Sleep mode, o la produzione dell'insonnia

20 Aprile 2015

 

Day and night

Why it is so

Cole Porter, 1932

 

 

Nessuno ricorda quanto durarono le celebrazioni per la vittoria sul sonno. La vita umana entrò in un tempo senza tempo, senza demarcazioni, sequenze né ricorrenze – il tempo cessò insomma di passare.

 

Tracey Emin Dream of Sleep 2002

 

 

L’era del sonno

L’era del sonno durò diversi secoli. L’apparecchiatura che la rese possibile – il letto, il cuscino, la coperta, l’abat-jour, la sveglia – divenne oggetto da  collezionisti che trattavano come Wunderkammer quelle stanze da letto che prendevano così tanto spazio negli appartamenti dei nostri antenati.

 

Da tempo i laboratori medici del Dipartimento della difesa americano compivano esperimenti di produzione dell’insonnia. Soluzioni neurochimiche, terapie genetiche, stimolazioni magnetiche transcraniali non produssero i risultati sperati. Finché si studiarono le migrazioni stagionali del passero dalla gola bianca, che viaggia dall’Alaska al nord del Messico in autunno, e dal nord del Messico all’Alaska in primavera. Per una settimana non chiude occhio, volando giorno e notte sulla costa del Pacifico. Comprendere l’attività cerebrale del passero nel corso della traversata divenne la nuova sfida della scienza militare. Estendere le capacità fisico-mentali dell’uomo al di là dei limiti allora considerati fisiologici, al fine di trasformare il corpo del soldato in una macchina dotata dello stesso grado di performatività delle armi che doveva manipolare. Nell’interfaccia uomo-macchina, macchinizzare l’uomo era più agevole che umanizzare le macchine. Non si comprese subito che il mito del soldato insonne e vigile – fisicamente e mentalmente – per giorni interi senza anfetamine o Provigil, apriva la porta al lavoratore e al consumatore insonni.

 

Privazioni del sonno erano imposte ai prigionieri di guerra in celle illuminate 24/7 – controllare il loro plesso sensoriale e percettivo li rendeva vulnerabili. Ma questi esperimenti erano ancora guidati dall’idea romantica che una privazione del sonno conducesse l’individuo a una de-soggettivizazione. Al contrario, noi l’abbiamo vissuta come una liberazione.

 

 

Il sonno arcaico

Il sonno era uno degli ultimissimi elementi arcaici insidiatosi nella vita quotidiana e sopravvissuto alla modernizzazione, nonostante la sua incompatibilità coi suoi ritmi cumulativi, evolutivi ed anti-ciclici. Da secoli si ribadiva l’irrilevanza del sonno per la conoscenza: Cartesio, Hume, Locke, con l’eccezione del solito Schopenhauer. Nel primo paragrafo del Trattato sulla natura umana, Hume associava il sonno alla febbre e alla pazzia in quanto ostacoli al sapere – una regressione lontana dalla facoltà raziocinante dell’uomo, in un’era che cantava l’addio a un’idea logora di natura. Erano i primi passi verso un’esistenza finalmente scissa dalle rivoluzioni solari e lunari, dai cicli stagionali della vita agraria che, col suo rapporto alla terra, rallentava il pieno sviluppo del tecno-capitalismo.

 

 

Portare luce

Cosa di più innocuo del sonno? Eppure quest’attività né naturale né sociale creava sempre più problemi nell’era dell’antropocene, un’enclave nell’ordine globale, una non-attività che occupava un terzo delle nostre giornate e delle nostre esistenze. Come arrendersi al fatto che un uomo passa in media 30 anni a dormire? Palese la sua incompatibilità sociale: il sonno rallentava la circolazione e il consumo, sottraeva tempo al lavoro e allo shopping. La logica produttivistica lo rese incongruo, un impaccio che spettava alla scienza risolvere una volta per tutte. Risolverlo come l’uomo aveva già vinto la notte, attorno al 1880, grazie all’illuminazione elettrica delle città. Da allora viviamo in uno stato d’illuminazione permanente, in un Nuovo Illuminismo insofferente all’oscurità, all’ombra, alle sfumature. Ricordate i patetici Tramontisti, quel gruppuscolo di nostalgici che, ne La decima vittima (1965) di Elio Petri, si adunava sulla spiaggia vestito di bianco per osservare il tramonto, commuovendosi fino alle lacrime davanti a simile spettacolo? Se si era risolta l’alternanza tra il giorno e la notte, si poteva risolvere anche quella tra la veglia e il sonno.

