Il poeta che ama la pace / Tibullo

12 Marzo 2016

C’era un attore spagnolo un tempo molto noto, il quale aveva dichiarato che la sua fortuna era cominciata facendo il morto. Ossia: era così abile nel recitare questo ruolo, così veritiero, così vivo o così defunto il cadavere da lui impersonato in non so quale film, che da quel momento vari registi lo notarono e gli affidarono parti rilevanti (non solo funebri) nelle loro opere.

L’attore in questione mi pare fosse Fernando Rey.

 

Anche Tibullo, questo delicato poeta elegiaco amico di Orazio e Ovidio nonché contemporaneo di Augusto, ama rappresentarsi in pose mortuarie. Ed è anche lui davvero bravo e calato perfettamente nella parte: nel testo che apre il primo libro delle sue poesie descrive con dettagli commoventi il suo futuro funerale: ci saranno ragazzi e ragazze ad accompagnarlo e nessuno potrà trattenere le lacrime (illo non iuvenis poterit de funere quisquam / lumina, non virgo sicca referre domum); ma soprattutto ci sarà lei, Delia, il suo amore (non l’unico, a onor del vero): lui, Tibullo, morendo, le avrà tenuto la mano cui, poco a poco ma inesorabilmente, verrà meno la presa (et teneam moriens deficiente manu).

 

Delia non dovrà trascurare di rendere il dovuto omaggio alla sua ombra, ai Mani del poeta, ma non dovrà nemmeno eccedere nei rituali del dolore: non si strappi i capelli che sono così belli, non si deturpi con graffi le morbide guance (tu manes ne laede meos, sed parce solutis / crinibus et teneris, Delia, parce genis).

Intanto, in attesa del triste evento, facciamo l’amore, suggerisce il poeta all’amata (interea, dum fata sinunt, iungamus amores). È così bello ascoltare i venti che imperversano fuori, e la pioggia gelida che batte furiosamente all’esterno, mentre si è stretti nel letto a lei, al caldo, nel mezzo sonno (quam iuvat immites ventos audire cubantem / et dominam tenero continuisse sinu / aut, gelidas hibernus aquas cum fuderit Auster / securum somnos imbre iuvante sequi).

 

Nell’elegia terza, sempre del primo libro, il nostro poeta va oltre e non solo immagina il proprio decesso, ma si costruisce in anticipo il sepolcro con tanto d’iscrizione, poetica naturalmente, in distici regolamentari: QUI GIACE, DA MORTE SPIETATA CONSUNTO, TIBULLO / MENTRE SEGUIVA MESSALLA PER MARE E PER TERRA (HIC IACET IMMITI CONSUMPTUS MORTE TIBULLUS / MESSALLAM TERRA DUM SEQUITURQUE MARI). Messalla è il mecenate (o il Mecenate) di Tibullo, o meglio: il mecenate che è anche l’anti-Mecenate, perché il circolo di Messalla Corvino era più o meno l’unica opposizione consentita (la fronda) da un regime autoritario e repressivo quale quello di Augusto. E così come Orazio aveva seguito o immaginato di seguire Mecenate nella battaglia di Azio contro Antonio, Tibullo doveva seguire Messalla nella spedizione in Cilicia, facendo parte della sua cohors praetoria, cioè del codazzo di giovani che accompagnava i governatori romani in provincia, con lo scopo preciso di arricchirsi a più non posso. Le movenze del testo oraziano (è l’epodo primo) e di quello tibulliano sono simili. Orazio: Ibis Liburnis inter alta navium, / amice, propugnacola… Tibullo: Ibitis Aegeas sine me, Messalla, per undas…

 

Come si vede, in entrambi i componimenti, l’atmosfera è un po’ quella dell’armiamoci e partite. I poeti, per un motivo o per un altro, augurano buon viaggio ai combattenti ma loro se ne stanno sulla riva, a guardare le navi salpare, e a poetare saluti, però ben saldi sulla terraferma.

Nel caso di Tibullo per via di un male che lo aveva colto all’improvviso e costretto a soggiornare sull’isola di Corfù, forse un male provvidenziale che l’aveva tenuto lontano dalla guerra, perché Tibullo, come già Properzio, non amava la guerra, proprio per niente. E ciò è ampiamente testimoniato dalla decima elegia che chiude il libro primo.

Chi fu il primo che inventò le spade orrende? / Che uomo feroce e ferreo fu quello! (Quis fuit horrendos primus qui protulit enses?/ Quam ferus et vere ferreus ille fuit!) questo è l’inizio dell’elegia, e svolge il topos dell’eurema, dell’invenzione o, meglio, dell’esecrazione dell’invenzione, in questo caso delle armi. Topos fortunato, se, attraversando i secoli, lo possiamo ritrovare nella Salubrità dell’aria del Parini: Pera colui che primo…

Tibullo si chiede: ma come si può essere così pazzi da voler affrettare la morte con la guerra? Oltretutto non ce ne sarebbe nessun bisogno: la morte è già qui che incombe, senza che nessuno la chiami (Quis furor est atram bellis accersere mortem? / Imminet et tacito clam venit pede).

 

Il nostro poeta ama la pace, anzi la Pace, in greco Eirene. Quanto la nomina (Pax… Pax… Pax… Pace… Pax…) nel testo e la mostra che coltiva i campi, conduce i buoi sotto il giogo ricurvo, nutre le viti, serba il mosto dell’uva. Questa è la dea che fa per lui, questa invoca, insieme ai Lari dei genitori (patrii Lares), semplici statue scolpite nel legno, nemiche dell’oro, l’oro maledetto (vitium auri) che scatena le guerre.

 

Le sole guerre che piacciono a Tibullo – le combatta con Delia, con Nemesi o con il ragazzo Marato – sono quelle di Venere, le battaglie del letto.

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