Una telefonata con Primo Levi

17 Novembre 2011

Nel 1966 Primo Levi è ritornato sulle circostanze in cui è nato Se questo è un uomo: “Il libro tratta del campo di Auschwitz, ed è nato ad Auschwitz. [...] “speravamo non di vivere e raccontare, ma di vivere per raccontare”. Racconto orale, detto, fatto risuonare con la bocca, che Levi definiva l’“officina della parola”. Ma il racconto si cristallizza “in una forma definita, costante: per scriverlo non mancavano che la carta, la penna e il tempo”. Trova la carta, la penna e il tempo (a proposito del quale la narrazione verrà compiuta à rebours dal capitolo finale al viaggio iniziale) e così il racconto orale stava diventando racconto scritto. Ma Levi ce lo dice nel momento in cui il racconto scritto tornava a diventare orale. Stiamo infatti leggendo la Nota che Levi ha scritto per l’edizione della riduzione teatrale di Se questo è un uomo.

 

Nei primi anni Sessanta Levi aveva ascoltato un radiodramma che la Radio Canadese aveva prodotto da Se questo è un uomo. Non proprio a caso, trattandosi della radio di un Paese bilingue, gli autori della riduzione avevano strutturato il loro lavoro sulla confusione delle lingue e delle voci, sul tema babelico che innerva tutto il libro, ma anche tutto il resto dell’opera di Levi. A sua volta Levi propose una riduzione radiofonica alla Rai di Torino, usando la medesima tecnica di “dialogo multilinguistico” ed è da questa versione, andata in onda nel 1964, che verrà poi l’idea di una riduzione teatrale. Levi ci racconta che questa idea lo spaventava:

 

“Avevo anche paura del teatro stesso: [...] . Il pubblico che legge, anche quello che ascolta la radio, è lontano, nascosto, anonimo: il pubblico teatrale è lì, ti guarda, ti aspetta al varco, ti giudica”.

 

Levi introduce così una distinzione non più fra orale e scritto, ma fra vicino e lontano, cioè fra rapporto solo verbale e rapporto di sguardi. Il pubblico teatrale non si limita a leggere, come quello letterario, o ad ascoltare, come quello radiofonico: vede. La radio è “sottile”e “suggerisce”, tramite “canali impercettibili”: impercettibili non in assoluto, ma rispetto alla sfacciata dimensione visiva. La guerra è una “babele radiofonica”che nei primi anni Quaranta Levi ascoltava casualmente, per le frequenze intercettate dall’oscillatore che stava usando in laboratorio: “rivelava tutto un intricato universo di misteriosi messaggi, ticchettii in Morse, sibili modulati, e voci umane deformate e smozzicate, che pronunciavano frasi in lingue incomprensibili, o altre in italiano, ma erano frasi insensate, in codice... messaggi di morte trasmessi da navi od aerei, da chissà chi a chissà chi, al di là dei monti e del mare”.

 

La radio è sul versante pubblico quello che sul versante privato è il telefono.

 

“Deve essere un telefono che funziona, il libro scritto”.

 

 

L’opera di Primo Levi esordisce proprio come una telefonata: con un appello al lettore. Tutta la poesia Shemà è un’apostrofe, a partire dal titolo, Ascolta: “Voi che vivete sicuri [...]: considerate[...]: Meditate [...] Vi comando queste parole [...] Scolpitele [...]; Ripetetele [...]”. Un’opera che ci interpella, che ci chiama, uno per uno, che ci comanda parole.

 

Quando scrive, Levi sente il lettore vicino a sé, e vuole che capisca “quello che ho scritto, anzi, gli ho scritto”: “la scrittura serve a comunicare, a trasmettere informazioni o sentimenti da mente a mente, da luogo a luogo e da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto”. Sono i casi in cui la scrittura è un telefono che non funziona.

Il problema di Levi era dunque la comunicazione. Comunicazione non in senso generico ma tecnico: il processo pragmatico che mette in contatto due interlocutori. Come dice il saggio Faussone: “l’ho contattato, che poi vuol dire che gli ho telefonato ma è più elegante”. Il telefono compare in un paragrafo di commento della Chiave a stella, dove Levi denuncia la disattenzione che portiamo all’arte dell’ascoltare, che è invece fondamentale:

 

 “Eppure, ogni narratore sa per esperienza che ad ogni narrazione l’ascoltatore apporta un contributo decisivo: un pubblico distratto od ostile snerva qualsiasi conferenza o lezione, un pubblico amico la conforta; ma anche l’ascoltatore singolo porta una quota di responsabilità per quell’opera d’arte che è ogni narrazione: se ne accorge bene chi racconta al telefono, e si raggela, perché gli mancano le reazioni visibili dell’ascoltatore, che in questo caso è ridotto a manifestare il suo eventuale interesse con qualche monosillabo o grugnito saltuario. È anche questa la ragione principale per cui gli scrittori, ossia coloro che raccontano ad un pubblico incorporeo, sono pochi”.

 

Tutti raccontano; farlo al telefono è difficile; farlo per iscritto lo è ancora di più, e questo a causa dell’“incorporeità” dell’uditorio. Difficile, ma rassicurante, se si tiene conto della paura leviana per il teatro, proprio a causa della “corporeità” dell’uditorio. I corpi, le trippe rabelaisiane, i cascami materiali di ogni distillazione continuano a interessare Levi, anche quando lo sgomentano: finito un libro ne parla con il pubblico, va nelle scuole (noi, oggi, siamo qui anche, soprattutto per questo), perché al primo mestiere di chimico, al secondo mestiere di scrittore, ai diversi mestieri altrui frequentati per diletto, Levi ha presto aggiunto il terzo mestiere, di oratore in incontri con pubblici specialmente scolastici.

 

In questa oscillazione fra la scrittura solitaria e la conversazione in praesentia, il telefono occupa uno spazio intermedio, discreto. Uno spazio intermedio che, a differenza della scrittura in lontananza e la parola in prossimità, rende necessaria un’accurata tecnologia. 

 

 

 

 

Il brano sopra riportato è tratto dal testo Una telefonata con Primo Levi, conferenza tenuta dall'autore in occasione della Lezione Primo Levi a cura del Centro Internazionale di Studi Primo Levi di Torino.

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