Sull'arte di abitare il tempo della crisi

29 Ottobre 2014

Come per ogni altro prodotto linguistico, anche agli slogan, si sa, è concessa vita breve. Destinati a scomparire tra le pieghe dei discorsi che la società spettacolare incessantemente produce, il carico di speranza o d'inquietudine che essi disseminano per la strada si trova presto costretto a privilegiare altre formule per poter persistere. E tuttavia, benché cancellati, contraffatti o semplicemente abbandonati, gli slogan riescono ancora a riservare sorprese a chiunque voglia ripercorrerne variazioni e metamorfosi, accorgendosi in tal modo che la maniera in cui essi si oppongono e si fronteggiano nulla ha da spartire con un avvicendarsi pacifico e cronologicamente scandito.

 

 

Basterebbe, ad esempio, accostare il motto riportato dalla copertina di un celebre singolo dei The Clash, "The future is unwritten", alla firma "Start from zero" con cui l'omonimo collettivo di Hong Kong segna i muri della propria città, per accorgersi di come sia pressoché impossibile quantificare in anni, persino in decenni, la distanza che li separa. È come se una frattura incolmabile si fosse insinuata tra queste due modalità di pensare il tempo, sostituendo, alla combattiva speranza del gruppo londinese, la percezione di un futuro inchiodato ai passi frenetici e agitati con cui viviamo quotidianamente. Come se ormai l'unica possibilità di un qualche spiraglio d'avvenire risiedesse soltanto nel ripartire da zero, nel fare tabula rasa del tempo presente; in altri termini, nella radicale destituzione di quell'immobilità convulsiva che sembra oggigiorno costituire la cifra stessa della contemporaneità. L'assenza di una figurazione qualsiasi del futuro, mera prosecuzione di un presente che opprime, non sarebbe altro che il riverbero di un'incapacità radicale di rapportarsi con la propria vita, sempre troppo stagnante e arenata nella noia, o sempre sfuggente con i suoi improvvisi scatti d'accelerazione: alla crisi in cui versa l'immaginazione dell'avvenire corrisponderebbe dunque un'altrettanto drammatica crisi delle attuali forme di vita.

 

Cosa accade allora quando la crisi, lungi dal costituire un momento parossistico o risolutivo, tende a confondersi con la stessa cifra del vivente? Quando più nulla permette di distinguerne l'apice dal normale svolgimento della quotidianità? Restia a ogni tentativo con cui la si vorrebbe ricondurre a una qualche epistemologia regionale, la sensazione diffusa del cedimento di comportamenti e abitudini a cui si era cercato, un tempo, di affidarsi, potrebbe essere letta come il segnale rivelatore di una mutazione antropologica, l'emergenza di un'inedita configurazione dell'esperienza del tempo. Questo è il tentativo promosso dal libro La crisi senza fine. Saggio sull'esperienza moderna del tempo (ObarraO edizioni, Milano 2014) di Myriam Revault d'Allones, secondo la quale la presenza di una crisi assoluta, dilatata al punto da permeare ormai tutti gli ambiti dell'attività umana, non può che interpellarci in merito alla nostra stessa modalità di vivere. Solo in tal modo sarà possibile cogliere la specifica dimensione della crisi come quel «momento particolare in cui l'uomo è costretto a esercitare la propria capacità di iniziare qualcosa di nuovo» (ivi, 98). E questo non solo nonostante, ma proprio a causa della sensazione di opprimente chiusura che in ogni direzione satura l'orizzonte: «il punto di rottura è tale che non abbiamo altra scelta che ripartire» (ivi, 172).

 

 

Certo non si può nascondere il tratto letteralmente straordinario del compito proposto dalla filosofa francese, un compito che reca inoltre con sé l'impossibilità propria di ogni scelta forzata. E tuttavia esso si mostra altrettanto urgente, a fronte della velocità con cui procede quel «processo di detemporalizzazione» (ivi, 11) a partire dal quale non è più nemmeno immaginabile una qualsiasi azione in grado di cambiare o incidere la storia e il suo svolgersi. Consegnati a un tempo senza promesse e senza eventi, in seno al quale ogni opera – sia essa di salvezza o di evasione – rischia giocoforza di risolversi nella salvaguardia dello stato presente, non stupisce il susseguirsi di appelli in cui ciascuno è chiamato a collaborare al fine di arginare l'insicurezza diffusa: "ancora uno sforzo, cittadini, se volete uscire dalla crisi"...

 

È come se, secondo le coordinate tratteggiate da simili retoriche, il collasso di un'intera modalità di vita fosse proposto alla stregua di una mera avaria congiunturale e transitoria, ovvero una crisi settoriale che interessa semplicemente quel particolare ingranaggio o quello specifico comparto di esistenza. E questo non riguarda soltanto la proliferazione di disordini controllati, conflitti immaginari ma dagli esiti feroci e ben reali, guerre civili prodotte nel laboratorio della gestione politica quotidiana, tutta una tecnica per l'amministrazione fraudolenta della crisi, una "cronopolitica"; d'altra parte, una simile somministrazione, ben lungi dal sortire effetti immunitari, non avrebbe altro esito che quello di dilazionare la catastrofe, di frenare il collasso.

