Scrivere era per lei «come abitare la terra» / Natalia Ginzburg

3 Maggio 2016

Prende il via questa sera a Torino l'omaggio a Natalia Ginzburg, nel centenario della sua nascita, nell’auditorium del Grattacielo della sua città, in corso Inghilterra. Tre serate (4, 10, 18 maggio) in cui Toni Servillo, Anna Bonaiuto e Lella Costa leggeranno alcune delle pagine più emozionanti della scrittrice.

 

Ci sono – sostiene Vittorini – due specie di scrittori: «Quelli che, leggendoli, mi fanno pensare “ecco, è proprio vero”, e che cioè mi danno la conferma di “come” so che in genere sia la vita. E quelli che mi fanno pensare “perdio, non avevo mai supposto che potesse essere così”, e cioè mi rivelano un nuovo, particolare “come” sia nella vita». Senza attribuire a questa affermazione un giudizio di valore, ma assumendola a livello puramente fenomenologico, si può dire che Natalia Ginzburg appartenga alla prima categoria. Ogni sua pagina, narrativa o saggistica e perfino teatrale, ci mette di fronte a idee e intuizioni che ci sembra sempre di avere avuto (non è detto poi che sia davvero così), ci fa incontrare figure e personaggi che ci pare di conoscere già da tempo, ci fa riscoprire il possesso di salde convinzioni che non si era sicuri di avere prima della lettura. E questo non dipende soltanto dal fatto che la consuetudine con i suoi libri ha segnato la nostra adolescenza, ma deriva soprattutto da quel suo modo di parlare a nome di molti (se non di tutti) e di creare con i suoi lettori e le sue lettrici un legame di solidarietà e di compassione, che sono il riflesso di una intelligenza e di un’attenzione posata costantemente sulla condizione umana.

 

Ginzburg ha avuto l’estremo privilegio di crescere in casa Levi: con il padre, illustre biologo e maestro di Rita Levi Montalcini; la madre, sorella di Drusilla Tanzi (“la mosca” di Montale) e amica di Filippo Turati e Anna Kuliscioff; i fratelli Gino, Mario e Alberto che sono stati parte del nucleo più forte della resistenza antifascista torinese; la sorella Paola, moglie di Adriano Olivetti e amante di Carlo Levi. La casa torinese, dove abitavano i Levi, vive in un rapporto osmotico con quanto di meglio potesse nascere e passare per la città, ed è aperta alle visite dei più importanti rappresentanti della cultura e della politica italiana degli anni Trenta e Quaranta. Dopo il matrimonio con Leone Ginzburg, conosciuto grazie ai fratelli, collabora alla “costruzione” di altre due “case”, anch’esse frequentate dalle personalità più importanti per la cultura del nostro paese. L’Einaudi, dove lavora per lungo tempo dopo la guerra e la morte del marito, insieme a Pavese, Balbo e Calvino, e la propria casa, con i figli Carlo, Andrea e Alessandra. 

 

Nell’abitazione romana vicino al Pantheon, in cui si trasferisce con il secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini, e dove resterà fino alla morte, continua a vivere accanto alle più grandi personalità del secolo scorso, eppure nelle sue pagine, che a volte si possono sfogliare anche come l’album di fotografie di tutta una generazione di scrittori, scrittrici e intellettuali, il suo sguardo rimane con discrezione a una certa distanza, quasi conservasse le tracce di quella visione prospettica della bambina che osserva il mondo degli adulti che è alla base del dispositivo narrativo di Lessico famigliare (1963).

Vissuta sempre negli ambienti più fecondi dell’elaborazione culturale, Ginzburg ha gettato su quel mondo uno sguardo marginale, proveniente da un luogo appartato e fuori fuoco. Tale capacità di guardare il centro come se stesse ai margini, pur essendovi in realtà immersa, è il primo dei tratti distintivi del suo “stile” ed è il primo dei segni di trasgressione al canone dominante, che connota «l’uso irritante di un’intelligenza “diversa”», cioè la caratteristica – per Garboli – della scrittura saggistica di Natalia Ginzburg. 

