Michele Mari. Roderick Duddle

19 Giugno 2014

Ce lo ripete ormai da anni che l'ossessione è il nucleo dell'ispirazione dello scrittore e che la letteratura non può essere considerata un tentativo di addomesticare i demoni, essendo al contrario una resa incondizionata, il lasciarsi assediare e possedere fino a diventare lo stesso corpo inerme dei mostri che ci seguono fin dall'infanzia come i più fedeli animali da compagnia.

 

Ci eravamo abituati a pensare che in Michele Mari il veleno scorresse come linfa vitale nella scrittura e che le sue ossessioni dovessero necessariamente incarnarsi nelle affettazioni di una maniera intrisa di aurei arcaismi e rabbiosi anatemi, di altissimi lemmi inusitati e infime espressioni gergali, di gelidi spasmi e furenti sintassi – insomma di quella lingua e di quella prosa che avevano reso memorabili racconti come I giornalini o L'orrore dei giardinetti.

 

E invece Roderick Duddle (Einaudi, 2014) romanzo d'avventura e d'intrigo stilisticamente piuttosto piano, sembra voler far credere tutt'altro, almeno in prima battuta: che a quelle ossessioni – imbrigliate, ammansite e costrette a recitare un'antica parte saputa a memoria – è possibile dare un volto che, se non del tutto benevolo, è almeno (apparentemente) familiare: in questo caso quello di Dickens, Stevenson, Poe, Conrad, Melville e di altri grandi affabulatori dell'Ottocento di lingua inglese.

 

L'innesco narrativo, modestissimo, è spudoratamente dickensiano: un orfano nato e cresciuto in un bordello è a sua insaputa il legittimo erede di una grande ricchezza. Persino il MacGuffin è lo stesso dell'Oliver Twist: un medaglione che dovrebbe permettere il riconoscimento di Roderick come rampollo della famiglia Pemberton e intorno al quale gravitano innumerevoli personaggi – suore, prostitute, furfanti, assassini, marinai, ecc. – attratti irresistibilmente dalla forza della cupidigia e di altre risibili passioni umane.

 

I moventi dell'azione sono banali (talvolta persino irritanti nella loro inconsistenza e fragilità semantica, fin troppo vicine a quelle degli atti umani) tanto quanto i loro effetti spropositatamente drammatici e complicanti, e servono soltanto a tenere in movimento la macchina romanzesca, quel meraviglioso congegno che lo scrittore non vuole disinnescare, né tanto meno il lettore.

 

In questo senso non sono tanto il tema e l'immaginario, l'ambientazione storica o geografica a essere debitori della narrativa ottocentesca di lingua inglese, quanto piuttosto il modo stesso di costruzione del romanzo, il cui passo è scandito con ritmo veloce dalla minuta unità di misura del capitolo (raramente di lunghezza superiore alle 3 pagine), che ricorda molto da vicino la puntata del feuilleton. Come nel romanzo d'appendice (ai meccanismi strutturali del quale Mari allude ironicamente con frequenti sommari ad uso dello smemorato lettore) si impara ben presto – e non senza avidità – che la posta verrà sempre di nuovo rilanciata e che il prossimo capitolo ribalterà quelli precedenti, quasi l'autore fosse una specie di divertita Penelope intenta a fare e disfare la sua tela.

Come in una partita a scacchi, un personaggio compie la sua studiata mossa e la nuova configurazione delle pedine cambia il senso della scacchiera aprendo all'avversario un ventaglio di possibili risposte ed escludendone altre.

 

D'altronde persino Roderick, al suo primo drammatico bivio, sa già – e in questo è l'alter ego del narratore – che «una volta presa una direzione, quel primo passo avrebbe innescato una catena di conseguenze lunga quanto la sua vita». E nella seconda metà del racconto – quando cioè ci si aspetterebbe che la vicenda volga ormai alla sua soluzione – c'è un capitolo, Rabdomanzia, in cui le vertiginose macchinazioni della Badessa, personaggio dalla fantasia squisitamente romanzesca di cui vengono qui snocciolati i possibili piani d'azione, lasciano intravedere al lettore sgomento tutti i libri che Roderick Duddle avrebbe potuto essere e che solo per un capriccio dell'autore non è diventato:

 

"[…] la Rossa poteva indurlo a farsi sposare […]. Poteva mettere le mani sulle lettere scritte a suo tempo da lord Pemberton a Eunice Brogan […]. Poteva costringere La Fayette, in cambio delle proprie grazie, a effettuare una generosa donazione al convento […]. Poteva impestarlo con una malattia venerea […]. Poteva farlo impazzire d'amore e poi ingelosirlo fino a spingerlo ad un duello con un rivale. Poteva manovrare la servitù e orchestrare gli elementi scenografici per suscitare uno scandalo […]. Qui la Badessa […] ebbe un sussulto, perché come un rabdomante aveva sentito l'acqua. E l'acqua era, nel suo caso, l'idea buona [...]".

 

 

In una bella intervista rilasciata per Einaudi, Mari spiega di aver guardato ancora più indietro nel tempo, all'irriverente Settecento di Fielding e Sterne, nel modulare il tono del narratore. Sterniane sono le tanto melense quanto pungenti apostrofi con cui a ogni piè sospinto viene bistrattato il lettore, l'ironia e l'esagerazione, il gusto per un certo scabroso lieve e comico e persino quei riferimenti a un fittizio universo esterno al libro. Ma affine alle digressioni del Tristram Shandy è soprattutto la volontà di aggrovigliare sempre di più la matassa nell'intento unico di rinviarne il più possibile lo scioglimento, secondo un'euforia inventiva che sembra tradire l'angoscia di chi teme di giungere alla fine.

