Una storia universale / Lo sguardo, le forme, il senso: Trittico dell'infamia

1 Maggio 2017

Per parlare dell’ultimo romanzo di Pablo Montoya, Tríptico de la infamia (2014, tr. it. di Ximena Rodríguez, Trittico dell’infamia,  Roma, Edizioni e/o, 2017; ed. illustrata, Milano, Fondazione Mudima, 2017), vorrei partire non da Jorge Luis Borges, come il titolo suggerirebbe, ma dall’affascinante aforisma racchiuso in un altro ‘trittico’, quello eterodossamente analitico che Jonathan Littell dedica all’opera del pittore Francis Bacon: nessuno sguardo – dice Littell con spirito foucaultiano – è mai innocente, sia sulla tela che fuori. Passando dai ritratti del Fayyum (I secolo d.C. circa) alle creature urlanti di Bacon, e ancora da Las Meninas (1656) di Diego Velázquez fino – perché no – al supercomputer HAL 9000 immaginato da Stanley Kubrick, non sarà difficile constatare che le arti visuali sono effettivamente costellate di occhi obliqui, inquisitori, a tratti minacciosi. Eppure, secondo Jacques Lacan, lo sguardo rappresenta il primo, fondamentale strumento ermeneutico di conoscenza dell’altro e, per riflesso, di sé: nella sua teoria dello specchio l’esperienza del mondo si configura innanzitutto in termini visivi. Ma la storia ad un tempo particolare e universale affrescata da Montoya, ironica testimone delle “magnifiche sorti e progressive”, è soprattutto una collezione di occhi avidi, fanatici e razzisti, di terribili conquiste, sottomissioni e scontri – rarissimi gli incontri – segnati dalla più efferata violenza.

 

Così, nel cuore di Tríptico de la infamia batte incessante un interrogativo sulla possibilità, sulla necessità, sul senso di ogni forma estetica: una tela, un foglio di carta o una lamina incisa possono rendere vivo il dolore della realtà, esorcizzandolo? Ecco la scomoda domanda, intrinseca allo statuto dell’opera di finzione e per certi versi già fagocitata, nonché digerita, dal primo ‘900, cui Montoya risponde in chiave squisitamente postmoderna.

Trittico dell' infamia è un metaromanzo storico incentrato su tre artisti francofoni del ‘500 realmente vissuti – formuletta tanto superficiale quanto necessaria – e sulle loro maggiori produzioni. Si tratta di acquerelli, incisioni e dipinti che ritraggono tre spaventose, altrettanto autentiche stragi dell’epoca: la truculenta guerra tra indigeni e francesi in Florida; il massacro degli ugonotti a Parigi nel 1572 (24 agosto, la notte di San Bartolomeo); il genocidio perpetrato dagli spagnoli in America centrale e meridionale. Quello offerto da Montoya con elegante mise en abîme è quindi uno sguardo di terzo grado, un complesso percorso su oggetti estetici dal linguaggio differente ma complementare alla letteratura, ispirati a carneficine che sono figlie di un impianto culturale-ideologico estremamente intollerante, di una Weltanschauung volta a cancellare l’Altro. E tutto – anche i racconti biografici relativi ai tre autori, accomunati dalla fede protestante, dall’esilio più o meno volontario e dai dubbi metapoetici – concorre a un doppio, disperato atto di (auto)denuncia: da una parte, contro l’universalità cronotopica della malvagità e dell’infamia umane; dall’altra, verso l’impotenza dell’arte.

 

 

Prima scena del trittico: Jacques Le Moyne. Il giovane cartografo e illustratore di Dieppe si imbarca per la Floride française nella spedizione guidata da René de Laudonnière. Le intenzioni degli ugonotti, e in particolare del capitano, sono apparentemente pacifiche: Laudonnière vuole stabilire un contatto amichevole con le varie tribù degli indigeni e ottenere il loro supporto per costruire Fort Caroline, oggi Jacksonville. Ma ben presto i francesi ricorrono alla violenza, prima nominale e antropologica, poi economica e infine fisica: l’Altro viene europeizzato negli usi e nei costumi, ingannato con bigiotteria di scarso valore, sottomesso a scambi iniqui e lavori forzati, ucciso se riottoso. Jacques Le Moyne, curioso indagatore dei segni come il Giano bifronte Marco Polo/Kublai Khan calviniano, è l’unico a stabilire un vero incontro con gli indigeni: affascinato dalla nebulosa ermetica dei loro tatuaggi, prova – senza grande successo – a decifrarne il significato. Sulla pelle di queste tavole viventi Jacques trova un corrispettivo enigmatico dei feticci semantici lasciati oltremare: le amate carte geografiche, i portolani, un profetico sassolino sul quale pare incisa la mappa eurocentrica del mondo, che emblematicamente sbiadisce lungo l’avventura in Florida per poi scomparire nella concitata conclusione.