 

La scrittura del noi

 

La conseguenza immediata di questo destino d’elezione è, dunque, l’acquisizione di una strana forma di scrittura dell’io, in cui l’io è assente, nascosto, dislocato, immerso e reinventato nel noi; un noi che, nelle memorie dell’infanzia e della giovinezza, è carico dell’esaltante privilegio dell’appartenenza alla famiglia Levi prima e alla “famiglia Einaudi” dopo, mentre nei ricordi della guerra assume i toni dolenti dell’eccezionalità della Resistenza – esperienza fondante che sfugge di continuo a ogni possibile esposizione alla retorica del dolore. È un noi, infine, che nelle pagine dei saggi scritti negli anni Settanta e Ottanta finisce per caricarsi dei toni della consapevole disappartenenza al presente: anche in questo caso in una sostanziale sintonia con gli amici e i compagni di strada della sua generazione. Si tratta sempre di una “voce plurale”, che non rinuncia alla responsabilità individuale, ma riesce ancora a sentirsi parte di un’esperienza collettiva. 

 

Gran parte del fascino di Lessico famigliare consiste proprio nell’essere l’autobiografia di una famiglia, non della voce narrante: da qui una delle invenzioni più grandi della penna di Ginzburg, cioè l’originalità di una scrittura memoriale da leggere «come un romanzo» (è la scrittrice stessa a esplicitare questa raccomandazione nella premessa). I romanzi di ambientazione piemontese e quelli definiti da Garboli “romani”, in scia con il Lessico, portano le tracce della vita degli altri e per paradosso sembrano circoscrivere il racconto di colei che dice io. 

 

In realtà, il luogo eletto da Ginzburg per la ricostruzione della propria “vita immaginaria” è la forma del saggio. Attraverso la pratica costante di una scrittura “quotidiana”, di per sé anticanonica, consegna alle pagine di giornali (La Stampa, Il Corriere della Sera, l’Unità e La Repubblica, con cui collabora costantemente a partire dagli anni Sessanta) quei frammenti di “diario in pubblico” che compongono, nel progressivo giustapporsi delle tessere, un’autentica autobiografia letteraria. Le piccole virtù (1962), Mai devi domandarmi (1970) e Vita immaginaria (1974) contengono almeno una ‘scheggia’ che, posta accanto alle altre, lascia intravedere i contorni di un autoritratto. Nei tre saggi Il mio mestiere, Ritratto di scrittore, Vita immaginaria, rispettivamente collocati nelle tre raccolte, ma in fondo anche in altri testi sparsi, Ginzburg scrive di sé restituendo i tratti della sua fisionomia di autrice, segnati in modo diverso dal tempo che passa, e della fedeltà al proprio mestiere, inteso sempre come passione e «vocazione» esclusiva e assoluta: come il modo tutto suo di «abitare la terra» (Ritratto di scrittore). Perfino in queste occasioni non si abbandona totalmente alla scrittura dell’io, ma continua ad immergere la propria voce in una prima persona plurale o nella apparentemente anonima e asessuata voce dello «scrittore»; eppure è di lei che parla, dei tormenti e della impasse di una dizione in cui realtà e fantasia finiscono per abbeverarsi alle fonti della memoria in virtù di «una sorta di fedeltà alle cose che sono state» (Vita immaginaria).

 

Natalia Ginzburg. 

 

Gli oggetti e le virtù

 

A differenza delle altre due madri della letteratura italiana del Novecento, Elsa Morante e Anna Maria Ortese, che arredano una “stanza tutta per sé” nei sortilegi affabulatori dell’immaginazione, Natalia Ginzburg resta sempre ben ancorata a «un posto dove tutto è chiaro, inesorabile e reale» (Vita immaginaria), invadendo di continuo l’orizzonte nel quale il canone dominante maschile è più forte e inattaccabile. Malgrado abbia preso le mosse da un territorio che poteva ricordare toni e accenti pavesiani, il realismo della narrazione ginzburghiana trova una strada molto personale, perché scopre una via per dare respiro a quel «piccolo spazio di realtà» in suo possesso, provando a far crescere da quelle «piccolissime porzioni di verità» distillata dalla sua esperienza «un ricco suolo di verità sulla terra». In tale direzione Ginzburg si serve di altri due elementi che definiscono il suo stile e che percorrono in modo trasversale forme e generi da lei sperimentati: una “poetica degli oggetti”, che lega la scrittura all’hic et nunc del proprio tempo, e una tensione morale, forza opposta a quella, che apre dentro l’orizzonte del presente una breccia verso il dover essere, se non del migliore dei mondi possibili, almeno di un universo differente dallo scenario opaco dell’oggi.

