La foto del bambino

30 Settembre 2015

1.

A Stalin viene attribuito questo apoftegma: “La morte di un essere umano può commuovere come caso pietoso. Un milione di morti sono solo statistica.”

 

Viene in mente questa frase staliniana a proposito dell’effetto travolgente della foto pubblicata il 3 settembre scorso, foto che ormai conoscono miliardi di persone. Perciò non la riproduco qui. È la foto di Alan Shenu, annegato a tre anni davanti alle coste della Turchia, raccolto da un agente turco; un bambino “siriano”, scrivono tutti i media, e non “curdo”, malgrado il fatto che la burocrazia turca abbia modificato, pare, il suo cognome in Kurdi, quasi uno stigma. La propagazione planetaria di questa foto (di Nilüfer Demir) – l’uomo alto e magro con il berretto verde che porta in braccio il corpo di un bimbo con la maglietta rossa e i calzoncini blu – sembra che stia cambiando la storia d’Europa.

 

Come si sa, la circolazione di questa foto ha fatto cambiare idea nel giro di poche ore a milioni di europei, e ad alcuni dei loro leader politici. In un batter d’occhio si è ribaltata l’immagine planetaria di Angela Merkel. Prima di quella foto la si associava al suo discorso gelido e coerente alla fragile ragazza palestinese che piangeva perché non poteva restare in Germania: dura lex sed lex. Ora, da quando Merkel ha detto di aprire le porte ai rifugiati, è tutto cambiato. Del resto, il fatto che le abbia aperte proprio ai siriani può non essere estraneo al fatto che quel bambino sia, anagraficamente, siriano.

 

Prima della foto, partiti e movimenti xenofobi in Europa – il Fronte di Marine Le Pen in Francia, la Lega di Matteo Salvini in Italia, ecc. – sembravano in ascesa inarrestabile. Dopo l’epica marcia dei profughi tra Serbia e Ungheria, o a Calais, ma soprattutto dopo la foto di Alan, i partiti xenofobi d’un tratto appaiono in difficoltà. Basti pensare che nel giugno 2015 il 51% degli italiani era per il respingimento dei profughi sbarcati in Italia, e solo il 41% era per l’accoglienza. Al 10 settembre 2015 le opinioni si sono più che ribaltate: il 32% sono per i respingimenti, il 61% per l’accoglienza.

Una foto può cambiare la storia? Certo, come la lunghezza del naso di Cleopatra secondo Pascal. Non credo nel determinismo storico, il caso e l’arte possono essere decisive. Certamente cambiò il corso della storia il fatto che sei pazzoidi nel 1914 decisero di sparare su una carrozza in una irrilevante città bosniaca.

 

Una fotografia può avere più impatto politico di un film o di un romanzo o di un video perché, come ricordava Roland Barthes in La chambre claire (tr. it. La camera chiara, Einaudi 1980) – il suo saggio sulla fotografia – la foto ha un potenziale drammatico unico: è la traccia chimica, inoppugnabile, irrimediabile, di un evento reale. A meno di non cedere al fotomontaggio, una foto ci incastra ineluttabilmente nel Reale.

 

 

2.

Accade che alcuni capiscano subito il potere ultra-persuasivo di una foto. Lo capì Umberto Eco commentando a caldo uno scatto fotografico del 14 maggio 1977, che da allora è diventato l’icona degli “anni di piombo”[1]. Essa fu scattata in via De Amicis a Milano nel corso di una manifestazione di sinistra. Qui, per una delle prime volte i manifestanti fecero uso di armi da fuoco, e un agente rimase ucciso.

 

 

Eco notò che dopo la pubblicazione di questa foto era crollato di fatto l’appoggio, più o meno esplicito e benevolo, dell’opinione italiana di sinistra alla contestazione radicale, anche quando questa declinava verso atti violenti. Eco capì che quella foto segnava, anche per l’Italia, la fine della stagione della “contestazione”. La “narrazione” – come ci si è abituati a dire dopo – di sinistra ammette difatti la lotta armata purché essa appaia espressione di un moto di massa, così come la grande onda che si frange fragorosa sullo scoglio non è che l’atto finale di un mare agitato. “Il popolo in armi” è sempre un essere collettivo. Il comandante Che Guevara era ed è idealizzato proprio perché non appare un guerrillero solitario, ma uno serenamente alla testa di un popolo che insorge. Non c’è nessuna foto di Che Guevara con un’arma in braccio. Tranne una, in cui Guevara spara evidentemente in un tiro a segno.