 

Al contrario di Le Moyne, François Dubois racconta la sua storia in prima persona. Cattolico convertitosi al calvinismo, si trasferisce a Parigi quando le tensioni religiose hanno ormai raggiunto il punto di saturazione: Dubois assiste sconcertato ai prodromi del massacro di San Bartolomeo, anticipando con malcelate prolessi la testimonianza dell’incubo, sempre incombente e tuttavia sempre rimandata fino alle ultime pagine del capitolo-sezione, dove si condensa in un resoconto allucinato, ricco di iperboli. Nella capitale Dubois incontra per caso Le Moyne, ritornato rocambolescamente in Europa, ma non condivide le sue idee sugli indigeni. Il pittore, che ha la fortuna di non assistere in presa diretta alle violenze francesi, si dimostra per certi versi fazioso, superficiale: crede che soltanto la colonizzazione spagnola sia un’impietosa strage e afferma, suscitando vivaci proteste da parte di Le Moyne, che gli indigeni si trovano su un gradino inferiore della ‘scala evolutiva’ rispetto agli europei. Eppure, con Dubois la riflessione metapoetica si fa più pregnante e tragica, alimentando un climax che raggiungerà l’apice nell’ultima scena del trittico, dedicata a Théodore de Bry. Dubois, rifugiatosi a Ginevra dopo la notte di San Bartolomeo, non fa che chiedersi quale senso abbia il dipinto che sta realizzando mentre racconta, Le Massacre de la Saint-Barthélemy (1576 circa), di fronte alla tragedia reale: il lutto e la sua rappresentazione artistica sono fenomeni ontologicamente differenti, in apparenza inconciliabili.

 

Si tratta, come già anticipato, della domanda che fa da Leitmotiv epitomatore all’intero romanzo: le considerazioni di Le Moyne, Dubois, de Bry e dello stesso ‘autofinzionalizzato’ Montoya convergono infatti verso una fosca presa d’atto delegittimante; l’arte non può arrivare all’essenza delle cose, “inafferrabile” – aggettivo molto ricorrente nell’attenta traduzione di Ximena Rodríguez – per natura. 

Da una prospettiva narrativo-strutturale, quella sul belga Théodore de Bry risulta forse la sezione più interessante del trittico. De Bry è un incisore bricoleur – nell’accezione mitopoietica di Claude Lévi-Strauss – che, sconcertato da alcune testimonianze visuali e scritte sugli eccidi europei nel Nuovo Mondo, decide di raccogliere le più significative per riprodurle o illustrarle. Nato a Liegi ma costretto all’autoesilio dalle persecuzioni cattoliche, peregrina per diverse città europee: Strasburgo, Anversa, Londra, Francoforte. Nel corso dei suoi viaggi conosce direttamente Dubois e Le Moyne, ammirando del primo Le Massacre de la Saint-Barthélemy e realizzando grazie al secondo una serie di incisioni sulla drammatica epopea francese in Florida. La fama di de Bry, però, si deve soprattutto alle diciassette illustrazioni per Brevísima relación de la destrucción de las Indias (1552, tr. it. Brevissima relazione della distruzione delle Indie) di Bartolomé de las Casas, crudo opuscolo sul genocidio spagnolo in America centrale e meridionale. Uno degli ultimi capitoli viene raccontato proprio da de Bry, che lì traccia la summa della sua opera e, in un certo senso, dell’intero romanzo: la nostra realtà – afferma rassegnato – “sarà sempre più atroce e più sublime dei diversi modi che abbiamo di mostrarla”.