 

Il catalogo degli oggetti presenti nei romanzi e nei saggi, nelle commedie e negli elzeviri, mostra la funzione di immersione ironica e dolente nelle radici del proprio tempo ed è, insieme, una delle declinazioni tipiche del realismo ginzburghiano. Basterà ricordare a tal proposito, seguendo un po’ casualmente i capricci della memoria di una lettrice di lunga data, «il profumo chiamato “notturno”» che Delia compra nella Strada che va in città; il «treno lungo lungo con una grossa nuvola di fumo nero» disegnato nel taccuino del protagonista nell’incipit di È stato così; i giocattoli costruiti «con un po’ di segatura e qualche scampo di stoffa» da Valentino nell’omonimo racconto; i mobili e i divani di cui vanno alla ricerca Elsa e Tommasino nelle Voci della sera; oppure ancora, passando al versante saggistico, l’ironica e divertita descrizione di quella «sostanza orribile, scura e untuosa, che si spalma sul pane e che si chiama Nutella» (I lavori di casa, in Mai devi domandarmi), che fa la sua comparsa nelle colazioni caotiche dei figli nella casa al mare della scrittrice.

 

È in Caro Michele, il romanzo forse più riuscito dopo Lessico famigliare, che il meccanismo di questa poetica degli oggetti emerge con più evidenza. Fruttero e Lucentini, a cui si deve probabilmente la recensione più bella dedicata a un’opera ginzburghiana, lo hanno letto come un romanzo di fantascienza appartenente al filone dei «romanzi cosiddetti “catastrofici”», dove nelle prime pagine viene delineato lo scenario apocalittico a cui fa seguito il racconto delle vicende dei sopravvissuti «tra le rovine di una civiltà crollata». L’archetipo narrativo da cui discende il filone è, secondo la coppia F&L, Robinson Crusoe, il cui momento più alto è ravvisato nell’elencazione degli oggetti ritrovati nel relitto della nave. Attraverso l’operazione di recupero, gli oggetti riacquistano la loro «tangibilità» e la loro «perduta “utilità”», naufragata nel regno del ripetibile e del sostituibile che domina la società tecnologica. F&L sostengono che Caro Michele, all’interno di tale filone, rappresenti in realtà un unicum, poiché nelle sue pagine il «postulato catastrofico» viene «addirittura sottinteso». I sopravvissuti sembrano non accorgersi dello scenario funesto e rovinoso che li circonda e con lo sguardo fisso e allucinato si «aggrappano alle poche cianfrusaglie emergenti dalle ceneri».

 

Eppure, notano ancora i due, se a Caro Michele manca il lieto fine, caratteristica tipica del genere, esso è pur sempre «un libro che si legge d’un fiato e che non lascia affatto al lettore l’impressione di aver ricevuto un disperato messaggio di morte. La ragione è evidente: senza che egli se ne accorgesse, l’autrice è venuta via via recuperando anche per lui un numero straordinario di oggetti e ad ogni pagina l’orecchio esercitato percepisce la voce di Natalia che ripete “very useful to me, very useful to me…”. Perché è lei che interpreta la parte di Robinson […]. Messa da parte, per non piangerci sopra, la cronaca del disastro iniziale, non ci poteva dare quella sorridente dell’uscita dal buio. Il pudore escludeva entrambe». 

