uso didattico ottenuto attraverso l’iniezione di un liquido plastico nei vasi sanguigni cerebrali, mentre i tessuti circostanti vengono dissolti con un acido e mette in rilievo il valore estetico e plastico di quest’ultimo. 

 

 

 

Il tono ironico e polemico che attraversa l’intera mostra è sancito dall’istallazione video Untitled di Daniel Margulies e Chris Sharp che mostra “gli effetti della Sagra della Primavera di Stravinsky e della Terza Critica di Kant sul cervello umano secondo un approccio di visualizzazione per risonanza magnetica funzionale”.

 

 

Il modo in cui l’attività corticale è evidenziata dall’MRI sembra armonizzarsi con l’andamento della musica di Stravinsky, ma si tratta chiaramente di un’illusione cognitiva dovuta alla nostra robusta tendenza a creare associazioni tra musica e immagini simultanee e a vederle come in relazione espressiva reciproca. I due artisti ridicolizzano così il credo diffuso dalla vulgata neuroscientifica che le recenti tecniche di brain imaging rendano finalmente possibile vedere letteralmente il nostro pensiero in azione.

 

Ma anche se l’ispezione del cervello (con seghe, trapani, siringhe, bisturi, scosse elettriche e fluidi di contrasto, prima che con la risonanza magnetica) non permette ancora di svelare i misteri della coscienza e del pensiero, tutto quello che ancora abbiamo fatto e facciamo ai cervelli nel tentativo di capirci, curarci e di migliorarci, resta una storia avvincente.

 

 

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