John Berger. Fotografia e verità

23 Gennaio 2012

Esce questa settimana il nuovo volume della collana “Riga” (pp. 350, € 25) dedicato a John Berger, scrittore, saggista, disegnatore, poeta, collaboratore di giornali, sceneggiatore, e altro ancora, una delle figure più importanti della cultura europea contemporanea. Lo cura Maria Nadotti, da anni sua traduttrice; contiene saggi e testi inediti di Berger, oltre a conversazioni, dialoghi, commenti dello scrittore inglese. Numerosi i collaboratori del numero edito da Marcos y Marcos, da Salman Rushdie a Elena Poniatowska, da Arundhati Roy a Michael Ondaatje; l’indice del numero oltre ad altri materiali, tra cui una bibliografia completa dei testi di Berger, si legge in www.rigabooks.it .

 

Il testo che qui presentiamo, compreso nel volume di “Riga”, è uno dei contributi più importanti dedicati alla fotografia, e in particolare al suo peculiare rapporto con la verità; e va annoverato tra i testi decisivi della seconda metà del Novecento, accanto a quelli di Roland Barthes e Susan Sontag; apparso in italiano diversi anni fa su rivista, fa parte di un volume mai tradotto nella nostra lingua.

 


 

Fotografia e verità

 

Ciò che fa della fotografia una strana invenzione, con effetti imprevedibili, è che le materie prime con cui lavora sono la luce e il tempo.

Cominciamo però con qualcosa di più tangibile. Alcuni giorni fa un amico ha trovato questa foto e me l’ha mostrata. Non ne so nulla. Il modo migliore per datarla è probabilmente la tecnica fotografica utilizzata. Diciamo tra il 1900 e il 1920. Ma non so se sia stata scattata in Canada, nelle Alpi, in Sudafrica o altrove. Tutto quello che mostra è un uomo sorridente di mezza età con il suo cavallo. Perché è stata scattata? Quale significato aveva per il fotografo? E aveva lo stesso significato anche per l’uomo con il cavallo?

Ci potremmo inventare soprattutto una serie di possibili significati: L’ultimo poliziotto a cavallo (il suo sguardo allora ci appare nostalgico); L’uomo che incendiava le fattorie (lo sguardo allora ci appare sinistro); Alla vigilia di una spedizione di duemila miglia (lo sguardo assume un’aria vagamente preoccupata); Di ritorno da una spedizione di duemila miglia (lo sguardo esprime modestia)...

L’informazione più definita che il fotografo ci fornisce riguarda il tipo di briglia portato dal cavallo, ma questa non è certamente la ragione per cui è stata scattata. Osservando la foto è difficile perfino dire a quale categoria appartenga: una foto tratta dall’album di famiglia, l’immagine ricavata da un giornale, l’istantanea scattata da un viaggiatore?

Potrebbe essere stata scattata non per l’interesse nell’uomo ma per quello nel cavallo? Cosa faceva l’uomo? Era un fantino, o qualcuno che semplicemente reggeva un cavallo? O un allevatore? La foto potrebbe anche essere un fotogramma di uno dei primi film western.

Questa fotografia costituisce la prova irrefutabile dell’esistenza dell’uomo, del cavallo e della briglia. Eppure non ci dice nulla sul significato della loro esistenza.

 

 

Il trauma della discontinuità

 

Una fotografia arresta il flusso temporale in cui l’evento fotografato esisteva. Tutte le fotografie sono del passato, ma in esse un istante del passato viene fermato; cosicché, diversamente da un passato vissuto, questo non può mai portare al presente. Ogni fotografia ci comunica due messaggi: l’uno che concerne l’evento fotografato e l’altro che ha a che fare con il trauma della discontinuità.

