A novant'anni dalla sua morte / Medardo Rosso. Addio Milano

31 Marzo 2018

Nel maggio 1889 lo scultore trentunenne Medardo Rosso (1858-1928) dice addio a Milano e all’Italia. Dice addio alla ristrettezza di vedute dei circoli milanesi, a un’arte ufficiale che celebra battaglie ed eroi gagliardi, scene di genere retoriche e accademiche, stili nazionali quanto provinciali; a un paese in cui è riuscito a esporre una sola volta (a Venezia nel 1887). Dice addio all’immobilismo politico, alla borghesia conservatrice che non ha mantenuto le promesse del Risorgimento, e che gli ha persino rifiutato l’iscrizione alla Massoneria nel 1889. Dice addio all’Accademia di Belle Arti di Brera, in cui ha frequentato da uditore corsi di disegno ma non di scultura, e da cui è stato espulso nel 1883. Dice addio a una critica poco entusiasta quando non apertamente ostile: il suo monumento funebre al Cimitero Monumentale di Milano (La Riconoscenza, 1883, perduto) è rimosso nove giorni dopo l’installazione; di quello per Filippo Filippi (1888) si scrive invece che la sprezzatura è “spinta fino alla scombiccheratura” (Ferdinando Fontana), insomma uno sgorbio. Del resto in Italia il realismo di Courbet è considerato pretenzioso e i paesaggi impressionisti di Pissarro, come L’approssimarsi della bufera (1877), “un accozzo tremendo”, una “frittata coi broccoli” (Ossian, in “Firenze artistica”, 1879).

 

Medardo Rosso, Impression d'omnibus, 1884-1887.


Con un matrimonio fallito alle spalle e un cumulo di debiti, forte del francese imparato a scuola, con cinque bronzi in valigia da esporre all’Exposition universelle, Medardo Rosso si trasferisce a Parigi: città europea e cosmopolita, capitale indiscussa della modernità artistica, malgrado le tensioni che scuotono la Terza Repubblica (guerra franco-prussiana, affaire Dreyfus, crisi boulangista, scandalo del canale di Panama…).

 

Prima che migrante, Rosso è un “cosmopolita straniero” che disdegna gli Stati nazione, un autarchico se non un “anarchico europeo”, come si considera secondo l’amico e poeta simbolista Jehan Rictus. Non adotterà mai la visione stereotipata che hanno i francesi degli artisti italiani, quelle italienneries apprezzate dai mercanti, ma neanche gli stilemi francesi allora in voga. In definitiva Rosso “non era abbastanza italiano per essere classificato come straniero, ma nemmeno abbastanza francese per essere percepito come tale” (p. 179). Così scrive Sharon Hecker in Un monumento al momento. Medardo Rosso e le origini della scultura contemporanea (tradotto da Nicoletta Poo, Johan & Levi 2017), risultato di un lavoro approfondito su documenti primari e fonti inedite che restituiscono un ritratto preciso e sfaccettato dell’opera dello scultore italiano, correggendo altresì inesattezze e imprecisioni della letteratura critica. L’autrice, che per la prima volta visita l’omonimo museo a Barzio nel 1992 con Luciano Fabro, ha acquisito una spiccata sensibilità per le opere di Rosso, evidente nelle analisi come nella scelta delle illustrazioni delle sculture, in gran parte scattate dall’artista stesso.

 

Medardo Rosso, Aetas aurea, fine 1885-1886.


Rosso ha un’anima ribelle poco incline al compromesso, come nel caso di altri artisti italiani trasferiti in Francia (Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi). E di adottare un nome francese – il termine utilizzato ancora oggi, “naturalisation”, restituisce bene l’idea – non gli passa mai per la testa, come quel Richard Barabandy (il pittore milanese Riccardo Barabandi), quel Lucius (il pittore Lucio Rossi), quell’Henri Cernuschi (il banchiere Enrico Cernuschi), per limitarsi a figure con cui entra in contatto.

 

Nella corrispondenza di Rosso non c’è spazio per le meraviglie della Parigi fin de siècle, per le mostre di Monet o Rodin che non possono lasciarlo indifferente. Niente sulla nostalgia per il Bel Paese. Una capa tosta, questo Rosso. A preoccuparlo, è la ricerca di un atelier, stanco di girovagare per hotel vicino Strasbourg Saint-Denis (rue Enghien). Si sposta più a nord, verso Pigalle (rue Fontaine) e prende un atelier sotto Montmartre, a boulevard de Clichy. Oddio, atelier è una parolona, descritto da chi ci mette piede come “una capanna fatta di travi, accanto a bizzarre baracche che sembrano un accampamento di ambulanti da fiera”, “tra pareti traballanti davanti agli enormi forni che si è costruito da solo”, come appunta un giornalista anonimo (su “Gil Blas”, ottobre 1895).

