14 agosto 2018 / Genova, il ponte del Demonio

20 Agosto 2018

“Era un gran lavoro, c’era da montare un ponte sospeso, e io ho sempre pensato che i ponti è il più bel lavoro che sia: perché si è sicuri che non ne viene del male a nessuno, anzi del bene, perché sui ponti passano le strade e senza le strade saremmo ancora come i selvaggi; insomma perché i ponti sono come l’incontrario delle frontiere e le frontiere è dove nascono le guerre”.
Primo Levi, La chiave a stella, 1978

 

Giusto quattro anni fa presentai con Giorgio Mastrorocco al Festival di Venezia La zuppa del demonio. Il film era il rimontaggio di spezzoni di documentari industriali prodotti dal 1910 al 1974, provenienti dall’Archivio Cinema e Impresa di Ivrea, e si presentava col sottotitolo: “Un film sull’idea di progresso nel Novecento”. Era un film-Frankenstein, un film “vivo” assemblato con pezzi di film “morti”. E come ogni mostro, produceva e produce anche oggi un effetto doppio e contradditorio. La prima reazione è l’orrore, fin dalla sequenza iniziale, in cui si vede la nascita dell’ILVA di Taranto: le immagini e il commento (di Dino Buzzati!...) celebrano la tabula rasa compiuta sugli olivi secolari che simboleggiano il passato, l’arretratezza, l’immobilità del Meridione, presto sostituiti da una rivoluzionaria “cattedrale di ferro e cemento” in cui si produce “la zuppa del demonio”, l’acciaio incandescente che ribolle negli altiforni. E così via per tutto il film e per tutto il secolo: disboscando, abbattendo e costruendo fabbriche, strade, impianti all’insegna del motto futurista “Il progresso ha sempre ragione, anche quando ha torto”. Ma dopo l’orrore, come quando Frankenstein, il film di Whale, si sofferma sul primo piano del faccione di Boris Karloff, viene un altro sentimento, quasi di solidarietà e di affetto verso il mostro. Che, evidentemente, ha le sue ragioni per essere tale e, sotto sotto, non è più buono o più cattivo di noi: siamo noi che l’abbiamo creato così.


Ecco, tutta l’epopea raccontata in La zuppa del demonio mi sembra aver incontrato la sua fine, concreta e metaforica, il 14 agosto 2018, col crollo del ponte Morandi a Genova. Più delle fabbriche abbandonate, dei petrolchimici sotto tutela, della crisi del concetto di sviluppo senza limite, quel ponte collassato racconta perfettamente la fine di una parabola. E la metafora è ancora più stringente perché le conseguenze del crollo toccano direttamente le condizioni di vita attuali non solo dei genovesi, ma di tutti gli italiani: senza quel ponte, su cui tutti siamo passati almeno una volta, l’Italia è divisa in due. La metafora profonda, allora, è questa: il passato che collassa mette in cortocircuito il presente. Mentre è più o meno facile (e discutibile) dire “no” a nuove Grandi Opere, quando cade una delle tradizionali infrastrutture portanti della nazione ci dovremmo interrogare sul rapporto tra il passato che ha prodotto quel modello di sviluppo e il futuro che ci immaginiamo oggi. Quel ponte monco non è solo una terribile sciagura, è un cordone ombelicale che si trancia.
 

Una delle lezioni che ho imparato facendo La zuppa del demonio – e che spero nel film esca con chiarezza – è qualcosa che, crescendo negli anni settanta, avevo del tutto frainteso. Preso dallo scontro sociale e culturale del tempo, non avevo pensato a quanto in realtà i due attori del conflitto – padroni e operai, capitalisti e comunisti – fossero in realtà simili. O meglio, condividessero una stessa idea di futuro: un futuro contrassegnato dallo sviluppo tecnologico, dal miglioramento delle condizioni materiali, dalla spinta oltre i limiti. (Andammo sulla Luna, nel 1969! E esplorammo lo spazio sotto l’impulso della competizione USA-URSS, divisi nella corsa ma uniti nell’obiettivo, tanto che Armstrong, pur piantando la bandiera americana sul suolo lunare, ebbe la decenza di parlare a nome dell’“umanità”).


Tra il sessanta e il settanta ci si scontrò con una violenza reale che lascia senza fiato, fatta di morti ammazzati in piazze, fabbriche, ferrovie; di attentati e guerriglia vera, che coinvolse milioni di persone. Fa ridere comparare quella stagione con gli haters virtuali di oggi, anonimi leoni da tastiera. Eppure, nonostante il sangue versato in nome di un’idea di giustizia sociale, l’antropologia culturale dei due nemici era la stessa: il progresso materiale come strumento per realizzare un’utopia. Se si legge la storia d’Italia in questa prospettiva, si capisce allora come – nonostante il conflitto, anche armato – il paese fosse sostanzialmente unito dentro un’unica idea di futuro. Quella del miracolo economico, del clamoroso balzo postbellico (un dopoguerra che dura fino a tutti gli anni ’70) verso un’Italia “moderna”, di cui il ponte Morandi era uno dei simboli.