 

 

Ho notato che questa foto viene pubblicata, in un contesto denigratorio, unicamente su riviste o video di destra. “Un vero condottiero non è mai marziale”, diceva Lao Tse. Anche il Che deve apparire come un guerriero disarmato.

 

Nella foto del 1977 invece lo sparatore appare solo, come immaginiamo che solo sia un sicario della mafia, nessuna massa avanzante – come nel quadro di Pellizza da Volpedo “Il quarto stato” – lo segue e lo “porge”. La posizione sgraziata, volgarmente omicida, delle gambe divaricate e del busto proteso, lo sforzo da principiante arrivista con cui il ragazzo prende la mira, stridono con l’immagine “rivoluzionaria” di una folla che “avanza come un sol uomo”.

 

In realtà l’immagine che abbiamo mostrato è un particolare di una foto più ampia da cui si vede che il tiratore non era isolato, che sparsi altri compagni, alcuni di loro armati, erano con lui. Ma di una foto non conta il contesto fuori di essa, conta ciò che essa mostra: quel che allora impressionò l’Italia fu quel ritaglio che, isolando il militante, fece di quest’ultimo semplicemente “l’assassino”.

 

Quell’episodio a Milano fu l’inizio di una lunga e sanguinaria stagione di lotta armata, come è noto. Ma, come aveva visto l’occhio felino di Eco, la forma terroristica della lotta politica era già stata sconfitta dalla foto che abbiamo mostrato. E questo non perché, come si dice sempre, la maggior parte dell’opinione di sinistra rigettava la lotta armata. Abbiamo detto che non sempre il popolo di sinistra è pacifista, tutt’altro. Oggi, per esempio, ammira la resistenza armata dei curdi, i soli che sembrino battersi sul serio contro l’ISIS. I curdi – e il bimbo Alan era uno di loro – sono oggi percepiti in Occidente come il popolo eroico in armi, come venne considerato il popolo sovietico all’epoca dell’invasione hitleriana. Quella che negli anni ‘70 venne rigettata dalla gente fu la presupposizione “impolitica” secondo cui azioni individuali – ammazzare qualche VIP politico – potessero avere il senso di una rivolta popolare contro un sistema economico-politico. Quella foto del maggio 1977 ci narra quel che col senno di poi abbiamo capito, ormai, di quegli anni di delirio: che cominciare a sparare fu l’inizio della fine del movimento radicale. Era un modo di tenere disperatamente in vita con puri gesti mortiferi un filo di pensiero che era solo ormai il loro filo. Questo declino del radicalismo di sinistra si era già consumato in tutti i paesi dove esso era fiorito, in Italia invece – paese più conservatore, più vischioso al mutamento – questo tramonto si è allungato in una lunga coda di sangue. La sinistra italiana è una delle più lente a capire che le cose sono cambiate.

 

 

3.

La solitudine del soggetto si ripropone nella foto di Alan morto, ma qui con effetti diametralmente opposti. Nella foto di via De Amicis la solitudine del drammatico aggressore ne condanna le idee, qui la solitudine della vittima ne idealizza il dramma.

 

Da anni abbondano foto atroci della guerra in Iraq, in Siria, in Libia, in Nigeria, delle migrazioni di massa per terra e per mare. Alcune foto sono bellissime, perché esprimono nel modo più conciso e terso una tragedia immane. Del resto, l’immagine ci folgora quando essa riesce a farci toccare l’orrore, senza rovesciarcelo addosso come una catinella d’acqua gelida. Si prenda ad esempio questa foto.

 

 

Anche qui si tratta di curdi, che fuggono in Siria dagli attacchi dell’ISIS. Un uomo e una donna trascinano una ragazza malata, forse la loro figlia. Bella la torsione dei due che trascinano la poveretta, i loro corpi esprimono allo stesso tempo la fatica impari e la volontà calma di andare avanti. La folla a cui appartengono sembra però allontanarsi, tutti volgono loro le spalle, questo trio pare essere lasciato indietro nel deserto; e le ombre sul terreno arido sembrano come avvoltoi pronti a trasformare quei corpi in ombre.