 

Qualcosa comincia a incrinarsi e ci accorgiamo che Roderick Duddle non è (soltanto) «un romanzo ottocentesco puro e semplice», quel pur affascinante monstrum letterario di cui scrive Carlo Mazza Galanti su Alias (si può rileggere la sua bella recensione su Le parole e le cose). Avremmo anzi dovuto accorgercene nel momento stesso in cui abbiamo aperto il libro, ma il ritmo serrato della narrazione ci ha fatto dimenticare quell'incipit che, opponendo nome a nome, negava fin da subito il titolo di sapore ottocentesco stampato in copertina: «In verità... io... mi chiamo Michele Mari». (E c'è bisogno di richiamare l'attenzione sulla distanza allusiva che separa questa battuta dallo speculare ed epico «Call me Ishmael» di uno degli autori del canone di Roderick Duddle?).

 

«In verità... io... mi chiamo Michele Mari» è l'ultima debole protesta che la grigia vita vissuta oppone al mondo della letteratura che sta venendo a prenderla, a espugnarla e infine conquistarla, appena prima che lo scrittore indossi la maschera che non si toglierà più fino alla fine della rappresentazione. «Mi prendi per scemo? Affedidio che ti farò assaggiare il mio staffile, pendaglio da forca!»: al losco e un po' comico Salamoia basta rispondere così e l'autore-narratore-personaggio Mari (noi con lui) è già vinto – non tanto dalla minacciosa prevaricazione del personaggio, quanto dalla sua superiore retorica letteraria.

 

È come se in queste battute scambiate sulla soglia di Roderick Duddle si stessero mettendo a punto toni e registri – come se Salamoia in qualità di rappresentante del mondo della finzione fosse venuto un attimo a strappare l'autore dal suo misero io biografico («Io, io! È meno di niente, io! Vedi lo sputo del mio compare? È un qualcosa più grande di te, capiscimi») e addestrarlo a voce narrante degna del libro che si sta scrivendo e di tutti i libri che si sono scritti. E dal momento che lo scrittore crea nominando, il brutale apprendistato comincia proprio trasfigurando i nomi propri della biografia dell'autore: non Michele Mari bensì Roderick, non Iela Mari bensì Jenny la Magra, non Enzo Mari bensì Endsow Murry. I tre evocativi toponimi contenuti nella prima riga e mezza del capitolo successivo (Glerenmouth, Cork, Castlerough) attestano che quell'apprendistato è stato compiuto con successo: e noi siamo già prigionieri di un nuovo mondo, esattamente come l'autore.

 

Ma la cornice narrativa (il motivo iniziale torna, rovesciato, appena prima dell'epilogo) rivela anche qualcosa d'altro. Da sempre Mari rivendica con certo orgoglio maligno la propria inattualità: e se è deliberatamente inattuale rispetto ai nostri anni e alle nostre storie, lo è però anche nei confronti del secolo e della tradizione letteraria a cui dedica lo stesso tormentato amore che in Otto scrittori lo spingeva a sacrificare uno a uno i venerati autori dell'infanzia, alla ricerca del nome che racchiudesse l'essenza ultima della narrativa di mare.

 

Lì però, rimasto il nome di Melville, il narratore richiamava a bordo gli scrittori ripudiati per intraprendere con nuova consapevolezza una commovente «navigazione lenta e disordinata», nella cui scia mi piace vedere il segno stesso della penna di Mari. In Roderick Duddle, che pure è il libro di gran lunga meno dolente di Michele Mari, il movimento è contrario a quello di Otto scrittori: l'illusione costruita per mezzo del solo amore dei classici, che si estendeva pressoché incrinata per quasi 500 pagine, si infrange nel momento in cui Roderick sogna con terrore di vivere in una grigia e sporca città italiana e di essere un adulto di nome Michele che lavora – orrore – in università.

 

Così, se pure leggendo Roderick Duddle si sente nostalgia della bellezza straziante e del sorvegliatissimo delirio formale di altri libri di Mari, si deve ammettere che qui viene portato a compimento l'ideale supremo di letteratura (e di lettura) che era teorizzato dall'autore, sotto le mentite spoglie del solutore di puzzles, in Certi verdini:

 

Questa era un'altra delle leggi fondamentali dell'arte, ultima in ordine di applicazione ma prima dal punto di vista logico e ontologico: non potersi considerare ultimato e inverato il puzzle se non dopo il suo scioglimento, e precisarsi: il suo immediato scioglimento; e scendere per corollario: andare ogni istante di indugio, dopo la posa dell'ultimo pezzo, a detrimento del senso e quindi del valore dell'intera esecuzione, come cosa che avrebbe potuto metterne in dubbio la assoluta gratuità. Sulla coscienza di tale gratuità, pezzo dopo pezzo, si fonda il piacere e l'orgoglio dell'adepto, che in questa assenza di scopo purifica il proprio animo alleggerendolo del carco di durezze che nascendo sortiamo. Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non per «passare del tempo» – che rimarrebbe comunque una forma di interesse e di giustificazione ab externo – ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere [Tu, sanguinosa infanzia, Einaudi, Torino 2009, p. 94].

 
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