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Opinioni / Covid: ognuno dice la sua

11 Settembre 2020

Studi statistici hanno messo in evidenza l’impatto reale della letalità pandemica – di gran lunga maggiore di quella dichiarata –, e studi di caso han mostrato conseguenze del tutto inattese, a volte dovute agli stessi trattamenti sperimentali. Le scienze mediche hanno dovuto ammettere con grande umiltà la loro ignoranza, procedere per ipotesi. Questa è la realtà, e fa onore a tutti coloro che, in campo sanitario, lo hanno riconosciuto dando vita a osservazioni empiriche, non generalizzabili, ma che hanno acquistato una certa robustezza, come quella di sconosciuti cardiologi che hanno osservato reazioni immunitarie differenti, che si aggiungerebbero a quelle più classiche della polmonite. 

 

Tutto questo ci ha messo di fronte alla fallibilità umana e all’incertezza della ricerca scientifica, ci ha ridimensionati come “abitanti della terra”, non “padroni” di essa. Nel covid come negli altri virus, c’è qualcosa di non interamente controllabile. Questo lo constatava, ben prima dell’insorgenza del covid, David Quammen in Spillover nel 2012. Quammen scriveva qualcosa che oggi sembra dimenticato, o passato in second’ordine. Parlava dell’addensarsi delle pandemie, sempre più frequenti, negli ultimi anni. Era quasi una profezia di quanto sta accadendo e di quanto accadrà. 

Oltre a questo, e oltre ad aver devastato la vita di migliaia di persone, famiglie e comunità, il covid ha attratto centinaia di autori a scrivere: chi con competenza, chi per averlo subito, altri per narcisismo o per ribadire e avvalorare tesi filosofiche e politiche. C’è chi ha scritto per non perdere il tram e ha sollevato enormi confusioni, animato più da propositi ideologici. In questo, benché con argomenti opposti, questa volta, gli estremi si sono davvero toccati. C’è una certa omologia tra due tesi radicali. La prima tesi è che il virus è stata l’occasione per sperimentare su larga scala l’uso dello stato di emergenza e ridurre le libertà personali. Per quanto questa idea sia affascinante e – in alcune circostanze, altre da quella del virus – condivisibile, in questo caso si presuppone che il virus sia un “pretesto”, una costruzione sociale inventata. Da chi? Forse dalle strutture sanitarie mondiali per permettere alle democrazie di tenere sotto controllo le popolazioni ma qui, più che a Foucault – che parlò per primo di questo fenomeno – siamo alla paranoia sociale, delirio prevalente di questa post-modernità. 

 

La seconda tesi, radicale di destra, dichiara che il virus sia un’invenzione cinese per “comunistizzare” le società democratiche e fermare il libero mercato, destinato a dominare il mondo. Questa seconda tesi, più infame della precedente, sostiene che, virus o no, il mercato e la produzione deve continuare e che, per questo, bisogna sacrificare vite umane improduttive: gli anziani e coloro che hanno malattie precedenti. Dal pulpito di alcuni noti intellettuali di sinistra, così come dal pulpito di noti neo-dittatori di destra si combatte la stessa battaglia, benché con argomenti opposti. Il covid sembra servire a far cadere governi che ascoltano gli epidemiologi e favorire quelli che “se ne fregano”. Come in una vecchia gag di Guzzanti: “La casa delle libertà è il luogo dove possiamo fare tutto quello che ci pare”.

 

Tra i testi che non vedono l’ora di sperimentare un modellino astratto, il più riduttivo che mi è accaduto di leggere è quello di Slavoj Žižek, Virus. Catastrofe e società, uscito da poco per Ponte alle Grazie. 

Žižek menziona le ipotesi di Elisabeth Kübler-Ross, applicandole al covid. Il modello della nota psico-tanatologa svizzera – che ha scritto una quantità di testi a carattere religioso – riguarda però il tema delle malattie terminali e, anche qui, è discutibile sul piano clinico. Tolto dal suo contesto originario, diventa uno schema buono per tutte le stagioni. 

Kübler-Ross propone un modello “a fasi”, che, nella lettura del testo di Žižek, appare trasformato in un modello a stadi, cosa che Kübler-Ross mette in guardia dal fare. Gli stadi sono in progressione lineare, le fasi possono anche regredire, sostiene la psichiatra svizzera. Il modello di Kübler-Ross, proprio perché a fasi, riguarda l’esperienza interiore del morente. La sua applicazione alla società, come fa Žižek, è fuorviante. 

 

 

Le cinque fasi della malattia terminale sono: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione e accettazione. 

Credo che nessun clinico di buon senso riprenderebbe questo modello, pensato per eventi clinici del tutto differenti, per spiegare le reazioni al virus. L’esperienza del virus è molto diversa da quella del cancro. 

Per il covid, alla fase di rifiuto, l’unica che accomuna le due esperienze – e ogni esperienza di malattia – segue una fase di terrore, non di rabbia. Mi arrabbio di fronte a una necessità ineluttabile e strettamente personale, non di fronte a una possibilità, benché mortifera. Per un’epidemia provo lo stesso terrore che si attraversa di fronte a una catastrofe, dove si può morire subito o salvarsi, ma senza alcuna certezza. Inoltre, il virus non è una diagnosi terminale, che si vive spesso in solitudine, come nel libro di Norbert Elias La solitudine del morente. Il virus, e il covid in particolare, è un’esperienza collettiva, il soggetto del virus è una comunità, non un individuo, nelle zone infette ci sono gli altri: amici, parenti, conoscenti, ecc. Ogni volta che sai di qualcuno che si ammala gravemente, ogni volta che qualcuno che conosci muore, il virus ti atterrisce, ma non provi affatto rabbia. 