 

Medardo Rosso, Enfant malade, 1893-1895.


Tracce visibili del suo sradicamento emergono nelle opere, come la madre acefala (Enfant au sein, 1889-1890, un terzo delle sculture parigine rappresentano teste di bambini), in cui Hecker legge la spaccatura tra Rosso e la madrepatria. Nella stessa direzione vanno le sue figure predilette: malati, alienati, poveri, sofferenti, reietti – la prima scultura che espone in pubblico si chiama L’allucinato (1881, perduta). Persino le cantanti di cabaret di Montmartre sono rese senza orpelli, senza accenni alle sinuosità erotiche del corpo: i loro sguardi sono anonimi e vacui, i loro volti, più che scolpiti, cancellati, a volte senza occhi. È la scarna struttura della realtà che Rosso percepisce dietro la lucentezza delle apparenze.

 

Tra slanci e difficoltà

 

Ora, per quanto Rosso sia spigoloso e inflessibile, defilato e spavaldo, poco avvezzo alle convenzioni e ai convenevoli, ha bisogno come il pane di riconoscimenti. Cerca l’appoggio di mercanti d’arte, galleristi, scrittori-critici (Emile Zola, Edmond de Goncourt), artisti tra i quali l’amico-nemico Auguste Rodin, conosciuto quando Rosso espone nel foyer del teatro La Bodinière nel novembre 1893.

Per quanto la Francia sia all’avanguardia, si crede ancora che la scultura non sia compatibile con la modernità, come sosteneva Baudelaire nel Salon del 1846 (Perché la scultura è tanto noiosa?). Lo dimostra l’accoglienza del Balzac di Rodin, simile alle figure sbilanciate di Rosso (Bookmaker, 1893-95 e Uomo che legge, 1894-95): “fantasma di gesso” (Félix Duquesnel), “pupazzo di neve” (Jean Villemer), “aberrazione mentale” (Jean Rameau), “dolmen sbilanciato” (Philippe Gille), fino all’“orso polare in piedi sulle zampe posteriori” di Bernard Berenson. Gli scultori italiani, poi, sono considerati semplici praticien, “ciarlatani della forma” (p. 183) secondo lo scultore romantico David d’Angers, indifferenti allo sguardo analitico dell’anatomia.

 

Medardo Rosso, Rieuse petite rieuse, primi anni novanta del XIX secolo.


Sì, Rosso parlava di impressioni, ma era lontano dagli impressionisti francesi, attratti da “un atteggiamento distaccato, un interesse per l’ottica, per la suddivisione del colore e per il pubblico spettacolo della vie moderne” (pp. 139-140). Attento a cogliere la fugacità del momento e gli stati psicologici, Rosso risolve la sua scultura in una visione lontana dalla tattilità, in una scultura frontale senza un retro scolpito oltre che senza piedistallo. “Rosso non scolpisce la materia; la lustra, la scortica, la sfuma, la rende patinata e, come per magia, la anima” (in “Gil Blas”, ottobre 1895, cit. p. 181).

Per quanto la Francia sia cosmopolita, le committenze pubbliche e i monumenti nazionali sono inaccessibili a un émigré. Rosso lavora così a formati più piccoli, maneggevoli, leggeri, trasportabili, “collezionabili”. Commercializza la sua opera realizzando riproduzioni in cera, gesso e bronzo, fuse da lui stesso senza passare per le fonderie, facendo tesoro delle competenze acquisite in Italia. Si riappropria così del processo d’industrializzazione della scultura.

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard, femme à la voilette, 1892-1897.


L’atelier diventa un luogo d’esposizione e un punto vendita in cui, per mostrare la sua parabola artistica, dispone opere di periodi diversi, le fotografa, ne cambia i titoli. Nell’ottobre 1902, in occasione della visita del critico tedesco Julius Meier-Graefe, espone riproduzioni di opere antiche, come il Vitellio del Vaticano, una copia in cera di Madonna con bambino di Michelangelo, un Giovanni Battista di Rodin e una sua opera – una vera e propria installazione. Controllando ogni fase creativa, produttiva ed espositiva, lo studio diventa un teatro collettivo e intimo. Qui il pubblico – leggasi potenziali collezionisti – assiste al processo di realizzazione delle sue sculture col metodo della cera persa, poco conosciuto in Francia. Rispetto a Degas, Rosso “non modellava mai naturalmente la cerca morbida su un’armatura interna ma preferiva gettare cera liquida in stampi flessibili in gelatina” (p. 177).