 

Con immagine benjaminiana de Bry descrive il futuro come un equilibrista costantemente rivolto al passato, infinita sequela di violenza insensata – o, se vogliamo, di macerie accumulate le une sulle altre – che nessuno può redimere del tutto. E il trauma è destinato a ripetersi, ad essere rivissuto ma non razionalizzato né efficacemente estetizzato. 

Ora, dietro al de profundis metapoetico intonato da de Bry si riconoscerà con particolare evidenza Montoya, che in questa sezione alterna la sua voce a quella dell’incisore belga, le considerazioni più o meno esplicite sul presente storico alla narrazione romanzata – eppure, per quanto possibile, rigorosamente documentata – del ‘500, il resoconto delle proprie ricerche a Liegi e Francoforte sulle tracce del protagonista all’analisi meticolosa delle illustrazioni per Brevísima relación de la destrucción de las Indias. In poche parole, la genesi del romanzo viene interpolata alla vita di de Bry: abbiamo quindi a che fare con un intricato “teatro catottrico” – felice espressione utilizzata da Umberto Eco per definire The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket – che rischia di irretirci tra biografie fittizie e biografismi verosimili, giochi di specchi, narratori omodiegetici, eterodiegetici, autoriali, alter ego, ecc.

 

 

Credo vivamente, tuttavia, che l’io-autore delle ultime pagine, così critico verso la società capitalista, così rassegnato all’ineluttabile, “eterno ciclo della violenza” e all’impossibilità di stabilire un contatto autentico con il passato, coincida in modo fedele al vero Montoya che si trova ‘fuori’ dal testo. Come una sorta di detective, questo feticcio autoriale – sebbene aderente all’io-extratestuale, si tratta comunque di un doppio narrativo – descrive con sguardo ironico e curioso le città visitate, la faticosa ricerca sul campo, le varie tappe dell’indagine, i sogni ad occhi aperti e le apparizioni epifaniche di uno spettrale de Bry, inseguito con ansia ma inevitabilmente irraggiungibile "perché Théodore de Bry e io non possiamo parlare né lo faremo mai. Non mi resta che guardarlo svanire per sempre lungo la fiancata della chiesa. In un momento o nell’altro so di trovarmi già a metà del ponte, solo e tremante di freddo. Più in là, in mezzo alla nebbia autunnale, gli alti grattacieli delle banche di Francoforte si drizzano come emblemi arroganti dell’usura".

 

Ancora una volta, in Trittico dell' infamia il confine tra finzione e realtà si dimostra sottile.

Lo stile fluido di Montoya, che – come José Saramago, ad esempio, o un certo Mario Vargas Llosa – non impiega alcun segno grafico per ‘isolare’ il discorso diretto, si sposa armoniosamente con le tante ecfrasi disseminate nel romanzo. Certo, prevale la descrizione delle opere di Le Moyne, Dubois e de Bry, ma non mancano analisi dettagliate di Albrecht Dürer, Jan van Eyck, Paolo Uccello. Si noti che anche il raffinato approccio intermediale ha una densa, umbratile connotazione metapoetica: l’attenzione per i dettagli sfuggenti, soprattutto in van Eyck e Uccello, ricalca il Leitmotiv della ricerca ermeneutica frustrata. Così, davanti a Caccia notturna (1470 circa) lo spettatore – ci spiega con parole sue de Bry, e dietro di lui Montoya – non può che rivolgere gli occhi al bosco “impenetrabile e misterioso”, sfondo senza fine dove convergono i punti di fuga e si dirige “quel cervo salterino che i trafelati uomini di Uccello non riusciranno mai a catturare”: nuova, inquietante mise en abîme legata all’atto visivo.