Tra il momento registrato e quello presente in cui si osserva la fotografia c’è un abisso. Siamo così abituati alla fotografia che non recepiamo più coscientemente il secondo di questi messaggi, se non in circostanze speciali: per esempio, quando conoscevamo la persona fotografata che ora è lontana o morta. In questi casi, la foto è più traumatica di quanto non siano i ricordi o i rimpianti perché sembra confermare, profeticamente, la discontinuità successiva creata dall’assenza o dalla morte. Immaginate per un momento di essere stati un tempo innamorati dell’uomo con il cavallo e che egli ora sia scomparso.

Se, tuttavia, l’uomo è un perfetto sconosciuto, si pensa soltanto al primo messaggio, che nel caso specifico è talmente ambiguo che anche l’evento sfugge. Ciò che il fotografo mostra si può accordare con qualsiasi storia che scegliamo di inventare.

Ciò nonostante, il mistero di questa fotografia non finisce qui. Nessuna storia inventata, nessuna spiegazione offerta sarà presente quanto le sembianze banali preservate in questa fotografia. Esse possono anche dirci molto poco, ma sono indiscutibili.

Le prime fotografie erano considerate dei veri prodigi perché, ben più direttamente di qualsiasi altra forma di immagine visiva, presentavano la parvenza di ciò che era assente. Conservavano l’aspetto delle cose e permettevano che l’aspetto delle cose fosse portato altrove. Il prodigio in questo senso non era soltanto tecnico.

La nostra reazione all’immagine è molto profonda, e ci coinvolge da un punto di vista sia istintivo che atavico. Per esempio, l’immagine da sola – a prescindere da ogni considerazione cosciente – può eccitare sessualmente. Oppure lo stimolo a un’azione – per quanto incerto rimanga – può essere indotto dal colore rosso. In termini più generali, la sembianza del reale è la conferma più ampia dell’esserci del mondo, e quindi la parvenza del mondo continuamente propone e conferma il nostro rapporto con quell’esserci, che alimenta il nostro senso dell’Esistente.

Prima di provare a leggere la fotografia dell’uomo con il cavallo, prima ancora di situarla e di darle un nome, il mero atto di osservarla conferma, anche se in modo sfuggente, il nostro senso di essere nel mondo, con i suoi uomini, cappelli, cavalli, briglie...

 

 

L’immagine e la parola

 

L’ambiguità di una fotografia non risiede nell’istante dell’evento fotografato: lì la prova fotografica è meno ambigua di qualsiasi racconto di un testimone oculare. Il foto-finish di una gara è correttamente determinato da ciò che la macchina ha ripreso. L’ambiguità emerge da quella discontinuità che è all’origine del secondo dei messaggi fotografici (l’abisso tra il momento fotografato e il momento dell’osservazione della foto).

Una fotografia conserva il momento temporale e lo protegge dal rischio di essere cancellato e sostituito con altri momenti. In quest’ottica le fotografie possono essere paragonate alle immagini della memoria. Ma c’è una differenza fondamentale: mentre le immagini della memoria sono il residuo di un’esperienza continua, una fotografia isola le sembianze di un istante staccato. Ma nella vita il significato non è istantaneo. Viene scoperto perché connette, e non può esistere senza sviluppo. Senza una storia, senza una rivelazione non si dà significato. I fatti, l’informazione non costituiscono di per sé significato. I fatti possono essere inseriti in un computer e diventare fattori di un calcolo. Il computer, però, non ci restituisce alcun significato, perché quando attribuiamo senso a un evento, quel senso è una risposta non soltanto al conosciuto, ma anche all’ignoto: senso e mistero sono inscindibili, nessuno dei due può esistere al di fuori del trascorrere del tempo. La certezza può essere istantanea; il dubbio richiede la durata; il significato è figlio dei due. Un istante fotografato può acquisire senso solo nella misura in cui l’osservatore vi può leggere una durata che si estende al di là di esso.

