Jennifer Egan. La fortezza

18 Novembre 2014

Di fronte alle prime pagine de La fortezza di Jennifer Egan, pubblicato originariamente nel 2006 con il titolo The Keep e ora tradotto in italiano da minimum fax, si ha l'impressione fortissima di fare un salto indietro nel tempo, quando il principale intento di uno scrittore postmoderno era quello di riflettere sul proprio ruolo di scrittore postmoderno: il primo nome che viene in mente è John Barth e la sua raccolta di racconti metanarrativi Lost in the Funhouse (1968). La situazione che apre il romanzo è infatti letteraria e antirealistica nella sua essenza: un trentacinquenne newyorkese si trova nel cuore della notte alle porte di un castello, da qualche parte nell'Europa centrale, e porta con sé soltanto uno zaino, un paio di «stivaletti da hipster» e un'antenna parabolica. Il castello si staglia nero e scuro su un paese senza nome, è mezzo diroccato, le sue mura antiche sembrano sprovviste di un'entrata. Siamo evidentemente da qualche parte tra la citazione esplicita di Kafka e suggestioni alla Gormentghast, riferimenti europei che suonano ancora più letterari perché vengono da una penna statunitense contemporanea.

 

Con il proseguire della storia, quando questa visione libresca si ricompone allo stesso modo in cui un'immagine sfocata prende forma, e dunque il romanzo assume un connotato più realistico (almeno in apparenza), ci rendiamo conto che da un certo punto di vista La fortezza è esattamente quello che voleva sembrare: un racconto metaletterario dove a essere in gioco è il ruolo dello scrittore e il suo rapporto con la narrazione. Scopriamo infatti che Danny, il trentacinquenne newyorkese con gli stivaletti da hipster, e il ricco cugino Howie, proprietario del castello che sta trasformando in un albergo di lusso, sono a loro volta personaggi di un racconto, una sorta di memoir il cui autore è Ray, incarcerato per omicidio e che in prigione frequenta (guarda caso) un corso di scrittura. Abbiamo dunque da un lato la storia di Danny e Howie, della loro infanzia, del castello, e dall'altro la storia di Ray, delle sue giornate in carcere, dell'attrazione crescente che prova per Holly, insegnante ex tossicomane del corso di scrittura.

 

Ognuno di questi due racconti paralleli porta avanti alcune tematiche, che come in un quadro di Escher ricompaiono, trasformate o speculari, nell'altro racconto: così Danny gira con un'antenna parabolica perché è ossessionato dalla connettività, vale a dire dalla possibilità di essere in contatto tramite rete wi-fi o satellitare con il resto del mondo (Danny, dice Jennifer Egan con un'espressione bellissima, si trova a casa solo quando è «in due posti nello stesso momento», a Washington Square con il corpo ma al telefono con il suo amico che si trova a Machu Picchu); allo stesso modo Davis, il compagni di cella di Ray, ha costruito con una scatola di scarpe una radio per captare le voci dei fantasmi; così la storia di tossicomania di Holly si riflette nella storia di tossicomania di Mike, braccio destro di Howie nel lavoro di ristrutturazione del castello.

 

Ma i rimandi sono anche interni allo stesso racconto, come nel caso dei cunicoli interminabili del castello che rimandano alle grotte dove, in uno dei momenti realistici migliori del romanzo, Danny adolescente aveva abbandonato Howie, adolescente grasso, timido e fantasioso, provocandogli «l'episodio traumatico» che l'avrebbe portato alla depressione, quindi in riformatorio, quindi a fare montagne di soldi nella finanza una volta uscitone, quindi ad acquistare il castello. Le due storie si compenetrano, sfumano una nell'altra, si riflettono fino a sembrare la stessa storia, o due versioni possibili della stessa storia.

Nell'ultima parte del romanzo la prospettiva cambia ancora: questa volta la voce narrante è quella di Holly, e ciò che viene messo in scena è una storia crudamente realistica, triste e brutale di tossicodipendenza, di amore e di scelte sbagliate, di talenti sprecati, di solitudine. Una storia fatta di dolore, semplicemente, e del tentativo di un riscatto.

 

Di cosa parla La fortezza, dunque? Parla essenzialmente del rapporto che abbiamo con la fantasia, con i media, con la rappresentazione in generale. Dunque parla, a livello più profondo, del rapporto che abbiamo con la realtà, sempre che una cosa come la realtà esista ancora.

