Milano, Palazzo Reale / A Emilio Isgrò affinché mi cancelli

10 Settembre 2016

Isgrò

Palazzo Reale

Caveau delle Gallerie d'Italia

Casa del Manzoni

Milano, fino al 25 settembre 2016

 

Così dedicato, l'amico Buzzati inviava a Emilio il suo Poema a fumetti. Milano, città amatissima da entrambi, omaggia Emilio Isgrò (1937) con una grande mostra antologica di opere storiche e inedite, che si snoda in tre sedi, a ripercorrere la sua lunga carriera di artista polivalente, precursore del concettuale, pittore, scultore, scrittore, poeta, drammaturgo e regista; un artista in senso classico, poliedrico, versatile, colto, sperimentatore infaticabile, impegnato. Un autocurriculum introduce il Sedicesimo d'accompagnamento e guida alle sale. Curata da Marco Bazzini, la mostra a Palazzo Reale presenta un corpus di oltre 200 opere, organizzate tematicamente intorno ai principali nodi dell'elaborazione teorica e artistica del maestro siciliano.

 

A Isgrò, la cui principale attività era, però, quella di editor e giornalista, fu riconosciuto il merito di aver lavorato, fin dagli anni '60, su un linguaggio artistico del tutto originale, che potesse riconciliare la parola scritta e l'immagine figurativa pittorica da un sostanziale conflitto che ha attraversato tutto il secolo, fino all'armistizio siglato dalla poesia visiva, definita come arte generale del segno: un'arte dove queste due modalità espressive si uniscono per creare metafore nuove e aperte al lavoro ermeneutico. «Ut pictura poesis»; in un articolo su Corsera [3] Isgrò cita Orazio, Michelangelo, Doré, T. S. Eliot, i calligrammi di Apollinaire e Pasolini come i maestri che prima di lui si servirono di immagini per far poesia e viceversa

In polemica, se così si può dire, con alcuni amici poeti, per Isgrò la parola stanca giunge a una impasse, ma può, quando non tace, tornare a dire qualcosa proprio nella sua relazione con l'immagine, spesso cancellata a sua volta: in questo caso il testo si fa portatore dell'immagine alla mente di chi guarda. Wolkswagen o Jaqueline sono racconti visivi di una sola parola, immediatamente evocativi di eventi entrati nella storia e in una 'nuova, moderna mitologia'. Sono composizioni a tutti gli effetti, come le Storie Gialle e quelle Rosse degli anni'70, in cui quel rosso che in un primo tempo rimanda a Malevič, è in realtà una fotografia cancellata. 

 

Lolita, 1964 40x60 cm, china su libro tipografico in box di legno e plexiglass, Collezione privata.

 

La cifra inconfondibile della cancellatura gli deriva proprio dal mestiere editoriale: l'editing redazionale compiuto su un testo di Giovanni Comisso nel 1962 gli rese evidente quanto fossero abbondanti le correzioni apportate e divenne immantinente consapevole di trovarsi davanti a «un mare di cancellature, il cui peso era più forte delle parole». 

Queste obliterature, vere e proprie lacune significanti, non tradiscono errore o ripensamento alcuno e sono sempre compiute con gli strumenti e i gesti della pittura e apportate a ogni possibile tipologia di testo (libri, telex, giornali, atlanti e partiture...).

Anche le scelte stilistiche e coloristiche della cancellatura dicono molto sull'evoluzione del suo pensiero, come sulla parabola di ogni avanguardia. Il tratto denso si fa nel tempo meno deciso e definitivo, l'uso sistematico del nero accoglie il bianco, l'acrilico diluito diviene più liquido e la trasparenza acquisita permette all'occhio di intravedere la parola disvelata. 