 

Eppure una foto del genere non poteva avere l’impatto che ha avuto la foto di Alan morto perché questi disperati fanno comunque parte di una massa. Forse la ragazza trascinata morirà, ma non morirà sola. Ciò che ci fa inorridire è la morte solitaria, o che appare tale, come è il caso di Alan. Un cadavere unico restituito dal mare. Prima, le migliaia di migranti morti in mare erano solo statistica. Di Alan abbiamo molte altre foto, non meno agghiaccianti di quella che è poi diventata logo della tragedia. Nella foto qui sotto, il poliziotto non ha ancora preso pietosamente tra le braccia il bambino. Sembra che non lo guardi nemmeno, che stia consultando o scrivendo degli appunti, da burocrate quale egli anche è. Al capo senza volto del gendarme fa da contrasto il volto infantile pieno, quieto, della vittima. La differenza di questa foto rispetto ai tantissimi video di bambini morenti o morti che ci vengono proposti ogni giorno, ne spiega la straordinaria forza. Le immagini viste in televisione di bambini africani tutti pelle e ossa per la malattia o la fame, che sbavano e tremano annunciando la loro morte, diciamoci tutta la verità, non hanno sconvolto granché. Esse sono ormai parte di una routine dell’orrore cosmico, a cui ci siamo abituati come ai terremoti o ai morti per il traffico stradale.

 

 

Il punto è che questi bambini pelle e ossa di solito non appaiono soli, si vede che qualcuno si prende cura di loro, anche se inutilmente. Inoltre essi sono di solito neri, e una sorta di assioma fa identificare il nero alla vittima, come se soffrire e morire fosse nel DNA delle popolazioni africane. La nudità, gli stracci, le fogge esotiche segnano una distanza dalla nostra esistenza che può portare alla commozione alcuni, certo, ma inzuppata nel dolciastro estraniamento dell’esotismo. Alan invece, anche se vestito in modo dimesso, potrebbe essere un qualsiasi bambino italiano o tedesco. Altre foto, prima del suo viaggio mortale, ci mostrano un fanciullo che gioca con l’orsacchiotto e ride come tanti altri piccoli qui da noi. Anche la decisione del padre Abdullah di chiamarlo Alan – nome tipicamente anglo-americano – favorisce questa domesticazione della piccola vittima[2]. Alan nella morte ha conservato anche le scarpette con buone suole, sembra quasi un bambino vivo che dorme, magari accanto a una fontana di Vancouver, città a cui si destinava. Il contrasto impensabile tra la familiarità che egli ispira e l’immane tragedia di cui è dettaglio è proprio ciò che ci “punge”. Barthes parlava di punctum, la grande foto ci punge, ci sconvolge, proprio imponendo un contrasto che spezza la nostra coerenza iconologica. Alan non ha marchiato sul corpo o sugli abiti il destino stereotipico della vittima o del disgraziato, non porta le tracce della sofferenza e del tormento – questo lo avrebbe consegnato a un kitsch involontario della sofferenza declamata – la faccia della sua tragedia è sobria, non enfatizza, non urla. E poi, è questa la puntura fondamentale, è solo (erano in sedici sul gommone, pare, ma la maggioranza è morta). Il corpicino è stato portato dalle onde del mare, con ironica dolcezza, sulla spiaggia. Ci si ricorda della cinica lucidità di Stalin: “Commuove la morte di un solo uomo”. In questo caso di un solo bambino solo. Solitudine relativa, però, perché c’è il gendarme turco. Chi segue la politica medio-orientale può leggere certo in questa scena di Pietà laica l’antifrasi filantropa di una crudeltà politica: Alan era curdo, e i curdi sono oggi presi tra due fuochi, i fondamentalisti islamisti da una parte, l’esercito turco di Erdoğan dall’altra. Doppiamente massacrati. Ed è proprio un turco dalla faccia mite – un brav’uomo, lo si capisce subito – a raccogliere il corpo di un rifugiato curdo. La foto assume quindi il valore simbolico, ovvero magico, di una riconciliazione tra due popoli che si fanno la guerra da secoli.

 

Più in generale, il passaggio dalla foto che abbiamo mostrato più sopra, a quella ancora più celebre in cui il militare porta in braccio il bimbo, sembra prescrivere una svolta storica: dall’indifferenza burocratica dell’Europa rispetto alla tragedia migratoria, all’accoglienza pietosa. La successione delle due foto disegna un percorso di evoluzione politica. Così, tutta la scena assume un significato che in termini medievali chiamerei anagogico, che va oltre i significati letterali, morali e tropologici. Il piccolo Alan finisce col rappresentare “il mondo povero o in guerra” perché ormai percepiamo questo mondo che fugge come “infantile”, e non più come barbari invasori secondo la propaganda xenofoba. I bambini non invadono, come le cavallette, cercano solo protezione e amore. I rifugiati sono centinaia di migliaia, presto saranno milioni, una rivoluzione demografica senza precedenti sta sconvolgendo il mondo. Ma quella foto ci promette che sarà un leggero fardello.