      

Centrale, per l’appunto, è pure la rappresentazione della violenza, sia essa ‘in presa diretta’ o riprodotta sulla tela: Montoya non risparmia al racconto né al commento delle opere – e spesso, come già riferito, l’uno confluisce nell’altro – una considerevole quantità di particolari macabri, perfino truculenti. Ora, se già qualche anno prima Winfried Sebald ha proposto un’analoga, disperata intermedialità nel saggio Luftkrieg und Literatur (tr. it. Storia naturale della distruzione, 1999), Montoya delinea con rara e sintetica chiarezza la necessità di un approccio descrittivo dall’impatto visuale forte, che non si pieghi a pericolosi compromessi. Curiosamente è proprio las Casas a fornirgli uno spunto di riflessione sull’atroce immaginario iconografico messo in mostra da Le Moyne, Dubois, de Bry e parimenti da se stesso: Montoya valuta Brevísima relación de la destrucción de las Indias “eccessivo”, “scritto male”, frettoloso e ripetitivo; ciononostante, il suo autore riesce comunque nell’intento di fornire una valida testimonianza, uno sguardo attendibile sull’agghiacciante colonizzazione spagnola. E poco importa che l’opuscolo non sia esteticamente apprezzabile, che manchino orpelli e ghirigori: “de las Casas sa che per narrare delle atrocità non occorre essere colti, né raffinati, né grammatici, che bastano alcune idee semplici ma definitive, che la ponderatezza letteraria non serve a nulla di fronte alla realtà del male”.

      

Torniamo quindi alla domanda fondamentale posta da Trittico dell' infamia: parafrasando Montoya, che senso ha l’arte, immagine imperfetta del mondo, se non può alleviare le nostre pene? Il romanzo sembra offrire due diverse risposte a riguardo, tra loro complementari. Da una parte, la ricerca del senso porta sistematicamente al fallimento i quattro protagonisti, viaggiatori – volenti o nolenti – e cacciatori di segni: Le Moyne comprende il significato di un solo simbolo indigeno, la lucertola-amicizia che porta impressa sul corpo; Dubois pensa in un primo momento di lasciare su Le Massacre de la Saint-Barthélemy alcuni spazi bianchi, vuoti emblemi del trauma inesprimibile; de Bry osserva con rassegnata tautologia che i suoi disegni sono mere immagini, mentre la colonizzazione spagnola costituisce una concreta ferita aperta, insanabile; Montoya, o meglio l’io-autore, si arrende all’inaccessibilità del passato e all’inesorabile trascendenza della miseria umana. Quello appena tratteggiato è un climax ermeneutico in negativo, che dal particolare oggetto mancato della prima sezione, il tatuaggio indigeno, arriva all’universale scetticismo epistemologico dell’ultima. E alla ricerca semantica frustrata corrisponde un radicale pessimismo socio-antropologico che l’io-autore sente di condividere nel profondo con de Bry, confermando – se mai ce ne fosse bisogno – che tutti e quattro i personaggi sono reciprocamente speculari. Dall’altra parte, però, il corposo capitolo dedicato a Dubois diventa strenuo emblema di una necessaria – per quanto fallibile – testimonianza, cui l’arte può contribuire con i propri mezzi: incalzato dall’amico Simon Goulart, il disilluso pittore ugonotto decide comunque di riempire gli spazi bianchi, completare Le Massacre de la Saint-Barthélemy e soprattutto raccontarci la sua triste vicenda. Così, anche se non possono carpire l’essenza “inafferrabile” della realtà, penna e pennello hanno il dovere di salvare gli sconfitti dall’oblio, trasmettendone il ricordo lungo una narrazione storica genuinamente alternativa. Walter Benjamin scriveva che la ‘versione ufficiale’ viene sempre scritta dai vincitori: a suo modo, Dubois accetta di “spazzolare la storia contropelo”.

        

Ricostruendo con immaginazione mai eccessiva le vite dei tre ugonotti a partire dalle forme e dai colori delle loro opere visuali, Montoya realizza in qualche modo il corrispettivo romanzesco di La conquête de l'Amérique. La question de l'autre (Tzvetan Todorov, 1982): uno sguardo semiotico sulla violenza attraverso eventi sciagurati che hanno segnato il folle percorso dell’uomo. Ma qui non sembra ammesso riscatto: l’io-autore – come certi homines ficti di William Faulkner e Álvaro Cepeda Samudio – resta in bilico tra la pulsione insaziabile verso il passato e la precisa consapevolezza di un eterno ripetersi della storia, senza mai arrivare ad alcuna conciliante sintesi. Proprio in questa filosofia tragica, a mio parere, sta la grandezza di Trittico dell' infamia

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