 

Isgrò capovolge così il concetto per cui cancellare significa sottrarre: il suo gesto non toglie nulla, ma restituisce unicità e dona libertà a ciò che resta scoperto. Le cancellature, infatti, si distendono e illuminano, per contrasto, solo poche parole, – una frase, un rigo appena – un frammento, una nota o segni di punteggiatura; allo stesso tempo, questo procedimento fa emergere anche una griglia di punti e linee, una struttura che ricorda il linguaggio morse. Questa 'liberazione' della parola che si fa segno, non sempre significante o decifrabile all'istante, permette però di lasciarla brillare nel suo essere ciò che è, svincolata dalla rigida struttura interna che un testo esige.

Si pensi alle minuscole lettere, ai numeri, ai soli segni di punteggiatura e alle note che fluttuano sospese sul candore della tela, a quella q minuscola, proprio quella, scelta e sottratta all'Asthetik di Hegel; eccola qui restituire l'essenza e la potenza di quest'opera fondamentale.

Spesso, poi, le opere prendono il nome proprio da queste parole 'salvate', a volte, invece, restano semplici indizi che sfidano la nostra immaginazione a interpretare con creatività molteplici significati possibili e nascosti. 

 

La Q di Hegel, 1972 82x55 cm tela emulsionata, Archivio Emilio Isgrò.

 

Parafrasando Montaigne, Isgrò stesso è materia della sua arte. Ciò s'intuisce fin dalle primissime opere e installazioni esposte, quelle che più riflettono sul concetto di identità e autorialità, e che si potrebbero considerare autoritratti complementari. 

Con Dichiaro di non essere Emilio Isgrò (1971), smentisce categoricamente se stesso; tra tutte le testimonianze raccolte, persino il padre Giuseppe sembra disconoscerlo: Un figlio di nome Emilio? mai avuto. Nello stesso anno, inventa per sé una girandola di vite immaginarie, attraverso testimonianze di uomini di stato, scrittori, artisti, attori, parenti, familiari, amici e anonimi cittadini: L'avventurosa vita di Emilio Isgrò risale al 1975. Così, pare che Nixon non lo considerasse un buon americano e Guido Ballo così testimoniò: Non può essere lui. Isgrò è freddo, astuto, implacabile. Nel 2008, giunge al 'ripensamento' Dichiaro di essere Emilio Isgrò: qui è la negazione non ad essere occultata. In questo rinnegarsi e confondersi identitario sulla soglia del dubbio, nell'incertezza dialettica dell'essere e del non essere, del visibile e dell'invisibile, del pieno e del vuoto, come nella pluralità di un io singolare che si fa moltitudine, si gioca la partita decostruzionista della rappresentazione e del reale, dell'interpretazione e della conoscenza. Un capriccio, un gioco d'enfant terrible, un'aporia. 

Se è vero, come l'artista ci dice, che «perdere la propria identità è tanto difficile quanto ritrovarla», l'identità artistica di Isgrò resta unica e inconfondibile, nelle sue sistematiche contraddizioni, come nella sua evoluzione. Seguiranno in anni più recenti e chiuderanno circolarmente la mostra, altre incontestabili affermazioni di personaggi cosìddetti Censurati: Dichiaro di non essere Galileo Galilei, Dichiaro di non essere Girolamo Savonarola, che, poste sui loro imponenti ritratti provocano un'esitazione, un cortocircuito semiotico, tra il segno fragile e il suo significato incerto, simile a quello già innescato Magritte con La Trahison des Images del 1929 (cfr. ceci n'est pas une pipe).

 

Mare aegeum, 1970 42x56 cm, china su carta geografica intelata in box di legno e plexiglass, Collezione privata.

 

Eppure, proprio con una lunga cancellatura, una sottrazione, l'identità autoriale si ritira per nascondersi – come già dietro Nessuno si era celato Odisseo – l'artista si ri-presenta con un'installazione per 38 libri, intitolata Il Cristo cancellatore (1968), realizzata per la galleria d'arte/editore Apollinaire di Milano – con tanto di avvertenza surreale e ironica che le pagine sono state cancellate non dall'autore, bensì da Gesù Cristo, Ipse. Tra le molte altre indimenticabili cancellature su volumi, oltre ai Promessi Sposi, che più avanti incontreremo da vicino, ricordiamo quelle di un'antica Sacra Bibbia e dell'Enciclopedia Treccani; in mostra ritroviamo anche la nostra preziosa Costituzione cancellata (2010) e la più recente grande tela Cancellazione del debito pubblico (2011-2013) che cita esplicitamente in latino il Pater noster. 

