Il mancino zoppo: un maestro del pensiero / Sei domande a Michel Serres

16 Giugno 2016

Ho incontrato Michel Serres il 15 maggio al Salone del Libro di Torino, dove è stato invitato per discutere insieme a Corrado Augias del suo ultimo libro, Le Gaucher boiteux. Figures de la pensée (Le Pommier, Paris 2015), una vera autobiografia intellettuale, tradotto in Italia da Bollati Boringhieri (Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente, traduzione di Chiara Tartarini, 2016). Il pubblico italiano può ora meglio apprezzare la sua opera, dopo la pubblicazione di Michel Serres, «Riga 35», a cura di Mario Porro e mia (Marcos y Marcos, 2015) e dei due pamphlet pubblicati da Bollati Boringhieri, e da me tradotti: Tempo di crisi (2010; Temps de crises, Le Pommier, Paris 2009) e Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere (2013; Petite Poucette, Le Pommier, Paris 2012).

Un pubblico numeroso e attento è rimasto affascinato dall'affabulazione di questo «maestro del pensiero», come recita la motivazione del Premio Nonino ricevuto da Serres nel 2014. Ho posto a Serres, giovane filosofo ottantacinquenne, «la mente filosofica più fine che esista oggi in Francia» (Umberto Eco), sei domande. 

 

D. Il suo ultimo libro, Il mancino zoppo, che elogia il virtuale e l’attuale, rimane un libro di carta. E noi leggiamo sempre meno libri su carta e sempre più sullo schermo di un PC, di un tablet o di uno smartphone. Qual è il rapporto, secondo lei, tra la trasmissione del sapere e dell’informazione sulla carta e quella che avviene sullo schermo o nella rete? 

 

R. Non sono così sicuro di poter rispondere a questa domanda, per una ragione molto profonda. Quando osservo un computer, mi domando se le nuove tecnologie siano arrivate a scoprire la loro propria specificità tecnologica. Perché un computer si apre come un libro, ha uno schermo come una pagina, ha le righe come quelle delle pagine di un libro. Mi pare che la nuova tecnologia sia rimasta sempre all’età del libro e non abbiamo ancora trovato la tecnologia appropriata alla nuova era informatica. In qualche modo si tratta ancora di una pagina, di righe, del formato di un libro. Ho l'impressione che il computer sia un libro molto più di quanto si creda.

 

D. Alcune domande sul suo ultimo libro. Cominciamo con l'ultima pagina, dove si legge: «Questo libro è iniziato nel Big Bang e si chiude cercando di inventare il domani. Attento a descrivere la gioia del pensiero, segue inoltre il flusso del tempo. Ha biforcato, ha zoppicato? Sicuramente. / Dunque devo ricominciare. Ho celebrato la conoscenza, dall’informazione all'invenzione. Per completare il saggio, seguendo l'era che finisce e quella che comincia, prometto che proporrò una filosofia della storia». Lei promette quindi una filosofia della storia, richiamando in qualche modo la nota espressione di Hegel che ha scritto che «la filosofia è il proprio tempo appreso con il pensiero»?

 

R. Sì, Hegel è ancora attuale. C’è un libro di un gesuita francese Henri de Lubac che non so se è tradotto in italiano, un libro molto bello, che si intitola La Postérité spirituelle de Joachim de Flore [in realtà tradotto nell'Opera omnia del teologo e cardinale gesuita: La posterità spirituale di Gioachino da Fiore, traduzione di Francesco di Ciaccia e Gabriella Cattaneo, 2 voll., Jaca Book, Milano 1981-83]. Gioacchino da Fiore era un monaco dell’Italia meridionale del XII secolo che ha fatto uno schema storico che de Lubac dimostra sia stato sempre seguito e compreso da Hegel. Ed Hegel a un certo momento parla dello Spirito, lo ricorda, che corrisponde alla terza età di Gioacchino da Fiore. Bene. La domanda che mi pongo spesso, e che proviene dalla filosofia della storia, è se siamo entrati nell’epoca che Hegel chiamava l’era dello Spirito. Le nuove tecnologie ci hanno condotto in un certo modo ad accorgerci che il regno del soft è molto più importante di quello dell’hard. E questo sarebbe veramente l'avvento dell'era dello Spirito. Ed è ciò che mi ha spinto ad interessarmi insieme a Gioacchino da Fiore e a Hegel.

 

D. In questo libro ha fornito una lode meravigliosa e polifonica del possibile, nel “Grande Racconto” dell'universo, della vita e della presenza umana sulla Terra. Può spiegare la sua “fenomenogonia”? L'esplosione delle possibilità innescate dalle mille Pollicine della nostra era digitale?

 

R. È un po' la stessa questione della filosofia della storia. Se la storia umana consiste soltanto nel raccontare l’avventura degli uomini nella comunità, essa ha completamente dimenticato il rapporto con il mondo. Ma anche il mondo ha una storia ed è quella che chiamo il “Grande Racconto” (Grand Récit). Oggi siamo arrivati a datare il momento del Big Bang, si è datato il momento nel quale si è formata la Terra, il momento in cui arriva il primo vivente, si è datato il momento in cui compare una specie, e così di seguito. Di conseguenza, abbiamo ora in mano una nuova storia che non è più soltanto la storia degli uomini, ma è anche quella delle cose inerti e dei viventi. Ma senza questi due mondi noi non esisteremmo. Di conseguenza essi sono la nostra condizione di esistenza e di sopravvivenza, e sono quindi parte della nostra storia. Perciò il “Grande Racconto” è il primo atto della filosofia della storia.