Tutto collassa negli anni ottanta: non solo il comunismo, e con esso un conflitto terribile ma fervido di innovazioni, ma anche quel senso di andare insieme verso un futuro comune. L’idea, insomma, che strade, ponti, ferrovie, viadotti, fabbriche, servissero a tutti. In questo senso si capisce come un Berlusconi (e il suo ventennio) potessero verificarsi solo in Italia. Da una parte Berlusconi inizia come un self-made man che arriva dalla tradizione dei commendatori anni sessanta, ma gli ci vuole poco per spostare i suoi interessi dall’edilizia alla televisione (e poi alla politica). Berlusconi si richiama al passato (“Per un nuovo miracolo italiano”, ricordate?), ma si muove in un ambito un cui la rimozione del conflitto sociale ha spostato il centro della vita dal materiale all’immateriale. I “ponti” di Berlusconi sono i tralicci che rimandano il segnale Mediaset; e la “guerra” si gioca sulla conquista delle frequenze, non più sull’occupazione di un territorio con opere pubbliche che erano il segno di un potere: tipica pratica democristiana, ma anche delle regioni “rosse”. Alla fine, la Grande Opera che resta nella memoria del ventennio berlusconiano è qualcosa che non è stato costruito, effimera come una trasmissione tv: il ponte sullo stretto di Messina. Ma anche (e qui c’è una sorta di macabra profezia) la “ricostruzione” di L’Aquila. C’è qualcosa di arcano, simbolico e perfino psicanalitico quando Berlusconi decide, per il G8 del 2009, di lasciar perdere la Maddalena (con le sue discutibili e faraoniche costruzioni, che però comunicavano un’idea di “rinnovamento”) e porta i suoi ospiti in una città terremotata. Il pensiero inconscio è ormai quello di sentire l’Italia come un paese di macerie da “ricostruire com’era”: l’idea di progresso è sparita dietro un vagheggiamento del passato perduto, un infantilismo ideologico che oggi chiamiamo “populismo”. Già ampiamente trascolorata all’inizio del nuovo secolo, qualsiasi utopia di sviluppo come tessuto connettivo del paese scompare con la digitalizzazione della cultura e della politica. Ci si frantuma in mille questioni locali dove, come dice Renoir in La regola del gioco, “La cosa terribile è che ciascuno ha le sue ragioni”. Dentro questo pulviscolo di microconflitti (da cui nasce il M5S), ogni idea di costruire un orizzonte comune, un progetto sullo sviluppo del paese si paralizza.
Scompare l’icona di un’epoca, e il fatto rende bene la misura del processo: l’operaio, il lavoratore. È qualcosa che si vede bene in La zuppa del demonio: nonostante i film fossero prodotti dalle aziende per autocelebrarsi, alla fine l’immagine più forte che ne vien fuori è proprio quella dell’homo faber. Era la forza stessa del lavoro che si imponeva e i registi non potevano fare a meno di raccontarla con straordinarie immagini di gente del popolo che costruiva dighe, sopraelevate, tunnel. Come disse Ermanno Olmi, uno che di quei film ne firmò a dozzine: “C’era ancora a quel tempo la fierezza di appartenere a un’azienda, a un gruppo, a un popolo, a un’entità umana che produce una trasformazione storica.”.


Oggi, fate un giro in Val di Susa, dove si lavora alla Grande Opera più famosa e famigerata, il TAV. Gli operai se ne stanno dietro il filo spinato, protetti dalla polizia, hanno scarsi rapporti con i locali, che li guardano come una specie di occupanti. Se c’è un’epica, non è quella del costruttore, è quella del “residente/resistente” che si oppone all’opera. Anche questo indica un mutamento epocale: non ti qualifichi più per quello che fai o per quello che sei, ma per dove stai. Culturalmente, i No-TAV sono opposti e insieme complementari al “Prima gli italiani” di Salvini. D’altra parte, l’icona che oggi ha preso il posto dell’operaio è quella del vigile del fuoco, del soccorritore – celebrato anche in questi giorni con sincera commozione. E ce ne sono tutte le ragioni. Ma può un paese essere rappresentato da un operatore dell’emergenza? Uno che interviene quando tutto va a catafascio, giusto per salvare il salvabile?

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