 

Un agire che dalla cancellazione del segno-parola giunge all'estrazione, processo qui esemplificato nella sala in penombra che ospita la poetica installazione Chopin (1979) dedicata al più bohémien dei compositori, per destrutturare dall'interno il concetto ormai stereotipato di romanticismo, con l'intento di attualizzarlo. Qui, dalla penombra, emergono in semicerchio quindici pianoforti, ognuno con la propria lucina minima puntata sulle partiture del musicista, dove le note si sparpagliano (precise e rigorose nei rapporti spaziali) sul bianco dei fogli e diventano messaggi sussurati, frammenti di vita quotidiana, indizi di storie turbolente (senza dubbio, d'amore – come quella con George Sand). Anche in questo caso, il racconto è in bilico tra immaginazione e realtà, come si addice all'arte e alla vita. 

Segue un'altra importante installazione musicale biografica, questa volta dedicata a Bach: Isgrò immagina la veglia della notte che precedette la morte del rivoluzionario maestro barocco e in cui, così si narra, riacquisì la vista. L'opera, enigmatica e proliferante di rimandi, citazioni interrogativi, esposta nel 1985 nella chiesa di San Carpoforo, è qui ricostruita solo in parte: quattro grandi fogli pentagrammati, più uno, incorniciati a terra, su cui si posa una farfalla, a rappresentare la parola e il prologo degli evangelisti secondo Johan Sebastian. Lo sguardo di Isgrò che si volge indietro all'Ottocento, si posa anche su Guglielmo Tell, installazione lirica per libri, quadri, un pianto di bambino, sette singhiozzi d’oboe del Cantone di Uri e altre variabili (Venezia, Biennale, 1993) richiamo cristallino all'opera lirica rossiniana sul leggendario eroe-ribelle svizzero medievale, personaggio la cui reale esistenza storica è ancora dubbia. Siamo così introdotti alla sua produzione 'volumetrica', nell'accezione più scultorea e soprattutto teatrale, che tanta parte ha nella sua carriera.

 

La giara di Gorgia, 2015, installazione per due elementidimensione ambientale tecnica mista, Archivio Emilio Isgrò.

 

Da sempre l'artista si è confrontato con i temi più attuali, politici, ma soprattutto sociali e culturali, come quello della globalizzazione. Ponendo al centro delle sue riflessioni il Mediterraneo, come porto sicuro, bacino di ispirazione culturale e artistica inesauribile, ritroviamo in mostra carte geografiche silenziose d'Italia o della Grecia antica, opere che richiamano all'incontro della cultura occidentale con quella orientale, alle radici della cultura classica che pone il logos, la parola, pronunciata, ma anche ascoltata, come cardine di ogni narrazione. Un 'pensiero meridiano' alternativo, che, come suggerisce Franco Cassano, può e deve riformulare l'idea che il Sud (ogni Sud) ha e offre di sé; in questo caso osserviamo la Sicilia attraverso il filtro del ricordo e di un legame biografico con il territorio. 

Ispirato inoltre dal teatro greco e in particolare dalla trilogia di Eschilo – sulla scena della Magna Grecia dove ancora si tiene viva l'attualità della tragedia – Isgrò recupera la parola attingendo alle fonti antiche, pietre angolari della sua drammaturgia e ripropone una grande poesia visiva, inscenata nello spazio di un terremoto: così lavora alla scenografia dell'Orestea sulle rovine del paese di Gibellina, distrutto dal sisma nel 1968. 

