Pagare il sapere

11 Novembre 2015

Finire contro un paywall, cioè contro un muro che può essere valicato soltanto dietro pagamento di un pedaggio, è un’esperienza che l’utente medio di internet conosce di certo molto bene. Può succedere quando si cerca un articolo di giornale, il video di un musicista favorito, un modello di lettera commerciale in inglese scritto meglio.

 

Al ricercatore scientifico di qualsiasi disciplina capita sempre, sistematicamente. In questo caso, però, l’accesso alle informazioni, ai dati, alle conoscenze e alla letteratura critica è una questione cruciale, da cui dipende la possibilità stessa di condurre la ricerca. Ma c’è un’altra differenza importante. Per attenersi alle soluzioni legali, l’abbonamento a un quotidiano on-line o a Netflix, oppure l’acquisto di un e-book di fiction, costano pochi euro, e il download di un pezzo su iTunes addirittura pochi centesimi. Per un ricercatore indipendente o per un ricercatore a tempo determinato il cui tempo è scaduto e che si ritrova senza affiliazione a un istituto accademico o di ricerca, invece, il costo dell’accesso a un singolo articolo di rivista scientifica può aggirarsi intorno ai 35 dollari. E va da sé che la bibliografia di un buon paper, se chi lo scrive vuole rimanere sul mercato del lavoro accademico, di articoli così, a 35 dollari al pezzo, deve citarne a decine.

 

Molte risorse, in ogni caso, sono accessibili solo attraverso abbonamenti istituzionali. Ma per gli strutturati le cose non vanno poi molto meglio, dato che poche biblioteche possono permettersi i costi di abbonamento per l’accesso alle principali piattaforme digitali di distribuzione di contenuti scientifici. Di conseguenza, banalmente, la quantità e la qualità di informazione scientifica a cui un ricercatore ha accesso è funzione delle capacità finanziarie della sua università. La differenza di censo, cioè, non influisce soltanto, a valle, sulla notorietà che una ricerca può assumere e sulla sua diffusione; e non ha solo ricadute sulla disponibilità di fonti secondarie: incide, a monte, sull’ambito primario dell’accesso alle informazioni di base. Un geologo, un archeologo, un umanista digitale di una piccola università non sono solo meno visibili e influenti dei colleghi di una grande istituzione accademica, ma rischiano anche di non poter fondare le loro analisi su un numero altrettanto ampio di dati grezzi. Due fatti recenti ci permettono di illustrare con esempi concreti il funzionamento del sistema e le forme possibili di resistenza.

 

La prima e più recente vicenda esemplare di questo caldo autunno per l’editoria scientifica risale ai primi di novembre, quando si dimette in blocco la redazione scientifica di «Lingua», una delle più importanti riviste internazionali di linguistica, pubblicata da Elsevier. I sei membri della redazione scientifica e i trentuno redattori avevano chiesto all’editore di ridurre sensibilmente il prezzo del periodico per andare incontro alle difficoltà di numerose biblioteche universitarie non più in grado di rinnovare l’abbonamento, e di poter adottare una più ampia politica di Open Access. L’editore, già al centro di una campagna internazionale di boicottaggio promossa dal matematico Medaglia Fields Tim Gowers, The cost of knowledge, oppone un fermo diniego. L’intera redazione allora si dimette e annuncia la creazione di «Glossa», una rivista alternativa tutta in Open Access, che sarà presto ospitata dalla Open Library of Humanities. Azione e reazione.

 

L’editore scientifico, a ben vedere, non finanzia la ricerca scientifica. Non contribuisce né ai processi di selezione dei risultati migliori né al miglioramento della forma dei prodotti della ricerca, perché queste funzioni sono svolte su base volontaria e in gran parte gratuita dalla stessa comunità scientifica, cioè dalle redazioni scientifiche delle riviste e dai loro referee. E addirittura ostacola la circolazione delle conoscenze scientifiche che, una volta “pubblicate” assumono in realtà lo statuto opposto al pubblico dominio, divenendo accessibili soltanto dietro il pagamento di tariffe inarrivabili per la maggior parte degli istituti universitari, delle biblioteche e degli enti di ricerca. Ricerche prodotte nella maggior parte dei casi, direttamente o indirettamente, grazie a fondi pubblici, per il pubblico diventano dunque inaccessibili, se non al costo di un rinnovato impegno di fondi che gravano una seconda volta sulla fiscalità generale, ma ora a esclusivo beneficio di monopolisti privati.