 

D. Lei vede l’informazione come la caratteristica costitutiva di qualsiasi differenziazione nell'universo, nella vita, nell'azione e nel pensiero umano. Leggiamo ancora dal Mancino zoppo: «E allora, che cosa significa pensare se non, come minimo, effettuare queste quattro operazioni: ricevere, trasmettere, stoccare, trattare informazione? Come tutti gli esistenti?»; «“Il lampo governa l’Universo”: il bagliore di Eraclito illumina la pala del timone, la cui inclinazione indica le direzioni successive nelle quali, di volta in volta, il Grande Racconto si avventura». E richiama Léon Brillouin, che definisce «l’informazione di cui parlo come proporzionale alla rarità, come il contrario dell’entropia, che è una caratteristica delle alte energie. Dice perfino: neghentropia». Per parte sua, Gregory Chaitin è arrivato ad asserire che «all'origine c'era il bit». Come pensare oggi il passaggio dall'informazione alla Potenza del pensiero, sottotitolo del libro?

 

R. L'informazione come è definita nelle scienze è un fenomeno che non ha un senso, per il quale non esiste il significato. Mentre per noi è importante il senso, ovvero il significato. Ci sono quindi due sensi del concetto di “informazione”: il senso fisico e il senso che le diamo quando apprendiamo qualcosa. E la vera distinzione è quella tra informazione e sapere. Io ho accesso all'informazione, ma non comprendo. Se abbiamo deciso entrambi di imparare la fisica quantistica, non comprendiamo da soli. Abbiamo tutte le informazioni su Wikipedia, ma non le comprendiamo: abbiamo bisogno di qualcuno che trasformi l'informazione in sapere. E questo è il ruolo dell'insegnante, del messaggero, dell'intermediario, di tutte quelle popolazioni che un tempo ho chiamato “angeli”, gli intermediari.

 

D. Il suo pensiero è sempre stato illuminato da una speranza di pace. Scrive in questo libro: «L’alleanza qui proclamata delle scienze della vita e della Terra con il digitale ci allontana finalmente dalla guerra, nel senso del conflitto contro il mondo». In Temps de crises ha scritto sulle SCiViTe, le scienze della vita e della terra, che parlano la lingua appropriata alla Biogea. Può spiegare meglio questa sua indicazione?

 

R. Ho scritto un libro che s'intitola La guerre mondiale [Le Pommier, Paris 2008] e ho dato all'espressione “guerra mondiale” non il senso della guerra tra gli uomini, ma della guerra degli uomini contro il mondo. Ci sono due tipi di pace. La pace tra noi due, tra la Francia e l'Italia, tra qualunque Paese che si trova in guerra e gli altri Stati. E la pace che si realizza nei riguardi del mondo, ed essa è più importante. Oggi stiamo continuando ad avanzare a partire da ciò che abbiamo realizzato un secolo e mezzo fa con la rivoluzione industriale. La rivoluzione industriale era fondata su scienze come le scienze fisiche, le scienze dell'energia, la termodinamica, la chimica, l'elettricità, ecc. E queste scienze hanno deciso una civilizzazione ben definita, che ha comportato molto benessere, molti elementi positivi, ma che si trova oggi in uno squilibrio tale che rischia di distruggere il mondo. Ed è per questo che io confido oggi in scienze più leggere, più dolci, che cerchino di comprendere in sé la cura del mondo e quella dei viventi. Una scienza che ci faccia comprendere che non bisogna più distruggere i viventi, sterminare le specie, distruggere il mondo. Vorrei quindi aver fiducia in un tipo di scienze, le SCiViTe, le scienze della Vita e della Terra, che sono in pace con il mondo. Ecco il secondo senso del termine “pace”.

 

D. La nostra Pollicina può essere un segno di speranza per il futuro? Il simbolo della rinascita dell'Europa nella civiltà mondiale?

 

R. Ci sono dei dati attendibili che dicono che da duemila anni prima di Cristo ad oggi il mondo umano è stato in guerra per il 93 per cento del tempo. E questa nostra Europa è del tutto nuova perché da una generazione, nata negli anni Cinquanta del secolo scorso, è in pace; la Francia, la Germania, l'Europa occidentale sono in pace. Ed è proprio perché noi siamo in pace che le popolazioni che sono in guerra vengono da noi, nei centri per profughi, e non altrove. Perché? Perché noi siamo in pace. E la pace è l'oblio, mentre la guerra è il ricordo. Noi ci dimentichiamo di essere in pace, ma la cosa più considerevole dell'Europa che abbiamo fondato dopo la guerra è stata proprio l'essere in pace. Ciò non è mai successo ed è talmente prezioso che sarebbe drammatico dimenticarlo. 

 

Penso che l'arrivo delle nuove tecnologie simbolizzate da Pollicina possa in effetti costruire il nuovo mondo, politico e sociale, che speriamo.

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