 

Teatro e filosofia sono forse l'eredità più preziosa ricevuta dalla grecità: attingiamo allora dalle Giare di Empedocle, Gorgia, Archimede (2015), ognuna composta da un ritratto su tela e da una giara di pirandelliana memoria, anch'essa dipinta, assediate da una colonia di formiche; ritroviamo poi anche api laboriose (Le Api di Istanbul, 2010) e scarafaggi (Biografia di uno scarafaggio, 1980), già motivi simbolici ricorrenti della poesia classica che diventano essi stessi strumento di cancellatura. 

Restando affacciati su questo mare, incontriamo le recenti (2010-2012) Cancellazioni Ottomane, due figure di guerrieri orientali in qualche modo contrapposti – una è candida ed esitante, l'altra scura ed energica. I richiami più espliciti alla ricchezza culturale del Mediterraneo, al cibo e all'intelligenza di chi lo vive, sono il grande libro Fosforo Phosphorus (2004) e il Seme della relatività (1998), installazione di tre grandi piatti con solo un seme d'arancia gigante al suo interno, quello ‘sputato da Einstein il 1 gennaio del 1912 alle 14:05’

 

Siamo così introdotti ad un'altra marca peculiare dell'artista, che è poi una variante concettuale della cancellatura, la sproporzione – il macroscopico ingrandimento di oggetti, particolari minuti o dettagli. Questi, ingranditi, esigono sia un cambio di prospettiva, sia la disposizione ad accordare attenzione anche a ciò che può sembrare trascurabile. Allontanandosi dalla matrice referente, l'immagine originaria subisce una progressiva dissoluzione per poi compiersi in un'immagine nuova. Celebri sono proprio le variazioni dei semi d'arancia, sculture giganti che omaggiano simbolicamente la sua terra e, ancora, la cultura mediterranea: secondo questo modello realizza per Expo2015 il Seme dell'Altissimo, ora traferito al Parco Sempione.

 

Nel 1986, L'ora Italiana viene presentata a Bologna in memoria della strage del 2 agosto 1980. Pensata originariamente come un'installazione di forte impatto emotivo, si compone di tavole tonde su cui sono state apposte fotografie ingrandite e lavorate 'in levare' dall'artista, cancellature in bianco da cui emergono frammenti figurativi (espressionisti) di vita bolognese di quel tragico periodo. Su ognuna di queste tavole è posto anche un orologio analogico che segna orari differenti, in modo da richiamare l'attenzione per l'hinc et nunc, un punctum di vita irripetibile. Se l'orologio della stazione di Bologna da allora segna sempre le 10:25, il ticchettìo asincrono, insistito e sempre più rapido in modo proporzionale all'intensificarsi della luce nella sala, cessa all'improvviso, ricreando il silenzio assoluto e la momentanea sordità che segue il boato di un'esplosione. Molte sue opere, e questa in particolare, tendono a valorizzare il carattere drammatico e ancora una volta teatrale della produzione artistica di Isgrò.

 

L’occhio di Alessandro Manzoni, 2016 260x160 cm, acrilico su tela montata su legno, Collezione privata.

 

Come accennato in apertura, il cerchio si chiude con una sala di opere recenti (2014) dedicate ai Censurati, personalità della cultura occidentale come Galileo, Savonarola e Malaparte, nonché l'installazione L'oro della Mirandola, cancellature per Giovanni Pico: al centro della sala, posti su alti leggii lignei, i volumi delle Conclusiones come summa in 900 raffinatissime tesi del suo articolato pensiero filosofico, ispirato al Simposio platonico, dai teologi cristiani e dall' ebraismo, nonché prima opera a stampa ad esser stata messa al rogo dall'Inquisizione nel 1487: ridotto in cenere, cancellato. Per miracolo o destino, poche copie furono risparmiate. 

Uomini di epoche diverse che condividono l'incomprensione o la censura delle loro idee, il tradimento e l'avversione cieca dei loro contemporanei al potere. Non manca tra loro, anche un ricordo di Giovanni Testori, Dove comincia il Ponte della Ghisolfa, nei cui pressi è stata posta una Grande cancellatura a lui dedicata, un bassorilievo donato alla città, per mantenere viva la sua memoria e valorizzare lo spazio pubblico, ubanistico-architettonico della città. 