 

Medardo Rosso, Impression de boulevard,Paris la nuit, 1896-1899.


La cera permette a Rosso di smaterializzare la scultura monumentale, sbozzando appena le forme, accentuando la sua inclinazione per il frammento scultoreo, dissolvendo la materialità – “far dimenticare la materia”, come dice riprendendo Morice. Su questo materiale viscoso e malleabile Rosso lascia l’impronta delle dita, consapevole del paradosso: “accentuando la materialità dell’opera crea l’illusione della sua dematerializzazione” (p. 156).

Come ricostruisce lo straordinario libro di Julius von Schlosser, Storia del ritratto in cera (a cura di Pietro Conte, tradotto da Quodlibet, 2011), le figure di cera sono state spesso trascurate dalle arti visive. La somiglianza eccessiva della ceroplastica sfugge alla logica della rappresentazione e reclama un ruolo nel mondo reale. Giunta a un grado estremo di perfezione, la mimesi artistica genera un doppio insostenibile e demoniaco: manichini e automi, effigi funebri e calchi – di uomini illustri o di creature mostruose –, ex voto e specimen per gabinetti di anatomia. Eppure oggi la cera, ricorda Hecker, è al cuore di molte pratiche artistiche, da Bruce Nauman a Maurizio Cattelan, da Joseph Beuys a Wolfgang Laib, da Anish Kapoor a Urs Fischer.

 

Il successo arriva

 

Nel marzo 1896 lo scrittore simbolista Camille de Saint-Croix pubblica un articolo di tredici pagine su Rosso sul “Mercure de France” e, nel 1902, l’influente De l’impressionisme en sculpture, con un’intervista e quindici foto di Rosso rispetto alle cinque di Rodin. Rosso partecipa inoltre all’Exposition universelle del 1900. La visita Etha Fles, scrittrice, artista, critica olandese, presto amante di Rosso e promotrice della sua fortuna nel mondo anglo-sassone. Nella carriera dello scultore italiano si apre un nuovo fronte: Olanda, Germania, Austria, Belgio, Gran Bretagna. Momento forte è la mostra a Vienna nel 1903 sull’impressionismo in pittura e scultura, in cui Rosso è l’unico scultore italiano. Col saggio di Meier-Graefe l’impressionismo subisce una virata decisiva: da movimento nazionalista francese diventa un fenomeno europeo, cuore pulsante del modernismo europeo.

Ciononostante, Rosso resta un globe-trotter refrattario. Nel 1901, da Berlino, Lipsia o Vienna scrive lettere su carta intestata di un albergo di Dresda (e che, apprendiamo da Hecker, restano da studiare), indirizzate a Georg Treu, direttore dell’Albertinum di Dresda. “Rosso parla di lunghe ore confinato in stanze d’albergo, isolato e a disagio per il fatto di essere straniero”, e in finale “Niente in Germania gli fu da stimolo per la creazione di nuove sculture” (p. 225).

 

Medardo Rosso, Bookmaker, 1893-1895 circa.


Rientra a Parigi nel 1902, diventa cittadino francese rinunciando alla cittadinanza italiana, restando tuttavia estraneo a ogni senso di appartenenza. Rosso “non amava dire in che città era nato”, ricordava l’amico italiano Mario Vianello Chiodo (p. 211), e “preferiva rispondere che era nato in treno, dato che suo padre era funzionario delle ferrovie”. 

Nel 1903 è tra i fondatori del Salon d’automne, dove l’anno successivo espone una dozzina di sculture, di cui una nella stanza dedicata a Cézanne in doveroso omaggio. Le ammira tra gli altri un giovane Constantin Brancusi appena sbarcato a Parigi. 

 

Nel 1910 va a Firenze, dove Ardengo Soffici organizza la sua prima mostra italiana dopo ventuno anni di assenza dal suo paese. Qui resterà fino alla morte nel 1928, esponendo raramente all’estero. È presto dimenticato da tutti, italiani e francesi inclusi, malgrado l’influenza esercitata su Boccioni, Balla, Brancusi (la sua Testa di bambino addormentato è giustamente paragonata da Hecker a Enfant malade di Rosso), Giacometti, Henry Moore, George Segal, Luciano Fabro, Giovanni Anselmo – secondo cui quella di Rosso è “una scultura che nega e cancella se stessa” (p. 247) – Tony Cragg, Marisa Merz, Diana Al-Hadid, Erin Shirreff. 

La tendenza s’inverte solo nel 1963, con la pubblicazione di uno studio critico sul suo lavoro e l’apertura di un’ampia retrospettiva. In Italia? Acqua. In Francia? Acqua. L’autrice è Margaret Scolari Barr, la mostra al MoMA di New York.

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