Come nel romanzo del ’73, Ginzburg sembra sempre svolgere «la parte di Robinson» e divertirsi a raccattare oggetti speciali (le grandi virtù): in ogni caso il gesto ultimo della sua scrittura è offrire ai lettori le sue storie scritte per loro – così come La Storia di Elsa Morante è un romanzo «scritto per gli altri» (Appunti su “La Storia” in Vita immaginaria). In questo assoluto «altruismo del narrare» si può scorgere una delle declinazioni della sua personale interpretazione dell’engagement della letteratura.

 

Pierpaolo Pasolini, Natalia Ginzburg e Giorgio Bassani. 

Il passo e la voce

 

 

La discontinuità marcata dalla pubblicazione del Lessico, su cui insiste Garboli nell’evidenziare il discrimine fra il tempo torinese dell’elogio dell’appartenenza e la successiva stagione romana del rimpianto e della disappartenenza, potrebbe leggersi oggi come un segno di superficie: a cento anni dalla nascita della scrittrice, conviene forse lasciare emergere le tracce di continuità che danno il senso della estrema coerenza di tutta l’opera. Gli scritti degli anni Settanta e Ottanta mostrano inesorabilmente l’incupirsi dei toni, l’universo familiare – su cui l’autrice continua a tener fermo lo sguardo – è fatto a pezzi perché perfino in «quel piccolo spazio di realtà» i rapporti si incrinano, si dissolvono. Eppure tra le righe è possibile cogliere la tenacia di un’osservatrice decisa a verificare se i cocci rimessi insieme possano reggere alla furia del tempo. Le modern family protagoniste delle commedie e dei romanzi romani non possono contare sulla forza coesiva del lessico, che permette ai fratelli e alle sorelle Levi di riconoscersi anche «nel buio di una grotta», ma sono sempre qualcosa di «very useful» per tutti, come di fatto arriva a sostenere nel suo ultimo libro, Serena Cruz o la vera giustizia (1990). 

 

Mantenendo fisso l’obiettivo su quell’osservatorio privilegiato della condizione umana che è la famiglia, nei romanzi, nei saggi, nelle pièces – ecco l‘ultima traccia distintiva dello stile di Ginzburg che qui si vuole ricordare – l’autrice delle Piccole virtù disegna un’antropologia della differenza che è forse il segno più originale della sua scrittura. Per intuirne la portata occorre (ri)leggere insieme tutta l’opera, mettere accanto alle pagine di Lessico famigliare e di Caro Michele i tanti ritratti di amici sparsi nei suoi articoli, bisogna cioè scorrere l’album di fotografie in cui personaggi reali e immaginari sono fissati sulla pagina, con le loro fisionomie stranamente somiglianti. I gesti, la voce, il passo e lo sguardo sono gli elementi messi a fuoco da Ginzburg nel tentativo di dar corpo all’ombra delle persone care. La voce, con i suoi suoni e il suo vocabolario, viene celebrata nel romanzo-saggio Lessico famigliare, ma non smette mai di attrarre l’attenzione dell’orecchio della scrittrice. Il parlare continuo e incessante di Felice Balbo (Il più cretino dei filosofi in Mai devi domandarmi) e la balbuzie di Calvino (il suo «tirar fuori le parole da una sacca segreta, o strapparle a fatica da qualche suo segreto gomitolo») sono soltanto due esempi di come il vocabolario famigliare (di una famiglia allargata ad amici e compagni di lavoro) con le personali inflessioni fonetiche sia ancora per Ginzburg la traccia capace di far scattare la memoria involontaria, e di recuperare altresì il tempo perduto. Dagli scritti dedicati ai due amici si deduce anche come la parola orale sia il segno della condizione umana che più riflette la sua intrinseca vocazione relazionale e su cui si fonda il senso di appartenenza alla collettività. 