 

Per queste ragioni, l'economia politica dell'editoria scientifica può essere descritta come una forma del cosiddetto rentier capitalism, ovvero capitalismo della rendita. Una forma anche relativamente elementare, che nella creazione di scarsità artificiale di cui si nutre genera però esternalità negative piuttosto complesse. Gli oligopolisti del mercato editoriale scientifico globale, infatti, non partecipano (o lo fanno in misura irrilevante) ai processi produttivi, nella fattispecie alla produzione di conoscenza scientifica. Traggono invece il loro profitto dall’imposizione di monopoli sull’accesso alla conoscenza stessa, servendosi di due strumenti coordinati: uno giuridico, cioè la legislazione sul copyright; l’altro tecnologico, cioè le piattaforme di distribuzione delle pubblicazioni digitali a sottoscrizione. E la scarsità artificiale che generano – com’è noto, la conoscenza è un bene né scarso né esclusivo – si determina a sua volta su due piani: uno materiale, cioè la concreta inaccessibilità delle risorse; l’altro immateriale e simbolico, vale a dire il credito reputazionale che deriva dal pubblicare su riviste letteralmente “esclusive”. I critici del capitalismo cognitivo hanno indicato in questo meccanismo che deprime la vitalità stessa di ciò da cui trae profitto – la libera circolazione della conoscenza è condizione necessaria per lo sviluppo della conoscenza stessa – come causa principale e specifica delle crisi strutturali di questa particolare forma di regime capitalista.

 

Appena pochi giorni prima, lo scorso 28 ottobre, gli iscritti alla Renaissance Society of America (RSA) vengono informati dal direttivo dell’associazione che i diritti di accesso all’EEBO, il database digitale dei libri in lingua inglese pubblicati prima del ‘700 sono stati revocati, e che le risorse diverranno inaccessibili alla fine del mese: «Le ragioni della revoca – aggiunge il messaggio – derivano dal fatto che i nostri iscritti fanno un uso tanto intenso dell’abbonamento che questo riduce il margine potenziale di profitto che ProQuest ricaverebbe dagli abbonamenti alle biblioteche. La nostra è la sola società scientifica ad avere un abbonamento all’EEBO, e ProQuest non intende né estendere questa possibilità ad altre società scientifiche né rinnovare l’abbonamento della RSA».

 

Analizziamo gli elementi in gioco. La RSA è una società scientifica americana che riunisce studiosi del Rinascimento. L’EEBO è il database del materiale – in sé, è bene ricordare, libero da copyright, nel dominio pubblico (i volumi più recenti risalgono al Diciottesimo secolo) – che costituisce uno degli oggetti di studio prioritari dei ricercatori della RSA. ProQuest è una società di servizi editoriali e bibliotecari. Fondata alla fine degli anni Trenta per microfilmare i fondi del British Museum, oggi è un gigante dei servizi per l’editoria scientifica, che gestisce tra le altre cose strumenti chiave come RefWorks, uno dei più diffusi gestionali per le citazioni, e ebrary, grande repository di saggistica in formato digitale. Come hanno ricordato diversi commentatori, una quota di capitale di ProQuest è detenuta da Goldman Sachs, la banca d’affari indicata dall’Autorità di controllo dei mercati finanziari degli Stati Uniti come uno dei principali responsabili della Crisi dei subprime e quindi della recessione iniziata nel 2008.

 

Quando l’EEBO fu lanciato nella sua forma attuale, nel 2001, l’accesso per i soggetti istituzionali costava 31.250 dollari per un anno oppure un forfait di 171.000 dollari per un abbonamento a tempo indeterminato. L’iscrizione alla RSA costa attualmente da un minimo di 45 dollari per un anno (per gli studenti) a un massimo di 3.000 dollari per tutta la vita, e dà diritto all’accesso illimitato all’EEBO. Di qui, fatti due conti sulle dita, la motivazione addotta da ProQuest per la rescissione unilaterale del contratto di accesso, che oltre a essere gustosa nel suo premier degré – non ci alziamo abbastanza soldi – è anche, a una seconda lettura, particolarmente illuminante. Come sempre più spesso si va rivelando nel campo dei servizi di abbonamento per l’accesso ai contenuti digitali, infatti, l’elemento che fa saltare il banco, a dispetto di tante chiacchiere sulla crisi dell’editoria, anche scientifica, è l’eccesso di domanda. O meglio, come ci permette di comprendere il nostro esempio, di una concentrazione della domanda in un canale dove la creazione di scarsità artificiale ha meno presa. La comunità scientifica internazionale ha subito reagito con una campagna battente, ottenendo nell’arco di un solo giorno il dietrofront di ProQuest. Ma la questione generale rimane naturalmente aperta.

 

Per boicottare l’economia politica dell’editoria scientifica e accademica in fondo basta poco. Gesti semplici, ma carichi di una forza simbolica dirompente, che restituiscono al libero dominio immateriale delle relazioni ciò che gli era stato ingiustamente sottratto.

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