Testamento – devozioni X. Una conversazione fra Gian Maria Tosatti e Alessandro Facente

28 Luglio 2011

Testamento – devozioni X è una installazione ambientale di Gian Maria Tosatti realizzata all’interno della Torre Idrica dell’ospedale San Camillo di Roma. Una struttura architettonica imponente costruita nel 1928 e ormai abbandonata. L’opera usa lo spazio come elemento compositivo in un progetto prodotto dalla Fondazione Volume! e curato da Alessandro Facente.

 

Alessandro Facente: Siamo partiti da un’intervista se ricordi bene. Era il 2005 quando sedevamo nella chiesa sconsacrata dell’Angelo Mai, allora occupato, e finiamo il ciclo allo stesso modo. Tanto per scaldarci vogliamo far capire cos’è Testamento - devozioni X e perché c’è quella X finale?

 

Gian Maria Tosatti: Fin dall’inizio, quando ci siamo incontrati prima ancora che tu iniziassi a curare le sue ultime tappe, il ciclo di opere che ho intitolato Devozioni è stato pensato come un percorso di ricerca intorno a due questioni fondamentali, l’identità culturale dell’uomo occidentale moderno e il problema della sua doppia natura, trascendente e terrestre. Dieci installazioni ambientali per dieci edifici nella città di Roma. Ogni tappa equivaleva ad un nodo centrale del Vangelo, visto non come sacra scrittura, ma come libro degli archetipi della nostra civiltà. Ciascuno dei punti è stato poi connesso alle molteplici implicazioni che esso ha con il contemporaneo. Così è stato anche in Testamento - devozioni X, l’ultima tappa, basata sul concetto di resurrezione, che è diventata un’opera sulla fine dell’umanità, costruita su una mitologia generatasi durante la guerra fredda, all’indomani di Auschwitz, ossia dopo che l’uomo ha capito di poter giocare con la tavolozza di Dio, in un’epica dell’autodistruzione che ancora oggi è estremamente attuale.

 

A.F.: Cosa c’entrano “l’identità culturale dell’uomo occidentale moderno” e la sua “doppia natura”, Roma, “la tavolozza di Dio”, Auschwitz con… con Vera Lynn?

 

G.M.T.: “Does anybody here remember Vera Lynn?”… così comincia una canzone dei Pink Floyd. Effettivamente non so quanti ricordino che durante gli anni della guerra fredda, la BBC varò un progetto chiamato War Time Broadcasting Service, che da alcune stazioni radio sotterranee, in caso di attacco nucleare, avrebbe trasmesso per cento giorni un avviso che dava conto della situazione e una playlist di canzoni per gli ipotetici sopravvissuti. Tra queste canzoni c’era We’ll meet again di Vera Lynn. Parlare della fine dell’umanità nel mio lavoro ha comportato il doverne recuperare la mitologia e dunque ricostruire il vecchio progetto della BBC, facendo di Devozioni X una vera torre di trasmissione radio, mantenendo l’idea della playlist e sostituendo l’annuncio con un testamento inciso su nastro magnetico, una frase pronunciata da Frank Lloyd Wright poche settimane prima di morire: “Se avessi ancora quindici anni di lavoro potrei ricostruire l’intero paese, cambierei la nazione”. Un rimpianto che segna un confine bruciante fra la finitezza dell’uomo e l’indeterminatezza dell’assoluto temporale, parole lanciate nel vuoto sopra la testa di una città postuma, come la si vede dalla finestra posta in cima alla torre, l’unica aperta di tutto l’edificio, che mostra Roma, la città testimone dell’intera modernità, come un semplice agglomerato urbano, rimasto a seccare come l’esoscheletro di una civiltà davanti agli occhi di Dio.

 

A.F.: Devozioni X riassume un po’ tutto, ponendosi in maniera più composta e concisa senza lasciarsi andare ai virtuosismi di chi ha tanto spazio da riempire. La tua ricerca è maturata costruendo questo percorso, possiamo dire che lavorare per cicli sia servito, almeno per ora, anche a questo?

 

G.M.T.: Le installazioni di Devozioni sono macchine, l’opera d’arte è la performance che il visitatore compie all’interno. Dunque, come ogni macchina, ciò che costruisco deve essere in primo luogo funzionale, e per esserlo si deve compiere una calibrazione degli elementi nella scala complessiva dell’opera, che porterebbe ogni eccesso a essere uno squilibrio e perciò un ostacolo alla percezione. È una consapevolezza raggiunta nel tempo, certamente, che a ogni passo si ripercuote sul resto del mio lavoro, ambientale e non, esigendo lo stesso rigore compositivo.

 

A.F.: Questo tempo in che modo ha contributo al tuo rapporto con lo spazio e col tempo stesso che tu usi come un materiale?

 

G.M.T.: Non è cambiato molto il mio rapporto con lo spazio. L’unica cosa che si è andata affinando è la consapevolezza di dover sparire. Maggiore è l’evidenza della mia presenza nello spazio e minore è ciò che resta libero per il visitatore. Dunque sparire del tutto sarebbe l’ideale. Restando però in realtà artefice delle leggi di questo spazio totale, di questa camera mimetica in cui il visitatore possa spazializzare il suo recondito. Il tempo in questo è fondamentale. Traslare la cognizione del tempo dello spettatore da una prospettiva lineare a una prospettiva bergsoniana genera una estrema libertà di movimento del visitatore all’interno delle proprie immagini interiori, ma è vero anche che questa libertà di usarle per creare delle associazioni è disciplinata dalla calibrazione dello spazio che col visitatore sviluppa attriti e pressioni precise.

 

A.F.: Devozioni X mi ha confermato due cose. La prima è che nella sua “emotiva” tridimensionalità, ovvero che sia attraversabile e che agisca nell’intimo del visitatore/performer, tutto si riduca ad una bidimensionalità condensata, lasciando che sia la memoria a rimanere dopo che smonti tutto. La seconda, partendo da questo, è che tu disegni sullo spazio: attraversando il lavoro guardi un “globo”, uscendo e ripensandoci su hai un “planisfero”, un foglio. Che ne pensi?

 

G.M.T.: Quello che cerco di fare è far funzionare Devozioni come un enzima. L’esperienza sensoriale che si ha produce una reazione quasi chimica al livello del recondito, le immagini che costruisco si legano ad immagini già presenti nel visitatore in un effetto di sintesi che produce un nuovo enigma o una nuova prospettiva su un enigma vecchio e dimenticato in fondo alla propria storia. Ovviamente la soluzione di esso, qualora sia raggiungibile, non sta all’interno dell’opera, e dunque l’immagine mista che il visitatore ha generato riemerge anche in seguito, come un sogno ricorrente, ad occhi aperti o chiusi, che cerca una risposta.

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