Pensare all'etica / L’ottimismo della ragione

6 Maggio 2018

La ragione pessimista

 

Mi è accaduto di leggere e recensire, su queste pagine, il libro Esiste un mondo a venire?, di Debora Danowski ed Eduardo Viveiros de Castro. In quel libro si avanza l’ipotesi di un’era terminale di Gaia, o forse dell’estinzione umana dovuta al venir meno della condizioni di sopravvivenza climatica e atmosferica nel mondo. Ricordo che la lettura di quel testo mi impressionò profondamente, facendomi tornare all’epoca in cui, bambino, sentivo i turbamenti degli adulti, dopo la fine della guerra: la bomba atomica, la possibile sopravvivenza di Hitler, e il suo ritorno. La gente, negli anni Cinquanta, era terrorizzata.

Stavolta però non è più “la gente”, che, al contrario, sembra andare spensierata incontro al disastro; sono i filosofi, gli scienziati coscienziosi e gli antropologi a dare l’allarme: Bruno Latour, Isabelle Stengers, Donna Haraway, gli autori del libro sopra menzionato. Sembra che tutti, di fronte al pessimismo della ragione, invochino un ottimismo della volontà difficile a venire. 

 

Ottimismo della volontà

 

L’ottimismo della volontà richiede una svolta corporea nel modo di pensare. La volontà, secondo Arthur Schopenhauer, è ciò che sta oltre la ragione kantiana. C’è qualcosa che non si può sottoporre a rappresentazione (Vorstellung). Il termine kantiano Vorstellung (rappresentazione) è sia ciò che muove l’ammirazione di Schopenhauer per Immanuel Kant, che la sua differenza da Kant. L’irrappresentabile, ciò che non può assumere il carattere di fenomeno, per Schopenhauer è il corpo. Il corpo, locus delle passioni, sprigiona le energie necessarie a ogni tipo di rinnovamento: il gioco, la speranza, il coraggio, la misericordia, la compassione emergono dallo slancio vitale del corpo, c’è una Grande Ragione del corpo, sosteneva Friedrich Nietzsche, sulla scorta di Schopenhauer.

Pessimismo della ragione, dell’intelligenza, della visione del mondo (Weltanschauung), ottimismo della volontà. La formula viene attribuita ad Antonio Gramsci, tuttavia attraverso Malwida von Meysenbug si giunge a scoprire l’interesse di Nietzsche per questa formula già enunciata da Jacob Burckhardt, suo collega all’Università di Basilea. Weltanschauung, visione, o concezione, del mondo, è un termine usato spesso nel campo della cultura tedesca, sia in ambito letterario che filosofico, indica un orizzonte concettuale, ma anche un modo di sentire, di percepire e guardare il Mondo. 

 

 

La ragione ottimista

 

Tuttavia c’è anche una tradizione di pensiero che mostra altri tipi di riflessione e si domanda se sia proprio necessaria una ragione pessimista, pone cioè una questione etica. L’etica mette in questione le premesse di un modo di esistere, di fare, di pensare. Si tratta dunque di capire se l’idea di “pessimismo della ragione” sia o meno la conseguenza di una visione restrittiva e omogeneizzante della ragione; di una ragione fondamentalista, che riduce la conoscenza e la scienza ad alcuni dogmi generali, che non riesce a vedere fuori da un orizzonte cieco e non pensa il pensiero; non vede che non vede. In altri termini, una ragione tecnologica, meccanicista, limitata.

Questa seconda tradizione ha come punto di riferimento, in Italia, la lettura, da parte di Enzo Paci, del testo di Edmund Husserl: La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, pubblicato nel 1936, anno in cui sembra sfumare l’ultima speranza di libertà, dopo la capitolazione della democrazia in Italia e in Germania, la sconfitta della guerra civile in Spagna, e le grandi purghe staliniane. Anno horribilis, in cui crolla ogni sogno di libertà. Proprio allora Husserl pubblica questo testo in cui la ragione assume una connotazione più vasta e si coniuga con il corpo vivente: con l’empatia. Si tratta, per Husserl, di trovare un orizzonte di senso per le scienze. 