 

Sembra così di assistere all'inquietante rovesciamento di un'antica consuetudine: se prima la crisi era un mezzo di governo, un istituto essenziale e funzionale alla gestione dell'esistente al pari dei colpi di Stato così ben descritti da Gabriel Naudé, ora è lei a regnare sopra ogni governo possibile. Se «oggi non parliamo più delle crisi – singolarità plurali legate ad ambiti specifici – ma della crisi» (ivi, 7), è perché l'intero sistema governamentale si trova a doversi confrontare con la disfunzione delle proprie strutture. «Non si tratta più di utilizzare del tempo per assicurarsi una potenza sovrana, ma di prendere atto del fatto che la desincronizzazione e il regime delle "eterocronie" che hanno investito la politica necessitano, oggi, di un vero e proprio lavoro sulle condizioni temporali dell'esistenza umana» (ivi, 132).

 

Si fa sempre più lucido allora il sospetto che, dietro la somministrazione sapiente e massiccia di microcrisi periodiche, dietro l'operazione di deresponsabilizzazione delle decisioni politiche (spesso propagandate nella loro dimensione ineluttabilmente reattiva e circostanziale rispetto alle pressioni esterne), si stia forse preparando l'estremo rimedio attuato dalle istituzioni per mascherare la propria obsolescenza storica sotto i tratti della necessità e dell'urgenza. Come se lo spettacolare susseguirsi di crisi indotte o inscenate non avesse altro esito che quello di mascherare la crisi radicale che ogni rapporto di potere reca con sé, quale sua dimensione più propria. La crisi permanente in cui paiono versare i governi democratici ha smesso di proporsi come mero accidente sul percorso di una perfettibilità tutta aperta al futuro benessere, come eccezione da ricondurre alla normalità, per presentarsi definitivamente nei panni di una cifra costitutiva dell'esistenza. Abbandonati forse definitivamente gli arcana imperii che promuovevano un tempo l'opacità del politico, la retorica della crisi generalizzata esibisce così, in piena trasparenza e persino oltre il proprio stesso calcolo, il carattere problematico e conflittuale a cui ogni governo del vivente deve far fronte.

 

 

Resta tuttavia da chiedersi se, confrontati con l'insistenza di una crisi che coincide sempre più con «il luogo e la norma della nostra esistenza» (ivi, 8), non si possa cogliere, nella dischiusura di una tale prospettiva, l'inedita quanto urgente opportunità per un ripensamento radicale del nostro rapporto con il tempo della crisi. Se, come scrive Revault d'Allones, «possiamo definire "crisi" il fossato che si scava tra spazio d'esperienza e orizzonte di aspettativa» (ivi, 69), essa allora non è altro che la forma sensibile e patetica della nostra non coincidenza con il ritmo del mondo. Alla stregua dei momenti più acuti e decisivi di una vita, nei quali tutto può risolversi o rovesciarsi seguendo le traiettorie più imprevedibili, è grazie al tempo della crisi che la stessa esperienza del tempo della vita riesce a rendersi finalmente percepibile, nell'apertura di uno spazio d'interrogazione o di esitazione in cui ogni gesto vale di per sé, in cui ogni scelta, anche la più semplice, reca con sé qualcosa di irreparabile, di qua da ogni abitudine anestetizzante.

 

In tal senso, «la crisi non è tanto quel che si deve "superare", ma ciò da cui bisogna partire o ripartire per pensare il nostro presente» (ivi, 10). Poco importa che il futuro resti a questo punto irrimediabilmente opaco, consegnato all'incertezza e all'imprevedibilità: la certezza che «un'eventuale reinvenzione politica debba passare dalla riappropriazione di un futuro oggi confiscato» (ivi, 137) nulla toglie all'intuizione che proprio un tale passaggio sia quanto meno inaggirabile, come una zona impervia da attraversare, certo con lenta impazienza, ma forti della ricchezza che solo la condivisione di un cammino può serbare.

 

Per far ciò, si dovrà dunque opporre la massima resistenza a tutte quelle retoriche del disastro imminente, interessate a sostenere la crisi del presente mediante rapidi quanto fuorvianti modelli di salvezza. Già negli anni Trenta, criticando i limiti inerenti la nozione di progresso, Simone Weil aveva messo in luce l'esito funesto di una concezione catastrofica della storia, la quale pone significativamente i momenti di crisi all'inizio o alla fine del tempo normale della vita: al contrario, solo pensando alla crisi di cui ciascuno, qui e ora, è portatore, l'arte di riconfigurare il presente potrà diventare un'impresa di tutti. Un'impresa eminentemente «politica perché è al centro dell'esistenza comune» (ivi, 154), proprio nel cuore della catastrofe in atto.

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