 

Il paradosso del virus è quello di essere un’epidemia, ci si ammala dentro una comunità, ma si muore isolati dalla comunità alla quale si appartiene. Non si tratta dunque della solitudine del morente, accanto ai suoi cari che scompaiono nel tempo del morire, ma dell’esperienza di una comunità che viene frammentata in pezzi staccati. Il dolore sta proprio lì, nella separazione di questi pezzi, che tendono inevitabilmente a congiungersi: i genitori, i figli, i nonni, il compagno, la compagna, quando sei in corsia, o quando sei a casa tua in quarantena, vivono al di là di una soglia di vetro.

Con il virus non c’è alcun patteggiamento, non si negozia. Tu sei là, in una corsia d’ospedale e leggi dal cellulare il numero dei morti totali, quello dei nuovi contagi, ricevi gli auguri degli amici, le chiamate, ma nessuno ti può venire a trovare. Anche quando muori, non è lo stesso. Sai che se muori lo farai senza funerale, senza capezzale, fuori dalla comunità di appartenenza. 

Vogliamo chiamare la fase successiva “depressione”? Ogni clinico sa che la depressione designa una reazione che non ha una causa specifica, semmai una depressione reattiva, ma se si deve essere rigorosi, bisognerebbe parlare di nostalgia. La nostalgia va e viene, non si fissa, come la malinconia, eppure può essere altrettanto intensa. Infine, nel modello di Kübler-Ross, menzionato da Žižek, si parla di accettazione. 

 

Accettazione è un termine di scarsa validità clinica. Lo si può usare per quei malati terminali che chiedono di essere sottoposti a pratiche di suicidio assistito, ma si tratta di “accettazione”? Io, in questi casi estremi, parlerei di necessità, di morte anticipata. 

Nell’insieme, il testo di Žižek appare scritto più per occupare spazio editoriale, un caso di narcisismo letterario non infrequente in questa intelligente soubrette della filosofia. Žižek difende Agamben: “Non ci staremo avvicinando a uno stato di eccezione globale, sul cui sfondo le riflessioni condotte da Giorgio Agamben assumono un rinnovato valore?”. No, Agamben, per amore sfrenato verso le proprie ipotesi, si è sbagliato radicalmente. Quel che lui chiama “virus corona”, è, come osservava Quammen, l’ennesimo virus che si ripete in un periodo di tempo assai breve. Nessuno ha parlato di Antropocene, eppure il virus non è altro che uno degli innumerevoli segni di Antropocene. Con una differenza, questo non è un fenomeno direttamente prodotto dall’uomo, è un suo prodotto indiretto, costringe tutti a prenderne atto e a rispettare la propria incolumità e quella degli altri. Le città sono piene di cialtroni, che non usano la mascherina, disobbedienza incivile salvinana. Agamben e Žižek sono d’accordo? Foucault analizzava i fenomeni storici nel loro produrre cambiamenti sociali, ma non ha mai negato la realtà, dava voce agli afflitti, non era sprezzante.

 

Il testo di Bernard-Henry Lévy è meno riduttivo e, nella prima parte, sembra cogliere alcuni aspetti del disagio da covid, accomunandolo ad altre forme del disagio epidemico e sociale del pianeta. Lévy riprende le riflessioni di Michel Foucault e Georges Canguilhem, che era medico. A Lévy fa onore il suo impegno diretto in diverse crisi internazionali che menziona anche nel libro Il virus che rende folli, per La nave di Teseo. 

Con Lévy non ci si confronta solo con ipotesi teoriche e filosofiche più o meno disincarnate. Lévy viaggia, osserva e contribuisce attivamente al cambiamento di condizioni in cui dimora il disastro sociale. 

L’autore però, nel seguire il motto di Rudolf Virchow – l’epidemia è un fenomeno sociale con aspetti medici – sembra, a tratti, perdere il senso della materialità del virus, del fatto che, come fenomeno sociale, il virus ha una consistenza materiale che va affrontata. In questo senso, il breve saggio di Michela Barzi, “Città, campagna e malattie”, apparso sull’ultimo numero della rivista Connessioni affronta una delle tante questioni trascurate riguardo al covid: l’importanza di un’epidemiologia comunitaria, basata su studi interdisciplinari congiunti tra epidemiologi, urbanisti, antropologi e sociologi urbani. 

Per tornare a Bernard-Henry Lévy, il suo testo sembra trascurare l’imprescindibile componente clinico-sanitaria del virus, che non è tutto, ma ne è parte. Il mondo è pieno di catastrofi umanitarie, e chi, come Bernard-Henry Lévy, se ne occupa lo sa bene: i massacri quotidiani, le nuove dittature, quanto accaduto in Libano di recente e nel passato, il genocidio dei curdi, il terrorismo islamista, e molto altro. Ma questo non ci impedisce di sottovalutare il covid e, a tratti, ciò emerge dal questo testo. 

 

Ho letto altri contributi, ma soprattutto ho ascoltato, negli ultimi tre, quattro mesi, da quando la mia affezione da covid è migliorata, molte persone che hanno avuto l’esperienza di attraversare il virus oppure di avere avuto un parente, di solito un genitore, ucciso dal virus. Io queste storie non pubblicate, nascoste, non le disprezzo, anzi, le trovo importanti fonti di informazione. Parlano delle esperienze interiori e dei vissuti comuni dei singoli, mi aiutano, come clinico, a pensare a un soggetto collettivo, che, nel vivere questa esperienza, si ritrova, nel bene o nel male, dentro la catastrofe. Le loro storie singolari suscitano grande curiosità e sono assai lontane dalle dispute filosofiche astratte dei “soliti noti”.

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