 

Periodicamente, e solo su prenotazione, le Gallerie d'Italia aprono al pubblico il Caveau, ora trasformato – pur conservando il più prossibile la memoria storica attraverso il riuso di parti originali – in una vera e propria 'galleria nella galleria' in stile liberty, dove le innumerevoli opere dell'importante collezione di Banca Intesa San Paolo e Fondazione Cariplo, non esposte nei mutevoli allestimenti di Cantiere '900, sono conservate. Per quest'occasione speciale, ospita la nuova (2016) grande opera L'occhio di Manzoni: l'artista interviene sul celebre ritratto di Manzoni dipinto da Hayez: sovrappone alla figura dello scrittore con la sua tabacchiera un testo, che non conosciamo quale sia né forse lo sapremo mai – Isgrò mantiene il suo segreto; è un artista spesso enigmatico e misterioso, anche quando concede piccoli indizi – e lo cancella con l'acrilico bianco. 

Il desiderio di guardare oltre il cancello, sotto la cancellatura, ciò che è proibito vedere, ci permette di incontrare con lo sguardo l'unica striscia di tela libera dal colore coprente, quell'occhio vivace e trasparente da cui l'opera prende il nome, l'occhio del più grande testimone del suo tempo, quel Poeta che ha osservato il nostro Paese e lo ha raccontato proprio nel momento più decisivo e tumultuoso dell'unità nazionale. L'occhio che permette la visione era per gli antichi l'organo privilegiato della conoscenza: nella lingua greca, infatti, il verbo sapere equivale ad aver visto: il primo, come naturale conseguenza del secondo. 

 

Isgrò rilegge così Manzoni offrendo allo spettatore il suo ritratto in una nuova luce e facendone un simbolo più che mai attuale, finalmente sottratto alle menemoniche e annoiate ripetizioni scolastiche.

L'ammirazione di Isgrò per l'opera manzoniana non è recente. Sembra risalire a un fulmineo innamoramento, quando, ancora bambino, vide in una vetrina della libreria un'edizione economica dei Promessi sposi e cercò (invano?) di riceverla in dono dai genitori. Nel 1967 l'artista aveva lavorato sul romanzo attuando una prima cancellatura e sottolineando la portata universale, nella storia italiana, delle vicende di Renzo e Lucia: I Promessi Sposi non erano due (esposta a Palazzo). Diventa allora quasi naturale concludere il percorso espositivo proprio alla Casa del Manzoni, dove sono esposti i volumi dell'edizione definitiva, detta Quarantana , curata personalmente in ogni dettaglio dall'autore, e dallo stesso pubblicata tra il 1840 e il 1842; a distanza di 50 anni, Isgrò torna all'amato capolavoro letterario, operando cancellature su 35 volumi – 25 nel numero dei lettori che Manzoni prevedeva ironicamente (e scaramanticamente) per se stesso, e 10 altri per altri appestati. 

 

«La cancellazione dei Promessi Sposi è risultata alla fine una delle imprese più difficili e faticose da me affrontate. Giacché, sotto la scorza amabilmente popolare – quella contraddittoria di Don Abbondio e di Padre Cristoforo – resiste in verità nelle pagine manzoniane una struttura strenuamente letteraria più solida dell'acciaio.»

 

Queste cancellature, apportate non solo al testo, ma anche alle minute illustrazioni di Francesco Gonin, mostrano una duplice natura, disponendosi in alternanza di bianco e nero, a tratti dense, a tratti, invece, più liquide e trasparenti, hanno un significato simbolico potente e immediato: sono un indizio che l'artista ci dà, una chiave di interpretazione della sua lettura, positiva o negativa del personaggio o dell'episodio narrato; i volumi, inoltre, sono disposti in modo da richiamare le opere esposte nella sala dedicata dell'iconografia, appena prima di quella dedicata alle diverse edizioni. 

 

Un solo avvertimento pratico: a Palazzo è meglio coprirsi, ché fa freddo. 

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