Quando riteniamo che una fotografia sia significativa, è perché le prestiamo un passato e un futuro. Il fotografo professionista cerca, quando scatta una foto, di scegliere un istante che persuaderà l’osservatore a prestarle un passato e un futuroadeguati. L’intelligenza del fotografo o la sua empatia con il soggetto decide per lui che cosa sia appropriato. Però, diversamente dallo scrittore, dal pittore o dall’attore, il fotografo opera soltanto, in ogni foto, una singola scelta costitutiva: la scelta dell’istante da fotografare. La foto, se paragonata ad altri media, risulta quindi povera di intenzionalità.

Una foto drammatica può essere ambigua quanto una che non lo è. Che cosa sta succedendo? È necessaria una didascalia perché si riesca a capire il significato dell’evento. Ad esempio: “Nazisti che bruciano libri”. E il significato della didascalia di nuovo dipende dal senso della storia che noi non possiamo necessariamente dare per scontato.

Tutte le fotografie sono ambigue. Tutte sono state estratte da una continuità. Se l’evento è pubblico, questa continuità è la Storia con la S maiuscola; se è personale, la continuità che è stata interrotta è la storia di una famiglia. Anche un semplice paesaggio interrompe una continuità: quella della luce del tempo meteorologico. La discontinuità sempre produce ambiguità. Eppure spesso questa ambiguità non è ovvia, perché appena alle fotografie vengono accoppiate delle parole, esse producono un effetto di certezza, di dogmatica asserzione.

Nel rapporto tra fotografia e parola, la foto è quella che chiede un’interpretazione che le parole generalmente le forniscono. La fotografia, irrefutabile come testimonianza ma debole di significato, riceve un significato dalle parole. E le parole, che restano per loro natura a livello di generalizzazione, ricevono un’autentica specificità dall’irrefutabilità della fotografia. L’unione di foto e parole dunque diventa molto forte; una domanda aperta riceve una risposta assolutamente esaustiva.

Ma può darsi che l’ambiguità fotografica, se riconosciuta e accettata come tale, possa offrire alla fotografia un mezzo di espressione. Potrebbe questa ambiguità suggerire un altro modo di raccontare? Questo è il punto a cui desidero dar risalto e su cui ritornerò più tardi.

 

 

Il fotografo e il disegnatore

 

La macchina fotografica è una scatola per catturare le sembianze della realtà. Il principio di funzionamento della macchina fotografica non è cambiato dai tempi della sua invenzione. La luce, dell’oggetto fotografato, passa attraverso un foro e impressiona una lastra fotografica o una pellicola. Queste ultime, grazie alla loro preparazione chimica, conservano le tracce della luce. Da queste tracce, tramite altri procedimenti chimici leggermente più complessi, si ottiene la stampa. Tecnicamente, rispetto agli standard a cui siamo abituati nel nostro secolo, il procedimento è semplice. Proprio come lo era, ai suoi tempi, l’invenzione della stampa. Ciò che non è così semplice è cogliere la natura delle sembianze del reale che la macchina fotografica cattura. Che cosa sono queste sembianze del reale? Una costruzione, un artefatto culturale umano, oppure, simile a un’impronta sulla sabbia, una traccia naturalmente lasciata da qualche cosa che è passata? Entrambe le possibilità sono valide.

Il fotografo sceglie l’evento da fotografare. Questa scelta può essere pensata come una costruzione culturale. Lo spazio per questa costruzione è, per così dire, chiarito dal rifiuto di ciò che egli non ha scelto di fotografare. La costruzione è una lettura dell’evento che è davanti ai suoi occhi. È questa lettura, spesso intuitiva e molto veloce, che decide la scelta dell’istante da fotografare.

Analogamente, l’immagine fotografata dell’evento, quando viene mostrata come una fotografia, è anche parte di una costruzione culturale. Appartiene a una situazione sociale specifica, la vita del fotografo, un tema, un esperimento, un modo di spiegare il mondo, un libro, un giornale, una mostra.

Ma al tempo stesso la relazione materiale tra l’immagine e ciò che essa rappresenta (tra i segni sulla carta fotografica e l’albero che questi segni rappresentano) è immediata e non costruita. È proprio come una traccia.

