Oggetti d’infanzia | Figurine

16 Gennaio 2013

Si era partiti, se non ricordo male, con il massimo rispetto per le convenzioni sociali e le divisioni di genere: una femmina, dunque figurine per femmine, quelle con gli animali della giungla in sagome tondeggianti che andavano staccate dal supporto rettangolare sul quale rimaneva una parte consistente del disegno, residuo da buttare via quando il rinoceronte o lo scimpanzé avevano trovato posto lungo il corso d’acqua o tra le felci disegnate sulle pagine dell’album a colori. Quando dal pacchetto comprato in edicola la domenica mattina saltava fuori una doppia (identico rinoceronte, identico scimpanzé) questa andava ad alimentare il mazzo per gli scambi, tenuto stretto con un elastico, venerato come il santo Graal, riposto in un luogo sicuro della cartella o nelle tasche del paltò, sciorinato sotto gli occhi delle compagne di scuola al suono dell’intervallo, quando uno scambio preparato da un’adeguata trattativa poteva fruttare anche sette, dieci nuove acquisizioni in un colpo solo.

 

Ma poi la cosa deve aver finito col perdere d’interesse: c’era sempre, in ogni classe, la bambina esagerata, quella che suo padre era andato a Roma con l’aereo e al ritorno le aveva portato trenta pacchetti, e lei aveva finito il primo album e stava quasi finendo anche il secondo, ed era grassissima, e per un pezzo di buondimotta ti regalava un mazzo grande così tutto in un botto. Finita l’emozione, finito il gusto. Mica come i maschi, che all’intervallo spostavano tutti i cappotti dall’attaccapanni, tiravano indietro i banchi e si schieravano in fondo all’aula. Mai una volta che si vedesse circolare un album, tanto non serviva esibire la collezione in pubblico, perché loro, i maschi, con le figurine, CI GIOCAVANO. I pacchetti con i calciatori, la carta da lisciare fra le dita e sistemare stretta fra l’indice e il medio, il polso piegato verso il petto e poi via, il lancio. Una batteva sullo zoccolo di legno, poi strisciava all’indietro lungo il pavimento. L’altra planava sul mucchio di quelle che non avevano avuto la forza per arrivare a toccare la parete, e si offrivano vulnerabili come piste d’atterraggio sulle quali posarsi con un tiro di precisione, corto e ben direzionato. Una sembrava incollarsi al muro, a mezza altezza, poi scivolava lentamente verso il basso e si appoggiava al pavimento di taglio, colpo magico, fiato sospeso, poi tremolava, pendolava, s’inclinava a sud ovest e rovinava a faccia in giù, giocatore invisibile, guadagno sfumato, delusione, imprecazioni soffiate fra i denti che non le senta la maestra.

 

E ci giocavano i maschi, a figurine, seguendo regole misteriose, gorgogliate a mezza voce, nel dialetto dei loro padri, come gli adepti di una confraternita con statuti che si perdono nella notte dei tempi: “Costa”. “Doppiacosta”. “Miabùna”. “Bumuntù”. “Bùtutto”. Altro ordine di misteri, altro livello di emozioni. Bisognava studiare il linguaggio segreto, decifrare le rune e provare i colpi vincenti, a casa, contro il muro del gabinetto, protette da un doppio giro di chiave. Non si andava più in edicola col padre, la domenica mattina: si chiedeva servizievoli di avere i soldi per il giornale da consegnare a domicilio dopo rapida corsa di andata e ritorno, e 50 lire per le figurine, naturalmente, senza star troppo a specificare quali, tanto poi una serie vale l’altra. Permesso ottenuto. Inizia l’avventura: album Panini 1974, cappotti e banchi spostati, riunioni semiclandestine nel cortile di casa, supplementi di partita anche nel pomeriggio. Quella era la vita, con le mani che si congelavano per il freddo (impossibile giocare con i guanti), la vita con i suoi traffici diurni e i suoi rovelli notturni, quando prima di spegnere la luce, nel dormiveglia, dall’ultimo spiraglio di coscienza faceva capolino un dubbio: “Ma perché gli ultimi tre che mi mancano, Oddi, Nanni e Garlaschelli, sono tutti della Lazio?”, e i tre vuoti siderali prodotti dalle tre finestre vuote diventavano un solo grande vuoto di mistero, il riflesso di un’inattingibile assenza, il guscio vuoto di una perduta divinità.

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