 

Forse pecco di ingenuità ottimista, ma ho l’impressione che queste foto di Alan segnino un processo irreversibile. Certamente il rigetto degli immigrati e in genere degli stranieri continuerà in Europa, ci saranno nuove grandi ondate xenofobe, e questo per decenni. Ma, malgrado i lunghi ghirigori della Storia, credo che proprio in queste ore si stia consumando finalmente la fine del modello nazional-romantico di Europa che ha retto fino a oggi: l’idea che una nazione corrisponda a una prevalenza etnica, a una “identità”. Faranno da modello sempre più paesi-ostello come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia e anche il Brasile, mete non solo di immigrazione da secoli, ma stati che si auto-interpretano come aree di condivisione di regole. Si è americani o australiani o canadesi perché si seguono certi protocolli, così all’Europa delle patrie (di cui parlava De Gaulle) passeremo all’Europa Fabbrica Comune (del resto le fabbriche europee sono già multi-etniche). L’accettazione del meticciato culturale comporta ipso facto la fine di quella che chiamerei la mistica etnica delle nazioni. E questo proprio mentre regioni come la Catalogna e la Scozia si avviano all’indipendenza dai rispettivi regni. I processi storici sono sempre intrinsecamente contraddittori.

 

 

                             

POSTILLA

Ovviamente straripano i commenti che chiamerei puritani, i quali in sostanza dicono: “Possibile che ci dobbiamo convincere di qualcosa, e impietosirci per milioni di persone, solo quando ci arriva una fotografia strappalacrime? Non basterebbero la ragione e i principi etici per persuaderci ad accogliere questa gente?” È la reazione automatica condizionata da una certa disumana miopia dell’Illuminismo. Credere che ci sia da una parte la ragione e dall’altra l’emozione (che le immagini provocherebbero) è una svista. La cosiddetta ragione è il modo di cercare di universalizzare la nostra emozione.

 

I Greci antichi chiamavano la persuasione peítho, ma gli davano un senso più ampio, direi anche sensuale. Ad esempio, una bella donna persuade un uomo nel senso che costui si decide a fare l’amore con lei. Gli Antichi sapevano che per persuadere i concittadini nell’agorà bisognava usare bene ρητορική, la retorica, che la logica non basta (anzi, spesso guasta). Oggi pensiamo lo stesso, anche se chiamiamo lo studio della retorica scienze della comunicazione, perché alla nostra epoca tutto deve essere scientifico. Barthes fu uno dei primi a parlare di “retorica dell’immagine”, di quella fotografica in particolare. Il punto è questo: che si persuada con discorsi, o novelle, o video, o fotografie, o grafici economici, o canzoni, comunque l’animale politico – l’essere umano – ha bisogno di persuasione (peítho) retorica. Per appassionarsi e impietosirsi, ci vuole una peítho pietosa. Solo pochi sono capaci di seguire inferenze puramente matematiche, e nessuno lo può quando si confronta con la politica, le scelte etiche, la pace e la guerra, la felicità E il senso della vita, la fame, la fede… La retorica non è solo il sale del pensare, è la forma stessa del pensare.

 

È evidente che la foto della P. 38 di via De Amicis enuclea un cambiamento generale nel modo di pensare l’azione politica; la pietà sul corpo di Alan congela in immagine un processo di ridefinizione del concetto stesso di nazione di cui ciascuno, in qualche angolo anche oscuro della propria mente, è consapevole. Eppure la foto o la frase che fanno epoca, che “bucano”, sono qualcosa come il momento di concludere in psicoanalisi (secondo Lacan[3]): sono come un taglio, un atto decisivo, un’inversione di rotta, un ricoagularsi delle idee che prima scorrevano zigzaganti in varie direzioni. La politica è fatta tutta di segni retorici, e la retorica – quando riesce a commuoverci – è il dispiegarsi politico dell’essere che vive di segni.

 

 

 


[1] Una foto, “L’Espresso”, 29 maggio 1977; poi in U. Eco, Sette anni di desiderio, Bompiani, Milano 1995. “Questa –scrisse allora – è una di quelle che foto che passeranno alla storia e appariranno su mille libri”. I fatti gli hanno dato ragione.  Cfr. S. Bianchi, a cura, Storia di una foto, Derive Approdi, Roma 2011.

[2] Va detto che, secondo alcune testimonianze, il padre di Alan era proprio lo scafista del gommone che si è rovesciato. Cfr. Express.

[3] Mi riferisco a “Il tempo logico e l’asserto di certezza anticipata”, Scritti, Einaudi, Torino 1973.

 

 

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