Il fotografo sceglie l’albero, l’immagine che ne vuole dare, il tipo di pellicola, il fuoco, il filtro, il tempo di esposizione, l’intensità della soluzione di sviluppo, il tipo di carta su cui stampare, se la stampa deve essere più o meno scura, il taglio della stampa – sceglie tutto questo e altro ancora. Ma dove non può intervenire – non può farlo senza cambiare il carattere specifico della foto – è tra la luce che emana dall’albero, e passa attraverso le lenti, e l’impressione che lascia sulla pellicola.

È possibile chiarire che cosa si intende per traccia se ci chiediamo in che cosa un disegno differisca da una fotografia. II disegno è una traduzione. Vale a dire che ogni segno sulla carta è coscientemente rapportato non solo al ‘modello’ reale o immaginario, ma anche a ogni segno e spazio già tracciato sulla carta. Così un’immagine disegnata o dipinta è tessuta dall’energia (o dalla debolezza, se il disegno è fiacco) di giudizi innumerevoli. Ogni volta che un disegno evoca una figura, tutto quel che la riguarda è mediato dalla coscienza, intuitiva o sistematica che sia. In un disegno una mela èfatta rotonda e sferica; in una foto, la rotondità e la luce e ombra della mela sono ricevute come un dato.

Questa differenza tra fare e ricevere implica anche un rapporto molto diverso con il tempo. Un disegno contiene il tempo del suo farsi, e ciò significa che possiede un proprio tempo, indipendente dal tempo vivente di ciò che raffigura. La fotografia, invece, lo riceve quasi istantaneamente – normalmente a una velocità che non può essere percepita dall’occhio umano. L’unico tempo contenuto in una fotografia è l’istante isolato di ciò che mostra.

C’è un’altra importante differenza tra il tempo contenuto dai due tipi di immagini. Il tempo che esiste nel disegno non è uniforme. L’artista dedica più tempo a ciò che ritiene rilevante. È probabile che un viso contenga più tempo del cielo che gli fa da sfondo. II tempo in un disegno varia a seconda del valore umano. In una fotografia il tempo è invece uniforme: ogni parte dell’immagine ha subito un procedimento chimico di durata omogenea. Nel processo di sviluppo tutte le parti sono uguali.

Queste differenze tra un disegno e una fotografia rispetto al tempo ci conducono alla distinzione fondamentale tra i due mezzi di comunicazione. I giudizi e le decisioni innumerevoli che costituiscono un disegno sono sistematici. Ciò significa che essi trovano radici in un linguaggio esistente. L’insegnamento di questo linguaggio e i suoi usi specifici sono storicamente variabili. L’apprendista di un pittore rinascimentale imparava una pratica e una grammatica del disegno diverse da quelle di un apprendista cinese del periodo Sung. Ma ogni disegno, per ricreare le sembianze del reale, ricorre a un linguaggio.

Diversamente dal disegno, la fotografia non possiede un linguaggio. L’immagine fotografica è prodotta istantaneamente dal riflesso della luce; la sua figura non è impregnata di esperienza o consapevolezza.

Barthes, scrivendo sulla fotografia, parlava di “umanità che si imbatte, per la prima volta nella sua storia, in messaggi senza un codice. Quindi, la fotografia non è l’ultimo termine della grande famiglia di immagini; corrisponde a un mutamento decisivo dell’economia dell’informazione”. Il cambiamento sta nel fatto che le fotografie forniscono informazioni senza avere un linguaggio proprio.

Le foto non traducono dalla sembianza del reale. La citano.

 

 

Tra verità e menzogna

 

È perché la fotografia non possiede un linguaggio suo, perché cita piuttosto che tradurre, che si dice che la macchina fotografica non può mentire. Non può mentire perché riproduce direttamente.

