Storia della bambina perduta

11 Novembre 2014

Tutto ha inizio nel 2011 con la pubblicazione de L’amica geniale, primo volume della saga omonima che si conclude ora con l’uscita de Storia della bambina perduta e con la notizia, diramata dall’Ansa qualche giorno fa, che le oltre millecinquecento pagine de L’amica geniale diverranno una fiction. Sono in tutto quattro i libri che raccontano la storia di Lila e Lenuccia, amiche nemiche dal 1950 ai giorni nostri, senza mai chiarire del tutto di quale delle due sia la genialità cui si riferisce il titolo. L’autrice è Elena Ferrante, la cui vera identità dal 1992, data della pubblicazione in Italia del suo primo libro, è ancora oggetto di congetture.

 

Nell’estate 2014, in occasione dell’uscita negli Usa di Those Who Leave and Those Who Stay, terzo volume della quadrilogia My Brilliant Friend tradotta da Ann Goldstein, la stampa estera si scatena. Si comincia a parlare di Ferrante fever. Elena Ferrante concede qualche intervista oltreoceano senza mai apparire se non per iscritto. Su Google circola qualche sua foto ma non è detto sia davvero lei. I recensori stranieri non si capacitano del fatto che qui, da noi, ci si strugga sulla vera identità di Elena Ferrante piuttosto che sul contenuto dei suoi libri e, peggio ancora, che si fatichi ad attribuire la complessità delle sue trame a una donna. E allora fioccano nomi: non avete imparato nulla da Doris Lessing, Toni Morrison, Joyce Carol Oates?

 

Il primo libro della saga viene introdotto da un esergo dal Faust in cui si fa riferimento all’indispensabilità di un compagno che nell’esistenza di ciascuno gli sia da pungolo, facendo letteralmente la parte del diavolo per evitare che questi si impigrisca in una condizione priva di evoluzione. Fin dalle prime pagine noi crediamo di saper già chi delle due sia il genio: è Lila a personificare quel “compagno” chiamato per qualche ragione diversa dalla generosità a fare da sprone, imponendosi a Lenuccia con i suoi comportamenti contradditori come pietra di un eterno, irrisolto paragone. E in effetti per tutti e quattro i libri sarà così. Malgrado Elena, in seguito, studi e viaggi mentre Lila no, sarà sempre la seconda quella che, attraverso il suo disperato bisogno di autonomia, darà a Lenuccia la forza per una ricerca lunga tutta una vita. Lo farà con un gesto iniziale tanto semplice quanto crudele, quello di gettarle la bambola preferita nello scantinato. Certo Lila la pagherà carissima perché ne L’amica geniale una è lo specchio dell’altra, e se Lenuccia ha sempre bisogno di perdersi per poi ritrovarsi, Lila si perde solo alla fine. E allora sarà per sempre.

 

“Solo nei romanzi brutti, la gente pensa sempre le cose giuste, dice sempre le cose giuste, ogni effetto ha la sua causa, ci sono quelli simpatici e quelli antipatici, quelli buoni e quelli cattivi, tutto alla fine ti consola” dice Lila in quest’ultimo libro, al colmo dell’inconsolabilità per la scomparsa di sua figlia. Si chiamava Tina, come la bambola di Elena che lei stessa, chissà perché, sessant’anni prima aveva gettato nello scantinato.

 

Anche in Storia della bambina perduta, come in tutti gli altri romanzi de L’amica geniale, accadono moltissime cose. Fallisce la prova cui Elena aveva sottoposto Nino nel finale di Storia di chi fugge e di chi resta, racconto che si concludeva con la scena di Elena che lasciava figlie e marito per andarsene con il suo amore di sempre. Una prova sotto forma di libro che Nino l’ha esortata a scrivere, quella cui Lenuccia sottopone entrambi. Quel breve saggio dallo straordinario successo è dedicato alla “prima e seconda creazione biblica” o, come lo definisce Elena in seguito, “all’invenzione della donna da parte dell’uomo”. Attraverso una scrittura ispirata dalle frequentazioni femministe di Firenze e Milano, Lenuccia, chiede a Nino di sbugiardare quell’invenzione e si propone di vivere con lui finalmente una vita vera. Il tentativo fallisce, ma la responsabilità del fallimento di quella prova ricade su entrambi.