Howie, ragazzino grasso e senza amici, aveva il talento di saper immaginare mondi: creava dal nulla giochi complessi, universi paralleli dai quali, una volta entrati, era impossibile uscire. Paradossalmente questo suo talento gli si ritorce contro quando il suo compagno di giochi Danny lo rinchiude con l'inganno in un mondo dal quale non è davvero possibile uscire, le grotte vicino a casa (e infatti lo troveranno tre giorni dopo, semi disidratato, in stato di shock). Danny ha bisogno di vivere circondato dalla presenza degli altri, ma questi altri non compaiono mai: sono voci nell'etere, segnali intermittenti e disturbati su un segnale satellitare, voci sempre sull'orlo di scomparire inghiottite da un problema tecnico.

 

Jennifer Egan

 

Dunque le voci che sente Danny sono più o meno reali delle voci che Davis capta con la sua radio per ascoltare i fantasmi, fatta di una scatola di scarpe piena di polvere e frammenti di oggetti? Paradossalmente Danny, che ha bisogno di essere circondato dalle persone, non riesce mai a mettersi in contatto con la persona che ama, che ha il nome improbabile di Martha Mueller: quando infine ci riesce sospetta che Martha non sia veramente Martha, e Martha dal'altro capo del telefono sospetta che Danny non sia veramente Danny. La realtà è una questione di sguardi: il paese ai piedi del castello sembra troppo perfetto per essere vero; l'ancora più improbabile baronessa Von Ausblinker con cui Danny beve uno strano vino e fa sesso dovrebbe avere 98 anni, ma vista da vicino potrebbe averne 20 (o più plausibilmente potrebbe non esistere).

 

Danny è intimamente paranoico, e non potrebbe essere altrimenti: è un newyorkese trentenne, porta il rossetto non perché omosessuale (come crede il figlio ottenne di Howie) ma perché va di moda: ha tutte le ragioni per credere che il mondo sia sull'orlo della catastrofe, e infatti possiede una sensibilità, un'intuitività che lo differenziano dagli altri personaggi. Il problema è quello che, con un'altra espressione che è di per sé un capolavoro, Egan chiama «il verme»: il tarlo del dubbio che ti scava dentro, e che come in un romanzo di Philip K. Dick ti fa sempre sospettare che la realtà non sia quella che vedi, che ce ne sia un'altra, sottostante, intrinseca, parallela.

 

Nel castello, Howie vuole costruire un albergo di lusso dove domini la fantasia, i dispositivi elettronici sono banditi per lasciare libero spazio all'immaginazione: «abbi fiducia nella tua mente», continua a ripetere. Ma la sua mente lo paralizza quando, nel finale del romanzo, si trova a rivivere l'esperienza di prigionia vissuta da ragazzo nei sotterranei del castello. E la fantasia, che permea con tanta forza e vitalità le prime due sezioni del romanzo, scompare del tutto nel resoconto della vita di Holly, dove è stata prosciugata dalle metamfetamine, la galera, la disoccupazione.

 

Dunque viene da chiedersi, più in generale: di cosa parlano i romanzi di Jennifer Egan? Facciamo una breve ricognizione limitandoci a ciò che è stato pubblicato in Italia: Il tempo è un bastardo racconta la vita di molti personaggi, tutti o quasi tutti coinvolti in qualche modo nello show business o nell'industria musicale, che però non sono nemmeno lontanamente i temi del romanzo: sono delle coperture attraverso le quali Egan parla del tempo, ma anche della letteratura che ha il potere divino di manipolare il tempo (narrativo, ovvio); Guardami racconta di una modella che a causa di un incidente si è ritrovata con il volto sfigurato, lascia New York per tornare nella sua città natale ed entra in contatto con un ex sportivo ora professore universitario che si occupa di come l'invenzione del vetro trasparente nel Medio Evo abbia cambiato l'identità delle persone, permettendo di vedersi riflessi e di vedere attraverso le cose; Scatola nera, racconto lungo scritto sotto forma di tweet (cioè composto di frasi autonome della lunghezza massima di 140 caratteri) racconta la storia della donna-oggetto di un ricco affarista che in realtà è una spia alle dipendenze dei servizi segreti, con organi meccanici impiantati e migliorati, visto che il ricco affarista è in realtà il finanziatore di un gruppo terroristico; de La fortezza abbiamo detto. Di cosa parlano i romanzi di Jennifer Egan?

 

Io credo, ridotta al succo questa ricchezza di personaggi e situazioni e tirate le fila di quello che è un percorso letterario entusiasmante per diversità, freschezza della prosa, brillantezza delle idee, che i romanzi di Jennifer Egan parlino essenzialmente di autenticità. Fateci caso: tutti i romanzi sembra che parlino di qualcosa, ma in realtà parlano di qualcos'altro. O più verosimilmente nei romanzi di Jennier Egan ci sono molti strati, sotto i quali si nasconde un senso che è come uno specchio nel quale tutti quegli strati si riflettono.