(Il fatto che siano esistite ed esistano fotografie contraffatte è, paradossalmente, una dimostrazione di ciò. L’unica operazione possibile per far sì che una fotografia racconti una menzogna sta nell’elaborazione di tecniche come l’alterazione, il collage, la ri-fotografia. In quel caso non si tratta più di fotografia. La fotografia in sé non possiede un linguaggio che possa essere virato.) Eppure le foto possono essere usate e sono usate molto spesso per ingannare e fornire informazioni distorte.

Siamo circondati da immagini fotografiche che costituiscono un sistema globale di informazione fuorviante: il sistema noto come pubblicità, proliferazione di menzogne consumistiche. II ruolo della fotografia in questo sistema è rivelatorio. La menzogna è costruita prima della macchina fotografica. Viene assemblato un tableau di oggetti e di figure. Questo tableau usa un linguaggio di simboli, una narrativa implicita e, spesso, tipi di comportamento tratti da modelli di contenuto sessuale. Questo tableau viene poi fotografato. Viene fotografato proprio perché la macchina è in grado di conferire autenticità a qualsiasi tipo di sembianza, anche falsa. La macchina fotografica non mente neanche quando cita una menzogna. La conseguenza è che ciò rende la menzogna più credibile.

Entro i suoi limiti, la citazione fotografica è incontrovertibile. Eppure la citazione, collocata come un fatto nell’ambito di un tema più o meno esplicito, può dare informazioni false. Talvolta l’informazione fuorviante è deliberata, come nel caso della pubblicità; spesso è il risultato di un assunto ideologico indiscusso.

Per esempio, per tutto il XIX secolo e in tutto il mondo, viaggiatori europei, soldati, amministratori delle colonie, avventurieri hanno scattato fotografie degli ‘indigeni’, dei loro costumi, architetture, ricchezze, povertà, dei seni delle loro donne, delle capigliature; e queste immagini, oltre a provocare stupore, venivano presentate e lette come prova della giustezza della divisione imperialistica del mondo; la divisione tra coloro che organizzavano, razionalizzavano e controllavano, e quelli che erano controllati.

Di per sé la fotografia non può mentire ma, per la stessa ragione, non può dire la verità; o, piuttosto, la verità che può dire, che può difendere, è limitata.

I primi fotoreporter, che erano degli idealisti – negli anni Venti e Trenta – credevano che la loro missione fosse quella di riportare nel mondo la verità.

Così scriveva Margaret Bourke-White: “A volte vengo via da ciò che sto fotografando con il cuore che sanguina, con i volti della gente che soffre impressi nella mente come sui miei negativi. Ma vi ritorno perché sento di dover scattare quelle foto. La verità assoluta è essenziale, ed è questo che mi muove quando guardo attraverso l’obiettivo”.

Ammiro il lavoro di Margaret Bourke-White. E i fotografi, in determinate circostanze politiche, hanno certo aiutato a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla verità di ciò che stava accadendo altrove. Per esempio: il grado di povertà nelle campagne degli Stati Uniti degli anni Trenta; il trattamento riservato agli ebrei nelle strade della Germania nazista; gli effetti delle bombe al napalm sganciate dagli americani in Vietnam. Eppure credere che ciò che si vede, come si guarda attraverso l’obiettivo l’esperienza degli altri, sia la ‘verità assoluta’ rischia di confondere livelli di verità molto diversi. E questa confusione è endemica nell’attuale uso pubblico che si fa delle fotografie.

Le fotografie vengono impiegate nella ricerca scientifica: in medicina, fisica, meteorologia, astronomia, biologia. L’informazione fotografica è presente anche in sistemi di controllo sociale e politico – indagini, passaporti, informazioni militari. Altre fotografie vengono usate dai media per la comunicazione pubblica. I tre contesti sono diversi, eppure generalmente si ritiene che la veridicità della fotografia – o il modo in cui questa verità funziona – sia sempre la stessa.