 

Fabio Boccalon. Grigia solitudineFabio Boccalon. Grigia solitudine

 

La storia relativa alle vite di Lila e Lenuccia, dal 1976 ai giorni nostri, volge ormai al termine pur continuando ad andare di pari passo con quella italiana. Sullo sfondo vediamo sfrecciare come fosse un paese straniero, e noi lo stessimo a guardare dal finestrino di un treno in corsa, il sequestro Moro, l’era e il declino socialista, la necessaria cattura di pericolosi esponenti delle BR, mani pulite, il berlusconismo. Ma non è così. I personaggi sono tutti direttamente o indirettamente collusi con quest’abbozzo di storia patria. Secondo gli Airota, ex suoceri di Lenuccia, dietro la simpatia e la remissività Elena nasconde una volgarissima smania di affermazione sociale, che “né gli studi né i libri potranno mai addomesticare”. A Nino, invece “piace più di riuscire simpatico a chi comanda che battersi per un’idea”. Nino ed Elena per via della loro provenienza sono due “intelligenze senza tradizione”, o almeno questo è il punto di vista dell’influente famiglia di tradizione comunista che in questo frammento di storia avrà anche da affrontare i suoi problemi.

 

“Il sé socializzato, nel mondo di Ferrante, è una patina tesa su traumi o desideri disordinati che minacciano di diventare realtà febbrili. Questo presta al suo lavoro una qualità mitica, che ricorda, a tratti, le immagini della poesia di Sylvia Plath” scrive il 31 ottobre 2014 su The Guardian Meghan O'Rourke. Il sé socializzato, quindi, in Ferrante si dibatte febbrilmente e senza lesinare su nulla, partecipa a tutto. In modo disordinato, a volte superficiale e a volte fatale, vuole diventare un sé politico, un sé poetico, un sé infantile e molto altro ancora, nel tentativo di dimostrare la possibilità di un ipotetico stare al mondo che non sia mai deprivato di un’identità femminile policroma di cui sia finalmente lecito dire tutto.

 

Cos’è il perimetro di una vita? In che relazioni sta la misura di questo perimetro con l’impressione che si ha di vivere una vita vera? Lila finisce per chiudersi nel rione, prima continuando a impegnarsi in opere di indiscussa genialità, poi per via dell’invincibile dolore riguardo la perdita della figlia. Elena è fiera di sentirsi finalmente migliore di Lila. In un primo tempo il successo come scrittrice e l’amore di Nino le paiono avere allargato a dismisura le sue possibilità. Con Nino sembra facilissimo quello che a tutte le sue antenate era parso impossibile: “dire senza paura ciò che si tace anche a se stesse, compresa l’incoerenza e la viltà”. L’ebbrezza del consenso chiude il cerchio tracciato da questo perimetro che malgrado l’ampiezza non lascia scampo. Lo studio, i viaggi, il sesso, il confronto pubblico saturo di idee, vissuto come se tutto ciò fosse il retaggio di un’inconscia fame pregressa, finalmente consente a Elena e Nino di calarsi anima e corpo nell’utopia che la loro contemporaneità vuole che rappresentino. E di governare quell’utopia con esattezza, attraverso parole sempre più precise ed entro gerghi che già prima degli anni Ottanta stavano diventando ineludibili.

 

Elena Greco, per scongiurare l’odio verso sua madre (che è un sentimento caratteristico di tutte le protagoniste di Ferrante tranne Lila), spende l’intera esistenza a organizzare il proprio linguaggio in gerghi altamente precisi, perché il suo tempo glielo richiede, così come le richiede “la capacità di tirare le fila del dissenso e del consenso, scegliendosi nel frattempo un ruolo di mediatrice”. Elena si impegna davvero in tutto questo, anche dopo aver lasciato Nino, e proprio come lui ha successo, scambiando per tutta la vita una questione linguistica per una questione esistenziale.

 

Gli anni passano, la bambola viene dimenticata. Rispunta solo quando è ormai troppo tardi, insieme alla bambola di Lila, l’amica geniale, che però nel frattempo è sparita per sempre.

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