 

Jennifer Egan. Il tempo è un bastardo. Guradami. La scatola nera

 

Ad esempio: Il tempo è un bastardo sembra che parli dell'industria musicale, ma in realtà parla del tempo, e sotto il tempo c'è la letteratura, e sotto sotto c'è di nuovo il tempo ma nella forma della giovinezza che per rimanere inalterata deve disperdersi, sacrificarsi o suicidarsi; Guardami ha un plot parallelo di stampo investigativo (un terrorista sta preparando un attacco a New York) e un altro legato al mondo della moda, ma ciò che conta è che l'illuminazione di Moose e il volto sfigurato di Charlotte dicono la stessa cosa, e cioè che l'intelligenza visiva è fredda e razionale, figlia della tecnologia, mentre l'intelligenza emotiva, profonda e inconscia, è cieca, umana e pericolosa; Scatola nera sembra la versione da incubo di un episodio di James Bond, ma riflette di nuovo sul tema di cosa è falso e cosa è vero in un corpo strappato a sé stesso, usato e tecnologizzato (e qui c'è un discorso sulla tecnologia e un discorso sul corpo delle donne che richiederebbero uno scrittore immenso per essere fatti entrare, e convivere coerentemente, con una trama di spionaggio in un racconto lungo poche decine di pagine; figuriamoci il talento che ci vuole per scrivere tutto questo in frasi da 140 caratteri).

 

Tutti i personaggi di Jennifer Egan riflettono su cosa è reale in un mondo dove è la differenza stessa tra realtà e rappresentazione a essere messa a rischio (dice Howie a Danny: «la "realtà" vecchio stile ormai è acqua passata. È scomparsa, kaputt: tutta la tecnologia di cui sei tanto innamorato l’ha spazzata via»), e questo è il lato più postmoderno dell'opera eganiana, quello che la connette con potenza a David Foster Wallace, a John Barth e alla grande letteratura nordamericana della seconda metà del 900. Ma, e questo è invece il suo specifico, quello che la rende una delle migliori scrittrici viventi, riflettono soprattutto su cosa è autentico in questo mondo, che non è la stessa cosa di dire cosa è reale perché la seconda è una domanda filosofica, epistemologica o addirittura ontologica, mentre la prima è una domanda psicologica, un qualcosa che riposa nel profondo dell'anima e non vola negli strati alti della mente.

 

Tutti i personaggi di Egan, o almeno i suoi migliori (che spesso sono donne, com'è ragionevole, ma non sempre) possiedono un'abilità inconscia, intuitiva, che non passa per la comprensione razionale, di vedere il mondo: Charlotte ha la dote di intuire la personalità ombra delle persone che incontra, cioè di vedere letteralmente (qui si gioca la coerenza fortissima di Guardami) ciò che non si vede in superficie; Danny sembra uscito dalla luna, emerso da un turbine di confusione, ma in qualche modo fa sempre la cosa giusta, risolve le situazioni (senza contare che percepisce sulla pelle, come un prurito, la presenza di reti wi-fi nelle vicinanze, il potere delle persone in una stanza e altre cose).

 

Una parte dei personaggi di Egan non è autentica, perché il mondo in cui vive ha deciso di sbarazzarsi della nozione di autenticità insieme alla nozione di realtà: e d'altra parte i personaggi vivono pienamente nel mondo, non vi sfuggono con espedienti intellettuali (il che rende i libri di Jennifer Egan dei best seller oltre che dei romanzi eccezionali). Ma questi personaggi continuano a cercare l'autenticità, lasciandola esistere sottopelle, in una zona che si sottrae allo sguardo e che fa vivere la sua scrittura dal profondo, come un ritmo, una pulsazione.

 

Un solo personaggio nell'universo eganiano porta l'autenticità allo scoperto, sulla superficie più intima, quella della propria pelle: Rolph, che ne Il tempo è un bastardo «portava impresso sul proprio corpo il simbolo della giovinezza», e proprio per questo non può reggere la propria forza potenziale e deve togliersi la vita. Ma tutti condividono con Rolph questa ricerca, questo battito interiore: Charlotte e Danny, e anche l'innominata protagonista di Scatola nera. Tutti sanno, come scrive il narratore de La fortezza (Danny? Ray? Holly? Egan?) che «la vita normale è sottile, è esilissima: una cosa esilissima stesa sopra un’altra cosa che non le assomiglia per niente, che è enorme, strana e oscura». Tutti quanti sanno che in quella cosa enorme, strana e oscura risiede l'autenticità, il bene più prezioso, pericoloso anche, e ovviamente impossibile da raggiungere appieno.

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