Di fatto, quando una foto viene usata in campo scientifico, la sua inconfutabile evidenza costituisce un ausilio per giungere a una conclusione: fornisce informazioni nell’ambito della struttura concettuale di una ricerca. Fornisce il dettaglio mancante. Quando le fotografie vengono impiegate nei sistemi di controllo, la loro esistenza è in parte utilizzata per stabilire l’identità di qualcuno o la sua presenza. Ma appena una fotografia viene usata come mezzo di comunicazione, viene immediatamente coinvolta la natura dell’esperienza vissuta, e quindi la verità diventa un fatto più complesso.

La radiografia di una gamba dolorante può dire l’‘assoluta verità’ sull’interezza o meno delle ossa. Ma in che modo può una fotografia dire ‘tutta la verità’ sull’esperienza di privazione di un uomo o, al contrario, sulla sua esperienza di un lauto pasto?

Da un lato non esistono fotografie che possano essere negate. Tutte infatti riportano un fatto. Ciò che deve essere analizzato è in quale modo la fotografia possa o non possa conferire senso ai fatti.

 

 

L’utopia positivista

 

Ricordiamo ora come e quando sia nata la fotografia, in che modo sia stata per così dire battezzata, e come sia cresciuta.

La macchina fotografica è stata inventata nel 1839. Auguste Comte aveva appena finito il suo Cours de philosophie positive. Il positivismo, la macchina fotografica e la sociologia sono cresciute insieme. Ciò che le aiutava nel loro sviluppo era la convinzione che i fatti osservabili, quantificabili, registrati da scienziati ed esperti, avrebbero un giorno offerto all’uomo una conoscenza così globale della natura e della società da rendergli possibile di controllarle entrambe. La precisione avrebbe sostituito la metafisica, la pianificazione avrebbe risolto i conflitti sociali, la verità avrebbe preso il posto della soggettività, e tutto quanto c’è di più oscuro e nascosto nell’animo umano sarebbe stato illuminato dalla conoscenza empirica. Comte scriveva che teoricamente nulla sarebbe rimasto inspiegato se non – forse – l’origine delle stelle! Da quel tempo, le macchine fotografiche hanno ripreso perfino la loro formazione! E i fotografi ci forniscono più fatti ogni mese di quanti gli Enciclopedisti ottocenteschi avrebbero mai sognato di avere a disposizione nella totalità del loro progetto.

Eppure l’utopia positivista non si è realizzata. E il mondo oggi è meno controllabile dagli esperti, che hanno conosciuto fino in fondo quelli che credono essere i suoi meccanismi, di quanto non fosse nel XIX secolo.

Ciò che è stato realizzato è un progresso tecnico e scientifico senza precedenti che ha portato con sé la subordinazione di tutti i valori a quelli di un mercato mondiale che tratta tutto, inclusi gli individui, il loro lavoro, le loro vite e la loro morte, come merci. L’irrealizzata utopia positivista è diventata, invece, il sistema globale del tardo capitalismo in cui tutto ciò che esiste è quantificabile – e non solo perché può essere ridotto a fatto statistico, ma anche perché è stato ridotto a merce.

In un sistema del genere non c’è spazio per l’esperienza. L’esperienza di ciascuno rimane un problema individuale. La psicologia personale sostituisce la filosofia come mezzo per spiegare il mondo.

Né resta spazio per la funzione sociale della soggettività, che è trattata come qualcosa di privato, e l’unica forma (falsa) che di essa viene socialmente ammessa è quella del miraggio consumistico individuale.

Dalla soppressione primaria della funzione sociale della soggettività sono scaturite altre soppressioni: quella di una democrazia significativa (sostituita da inchieste sull’opinione pubblica e dalle tecniche delle ricerche di mercato), quella di una coscienza sociale (sostituita dall’interesse personale), quella della storia (sostituita dal razzismo e da altri miti), quella della speranza, la più soggettiva e sociale delle energie (sostituita dalla sacralizzazione del progresso come benessere).

Il modo in cui la fotografia è oggi utilizzata deriva dalla conferma e soppressione della funzione sociale della soggettività. Le foto, si dice, dicono la verità. Da questa semplificazione, che riduce la verità a qualcosa di istantaneo, deriva che quello che una fotografia ci racconta di una porta o di un vulcano appartiene allo stesso ordine di verità a cui appartiene un uomo che piange o il corpo di una donna.