 

Insieme alle voci, il catalogo dei personaggi ritratti dalla penna della scrittrice presenta poi una attenzione particolare alla maniera di incedere e di muoversi nello spazio. Il modo di camminare «sulla punta dei piedi […] per sembrare più alto» di Sandro Penna, l’andatura lenta e sprezzante di Lola Balbo, il passo «testardo e solitario» di Pavese e quello «randagio» di Adriano Olivetti e Carlo Levi lasciano emergere parentele e simmetrie con i personaggi di finzione. Il randagismo dell’andatura è certamente l’indizio del nomadismo di ascendenza semitica, l’incarnazione di una condanna all’erranza sepolta in una società in cui l’ebreo è fortemente radicato, ma che si ripresenta nel momento in cui le sillabe che ne definiscono l’origine divengono cifra di distinzione. Il «passo randagio» si rivela allora come cicatrice della diversità ed assume, di volta in volta, sfumature e tonalità differenti.

 

È una diversità che può avere i colori accesi e festosi della «vanità» di Carlo Levi, quelli aurei della ‘regalità’ di Olivetti, oppure quelli tetri e malinconici degli ebrei sopravvissuti allo sterminio, ma che esplica pienamente il suo valore semantico in coppia con l’opposto sforzo di dimenticare tale stigma, mescolandosi nella moltitudine delle infinite differenze umane o facendosi emblema della condizione universale. Nel saggio in cui fa più esplicitamente i conti con la propria ascendenza ebraica Natalia Ginzburg afferma: «Dopo la guerra, abbiamo amato e commiserato gli ebrei che andavano a Israele pensando che erano sopravvissuti a uno sterminio, che erano senza casa e non sapevano dove andare. Abbiamo amato in loro le memorie del dolore, la fragilità, il passo randagio e le spalle oppresse dagli spaventi. Questi sono i tratti che oggi amiamo nell’uomo» (Gli ebrei in Vita immaginaria).

 

Questi tratti ricompaiono, infatti, nei giovani spiantati e balordi dei romanzi degli anni Settanta, nei tanti Michele e Mara, che «senza casa, senza famiglia, senza niente» si aggirano nelle strade del mondo. Il nomadismo archetipico dell’ebreo errante diventa, nelle pagine romane, stemma della condizione umana tout court, traccia di quella diversità che accomuna donne, ebrei, omosessuali e tutti i «diversi per la semplice inclinazione alla diversità»: cioè, in un paradossale rovesciamento di segno, tutti gli esseri umani. 

Goffredo Parise, in un mirabile ritratto dell’amica scrittrice, intuisce il valore fondamentale della sua ascendenza ebraica e da essa deduce l’impronta più tipica del suo stile: «La forza dello stile di Natalia (della sua persona e della sua pagina) sta tutta in questa erraticità. È una forza che sembra fragile e leggera perché in modo fragile e leggero tocca la terra su cui poggia, invece anche qui si sbaglia perché è una forza strana e animale di inafferrabile selvatico, con un cervello e un cuore pieno di muscoli fortissimi e scattanti come di chi debba procedere o fuggire attraverso steppe coperte di neve, o tra monti e boschi di conifere altissime e nere, con lupi e orsi, o sterminati deserti africani, o grandi città abitate, in una babele di lingue: dove soltanto lo stile sopravvive, e tutto il resto è noia». 

 

 

Ci auguriamo che un’eco di questo stile continui a risuonare nei prossimi cento anni e che la lettura di pagine inedite o la rilettura delle opere più note ci rallegri ancora, con gli oggetti, i passi, le voci che popolano le sue storie, con la leggerezza e la fragilità della sua forza ineguagliabile, con il discorso sicuro sulle grandi virtù che si rivelano tuttora very useful to us.

 

 

4-10-18 maggio 2016, ore 21. Intesa Sanpaolo offre alla città di Torino nell’auditorium del suo Grattacielo, in corso Inghilterra, un omaggio a Natalia Ginzburg. Progetto a cura di Giulia Cogoli.

Mercoledì 4 maggio Toni Servillo leggerà Le piccole virtù; martedì 10 maggio Anna Bonaiuto alcune pagine di Lessico familiare; mercoledì 18 maggio Lella Costra leggerà due delle undici commedie scritte fra il 1965 e il 1991. Le serate saranno introdotte da Domenico Scarpa, curatore delle opere di Natalia Ginzburg edite da Einaudi. Ingresso libero.

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