 

Meno di trent’anni dopo, dopo la devastazione della guerra e dello sterminio, nel 1963, Paci scrive Funzione delle scienze e significato dell’uomo, una lunga interpretazione dell’opera di Husserl del 1936, nell’epoca del boom economico postbellico. Il 1963 è l’anno della crisi di Cuba e dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, dell’enciclica Pacem in Terris, ma anche della morte di Papa Giovanni XXIII, l’anno in cui Marthin Luther King dice “I have a dream”. È un periodo in cui la politica incomincia a prendere posizione per i diritti umani, li rivendica davanti al muro di Berlino, rispetto a un’atavica presa di posizione delle chiese cristiane a difesa dei privilegi. Cinque anni dopo accade il sessantotto, esattamente cinquant’anni fa. È l’anno dell’assassinio di Marthin Luther King, ma nasce la teologia della liberazione in Colombia e il maggio di Parigi. Ogni anno, ogni epoca, ha i suoi lati positivi e negativi.

 

Tempi moderni

 

Oggi, nel 2018, la scienza sta tornando a essere la riduzione fondamentalista a pochi principi generali della realtà, ogni esperimento deve essere sottoposto a criteri di controllo burocratici, ogni ipotesi, se non è immediatamente verificata e non ha un ristretto campo di applicazione disciplinare va rifiutata. È un’epoca in cui né Einstein, né Heisenberg, né Freud troverebbero ascolto. Siamo di fronte a un risorgere dell’oscurantismo politico, dei nazionalismi, della costruzione di nuovi muri, delle destre fasciste. Siamo di fronte al fondamentalismo islamista, all’aggressione dei gruppi terroristi come Isis, Hamas e altri, benché tra loro diversi e, ancora più preoccupante, a gesti isolati di terrorismo psicopatico; come il giovane tedesco/iraniano che spara sulla folla a Monaco gridando: “via gli arabi dalla Baviera!”, i recenti episodi di Münster. 

Da almeno trent’anni a questa parte, Mauro Ceruti si inserisce in queste tessiture del pensiero, che definirei dell’“ottimismo della ragione”. Questi temi sono oggetto di analisi nel Tempo della complessità, apparso di recente per Cortina. Si tratta di una lunga intervista sull’Europa a partire, appunto, dall’ottimismo della ragione. Qui la ragione e la scienza non si riducono a tecnologie schizoidi, prive di connessioni, cieche. Jean-Paul Sartre, seguace francese di Husserl, aveva proposto una distinzione importante tra il tecnico e l’intellettuale; sosteneva che l’intellettuale non è altro che un tecnico, tuttavia l’intellettuale è un tecnico che pensa la tecnica che usa. 

 

Potremmo partire da qui per comprendere le parole chiave del testo di Ceruti, tra queste il termine “gioco a somma positiva”, che implica la condivisione, versus “gioco a somma nulla”, che implica l’accaparramento delle risorse da parte di pochi, di chi arriva prima, di chi è più furbo. Oppure l’idea di non sapere di non sapere, “che mette in discussione il nostro stesso spazio cognitivo”, alla quale aggiungerei l’idea di “non sapere di sapere”, lo spazio dei nascosti. Coloro che possiedono un sapere che anch’essi non sanno di avere e che emerge, in modo inatteso, in occasione di un evento particolare. Il giusto che ci sta proponendo Gabriele Nissim, non è eroe; è qualcuno che ha salvato qualcun altro nei minuti particolari, in una circostanza inattesa, lo ribadisce nel suo ultimo libro Il bene possibile, per Utet.

Al museo della Shoah di Roma, il 19 e il 20 aprile scorsi David Meghnagi, Marcelo Pakman e io abbiamo organizzato un convegno sull’Arte e la Shoah; sono intervenuti artisti, psicoterapeuti, scrittori e filosofi da tutto il mondo: Brasile, Argentina, Israele, Italia, Messico e altri paesi. La domanda alla quale si è cercato di rispondere è: nell’epoca della scomparsa dei testimoni diretti, come testimoniare la Shoah attraverso l’opera d’arte? 

 

Non c’era accordo su ogni punto, al contrario, il dibattito è stato vivace, intenso e complesso: serve la didattica della Shoah? Come dev’essere svolta per essere efficace? Se la Shoah è incomparabile, può essere almeno la chiave, il paradigma di lettura rispetto ad altri genocidi? Com’è possibile essere giusti senza essere “eroi senza macchia”? 

Nonostante le controversie, i fallimenti, le sconfitte e le regressioni psicotiche dell’Europa, esiste una ragione ottimista, che non si spaventa, che non assume toni moralisti di condanna assoluta di quanto accade, ma che, con pazienza, ripensa all’etica, intesa come crescita delle scelte possibili, aumento dei gradi di libertà del pensiero, apertura alle molteplicità e alle differenze. 

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