Se non è stata operata alcuna distinzione teorica tra fotografia intesa come dimostrazione scientifica e fotografia come mezzo di comunicazione, ciò non è stato tanto per una svista quanto per un intento.

E l’intento era (ed è) di affermare che quando qualcosa è visibile, allora si tratta di un fatto, e i fatti contengono la verità.

La fotografia pubblica è rimasta figlia delle speranze del positivismo. Ormai orfana – perché quelle speranze sono morte – è stata adottata dall’opportunismo del capitalismo corporativo. Sembra probabile che la negazione dell’innata ambiguità della fotografia sia strettamente connessa alla negazione della funzione sociale della soggettività.

 

 

 

Una foto del 1919

 

Una madre con il suo bambino guarda fissamente un soldato. Forse stanno parlando. Non possiamo sentire le loro parole. Forse non si dicono nulla, e tutto è già stato detto dal modo in cui si guardano. Ma è certo che stanno vivendo un dramma.

La didascalia dice: “Partenza di un ussaro rosso, giugno 1919, Budapest”. La fotografia è di André Kertész.

Dunque, la donna è appena uscita da casa con lui e tra breve vi farà ritorno da sola con il bambino. Il dramma del momento è espresso dalla differenza degli abiti che indossano. Quelli di lui da viaggio, per dormire all’aperto, per combattere; quelli di lei per stare a casa.

La didascalia suggerisce anche altre riflessioni. La monarchia asburgica è caduta nell’autunno precedente. L’inverno è stato segnato da tremende privazioni (soprattutto di combustibile, a Budapest) e dalla disintegrazione economica. Due mesi prima, in marzo, era stata proclamata la socialista Repubblica dei Consigli. A Parigi, gli alleati occidentali, temendo che l’esempio rivoluzionario dei russi e ora degli ungheresi si diffondesse nell’Europa orientale e nei Balcani, stavano decidendo il modo di mettere fine alla nuova repubblica. Era già stato posto l’assedio. Lo stesso generale Foch stava programmando l’invasione militare che avrebbero dovuto effettuare truppe rumene e ceche. L’otto giugno Clemenceau telegrafava un ultimatum a Béla Kun chiedendo il ritiro militare ungherese che avrebbe permesso ai rumeni di occupare un terzo del suo paese. L’Armata Rossa ungherese combatté altre sei settimane, ma alla fine venne sopraffatta. In agosto, Budapest era occupata e pochissimo tempo dopo venne stabilito il primo regime fascista europeo sotto Horthy.

Se osserviamo un’immagine del passato e vogliamo metterla in relazione con noi, abbiamo bisogno di conoscere qualcosa della storia di quel passato. Quindi il discorso precedente – e molte altre cose che si sarebbero potute dire – diventa rilevante alla lettura della fotografia di Kertész. Ed è presumibilmente questa la ragione per cui il fotografo ha assegnato all’immagine quella didascalia e non una generica come “Separazione”. Eppure la fotografia – o piuttosto il modo in cui essa chiede di essere letta – non può essere limitata alla sua dimensione storica.

Tutto in essa è storico: le uniformi, le carabine, l’angolo della stazione di Budapest, l’identità e le biografie di tutte le persone che sono (o erano) riconoscibili; anche la dimensione degli alberi al di là dello steccato. Eppure c’è anche qualcosa che fa resistenza alla storia: c’è un’opposizione.

Questa opposizione non è la conseguenza del fatto che il fotografo abbia detto “Stop!”. L’immagine statica che ne risulta non è come un palo piantato in un fiume che scorre. Sappiamo che tra un momento il soldato volterà le spalle e partirà; presumiamo che sia il padre del bambino che la donna porta in braccio. Il senso dell’istante fotografato sta già affermando l’esistenza di minuti, settimane, anni.