 

La decima vittima, regia Elio Petri, 1965

 

 

Inutili proteste

Quando il sonno era sul punto di essere debellato, qualcuno protestò. Sindacati e altre associazioni lo difesero come barriera alle politiche neoliberali, tempo non colonizzabile in una congiuntura storica che aveva colonizzato ogni aspetto del quotidiano. Ma in una comunità europea economicamente instabile, difendere il sonno voleva dire auto-annientarsi. Così i manifestanti non seppero trovare un linguaggio efficace per contrastare la guerra al sonno e l’immagine negativa del dormiente “che non piglia pesci” foraggiata dalla Propaganda. Pochi i giovani sotto i 40 anni che si mobilitarono.

 

E poi il sonno non era un’ipostasi ma un fenomeno con una sua storia ed evoluzione. Nei primi anni del XX secolo, un americano adulto dormiva la bellezza di 10 ore, nei primi anni del XXI secolo 6:30. Persino in Italia il muro delle canoniche 8 ore si sgretolò non appena diventò prassi svegliarsi diverse volte nella notte per controllare dati e rispondere ai messaggi.

 

 

Biocidio

La produzione dell’insonnia si accompagnò a una fragilizzazione della sfera sociale e a condizioni lavorative ancora più precarie. Quando il lavoro fu scisso dalle esigenze fisiologiche del sonno, legittimare le pause diventò difficile. Era lontano quel XIX secolo in cui i padroni delle fabbriche erano convinti che le pause rendevano i lavoratori più efficienti. Al tempo del biocidio e della bioderegulation, il sonno bisognava guadagnarselo lavorando. Se una volta si compravano medicine per dormire, presto si comprarono direttamente ore di sonno, detratte automaticamente dalla busta paga. Per risparmiare, eliminata l’inutile pausa pranzo – ex-baluardo dei paesi mediterranei – molti riuscivano a comprare non più di un paio d’ore di sonno al giorno, in attesa dei bonus supplementari del fine settimana.

 

24/7 diventò il funzionamento normale non solo delle attività commerciali ma della nostra identità sociale. La vita no-stop rese curiosa l’ipotesi che una lacuna interrompesse l’azione perpetua, che qualcosa – o qualcuno – fosse disattivato per una frazione di tempo.

 

Non appena gli aeroporti si dotarono di scanner del cervello per cogliere pensieri terroristi, il sogno diventò registrabile e scaricabile, postato come un video on line grazie a una semplice interfaccia neurale. I momenti più intimi delle nostre esistenze erano registrati, archiviati e processati per predeterminare futuri comportamenti. Così finimmo tutti per fare un po’ gli stessi sogni. L’esternalizzazione della vie intérieure in formato digitale non faceva che compiere l’assalto alla vita quotidiana cominciato negli anni 80. A guadagnarci fu solo l’industria farmaceutica, che fece dei nostri stati emotivi passeggeri, come il tedio e la tristezza per dirne due, delle patologie da curare coi loro prodotti.

 

 

Sonnambuli

Malgrado la sfida titanica lanciata al tempo degli orologi e dei calendari, quella disfunzione che era il sonno non venne mai completamente debellata dal Sistema. Il sonno resisteva a essere neutralizzato. Si arrivò a un compromesso, quello dello sleep mode, la stessa modalità di basso funzionamento dei nostri dispositivi, quel low-power o stand-by al di là della logica binaria on/off. Scomparso l’off, scomparsa l’idea di riposo, la macchina umana è pronta a riattivarsi alla minima sollecitazione, come un gatto che dorme con le orecchie tese allo spazio circostante.

 

La produzione dell’insonnia si accompagnò infine a un fenomeno curioso: il moltiplicarsi di retrospettive di film sui sonnambuli. Le sale cinematografiche rimasero a lungo uno dei rari luoghi immersi nel buio. Si veniva qui per sedersi, socchiudere gli occhi, lasciarsi subdolamente cogliere dal sonno, come un virus. Questa pratica fu tollerata un po’ ovunque tranne che in Cina, dove gli schienali furono dotati di sensori anti-Morfeo. Il brevetto fu presto venduto nei maggiori paesi occidentali.

 

 

 

Queste righe non fanno altro che elaborare alcuni passaggi dell’ultimo libro straordinario di Jonathan Crary, 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep (Verso 2013), in attesa che un editore, come dire, si svegli per tradurlo in italiano. Anziché interrogarsi sull’assurdità di questo scenario, è più proficuo riflettere sul modo in cui popola già il nostro immaginario contemporaneo.

 
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