L’opposizione esiste nello sguardo d’addio tra l’uomo e la donna. Lo sguardo non è diretto verso l’osservatore. Noi assistiamo alla scena come il soldato anziano con i baffi e la donna con lo scialle (forse una sorella). L’esclusività di quello sguardo è sottolineato ulteriormente dalla presenza del bambino tra le braccia della madre: il bimbo sta guardando il padre, eppure è escluso dallo sguardo che marito e moglie si scambiano.

Quello sguardo, che si incrocia davanti a noi, afferma quello che c’è; non afferma tanto ciò che si trova intorno a loro fuori della stazione, ma quello che è la loro vita, quello che sono le loro vite. La donna e il soldato si guardano e così l’immagine di ciò che è sopravviverà. In quello sguardo il loro essere si oppone alla loro storia, anche se pensiamo che quella storia sia da loro accettata o scelta.

 

 

Gli uomini e la storia

 

Come possiamo opporci alla storia? I conservatori possono opporsi con forza ai cambiamenti storici. Ma esiste un altro tipo di opposizione. Chi può leggere Marx e non sentire il suo odio verso i processi storici da lui scoperti e quanto fosse impaziente che la storia si compisse nel momento in cui, così credeva, il regno della necessità avrebbe lasciato luogo al regno della libertà?

Un’opposizione alla storia può essere in parte un’opposizione a ciò che in essa accade. Ma non solo questo. Ogni moto rivoluzionario è anche un progetto contro chi è oggetto della storia. E appena la gente sente, come effetto della sua disperata protesta, che non è più tale oggetto, la storia cessa di avere il monopolio sul tempo.

La fotografia della donna e dell’ussaro rosso rappresenta un’idea. Che non era di Kertész. Lui l’ha solo vissuta ed è stato pronto a catturarla.

Che cosa ha visto?

La luce di un giorno d’estate.

Il contrasto tra l’abito di lei e i pesanti equipaggiamenti del soldato che dovrà dormire all’addiaccio.

Gli uomini che aspettano con un certo avvilimento.

La concentrazione di lei – lo guarda come se lui fosse già distante.

Il suo viso arcigno, che non cederà alle lacrime.

La modestia di lui – lo si vede dal suo orecchio e dal modo in cui tiene la testa – perché in questo momento lei è più forte di lui.

L’accettazione di lei, nella compostezza del suo atteggiamento.

Il bambino, sorpreso dall’uniforme del padre, consapevole che si tratta di un evento inusuale.

I capelli di lei, sistemati prima di uscire, l’abito sciupato.

La povertà del loro vestiario.

È solo possibile elencare le cose viste, perché se arrivano al cuore, ci arrivano essenzialmente attraverso l’occhio. Per esempio, le mani della donna allacciate sotto il petto ci dicono in che modo pelano le patate, come una di esse giaccia quando lei dorme, come le aggiustino i capelli.

La donna e il soldato si stanno riconoscendo. Quanto una separazione assomiglia a un incontro! E attraverso quest’atto di riconoscimento, che forse non hanno mai vissuto così intensamente, ognuno spera di portare via con sé l’immagine dell’altro che sopravviverà qualunque cosa accada. Un’immagine che nulla potrà cancellare. Questa è l’idea vissuta davanti alla macchina fotografica di Kertész. Ed è ciò che rende paradigmatica questa fotografia. Mostra un momento che esplicita ciò che è implicito in tutte le fotografie che non sono solo godute ma anche amate.

Ogni fotografia è un possibile contributo alla storia, e ciascuna di esse, in circostanze particolari, può essere usata per interrompere il monopolio che la storia ha oggi sul tempo.

 

(1992)

 

 

——

John Berger, “Appearances”, in John Berger & Jean Mohr, Another Way of Telling, Vintage International, New York 1995. La traduzione italiana degli stralci che riportiamo è apparsa in “Lettera internazionale”, n. 31, 1992, pp. 53-57. Nome del traduttore non indicato.

 

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