Fuggire da Pyongyang

24 Marzo 2015

La Corea del Nord è un grosso buco nero. Non è la Svizzera pulita e ordinata che pretenderebbe Antonio Razzi, uno che con l'italiano arranca e sembra avere più dimestichezza con le serre di pomodori che con i Lager. La Corea del Nord è un buco nero che separa le macchie luminose della Cina e della Corea del Sud, nelle immagini notturne scattate dai satelliti. La Corea del Nord è un buco nero anche per le organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani. La Corea del Nord, forse proprio in virtù del suo essere oscura e impenetrabile, è un tema interessante per i lettori italiani: in soli quattro mesi, il libro di Blaine Harden Fuga dal Campo 14, pubblicato da Codice Edizioni, ha venduto più di ventimila copie. I lettori italiani, evidentemente, sono meno creduli dei loro politici.

 

 

Fuga dal Campo 14 racconta l'inferno di Shin Dong-hyuk, l'unica persona nata in un campo di prigionia nordcoreano che sia riuscita a scappare e raccontare la sua storia. A scriverla ci ha pensato Blaine Harden, giornalista americano che per quindici anni ha lavorato come corrispondente estero per il “Washington Post” e oggi collabora con il “New York Times”. È grazie al loro lavoro che possiamo fare in qualche modo luce su quello che succede all'interno del buco nero coreano.

 

Dimenticando di citare Razzi, Harden sostiene che, secondo i dati forniti dal governo sudcoreano, dal Dipartimento di Stato degli USA e da vari gruppi per i diritti umanitari, in Corea del Nord tra le 150.000 e le 200.000 persone vivano in condizione di schiavitù. I campi di prigionia sarebbero sei, il più grande occupa una superficie più estesa della città di Los Angeles (51 km per 40, all'incirca), quasi tutti sono circondati da recinzioni ad alta tensione, pattugliate da uomini armati e interrotte da torri di guardia. Due sono campi di rieducazione i cui ospiti possono sperare, un giorno, di essere rilasciati per buona condotta. Gli altri quattro sono campi a regime duro in cui i prigionieri considerati irrecuperabili, sono sfruttati, come manodopera, fino alla morte. Le guardie hanno licenza pressoché totale di violenza e abusi sui detenuti. Per fare un tour satellitare all'interno dei campi, è sufficiente avere installato Google Earth sul proprio computer e seguire questo link.

 

Shin Dong-hyuk è nato schiavo all'interno del Campo 14 perché, secondo una legge istituita da Kim Il Sung nel 1972, è legale, in Corea del Nord, incriminare i cittadini in base ai legami di sangue e parentela: «Il seme dei nemici di classe, chiunque essi siano, deve essere estirpato attraverso tre generazioni». La famiglia di Shin è reclusa all'interno del Campo 14 dal 1965 perché due fratelli del padre avevano commesso una serie di crimini imperdonabili: disturbo della quiete pubblica, atti di violenza e diserzione in Corea del Sud. I campi coreani esistono dal doppio degli anni in cui i Gulag russi sono stati attivi e da un tempo che è dodici volte quello dei Lager nazisti. Il Campo 14, quello che sembrerebbe essere il più duro fra i sei, è stato aperto nel 1959.

 

Primo Levi, ne I sommersi e i salvati, elenca i tre scopi che un sistema concentrazionario persegue: il lavoro non retribuito, cioè schiavistico; l'eliminazione degli avversari politici; lo sterminio delle cosiddette razze inferiori. I Lager perseguivano coscienziosamente tutti e tre questi scopi. Il sistema sovietico differiva da quello nazista per la mancanza del terzo scopo e per il prevalere del primo. Quello nordcoreano è una variante di quello sovietico dove la redistribuzione del dissenso su tre generazioni di familiari del dissenziente moltiplica la forza lavoro schiavizzata che cuce divise, impacchetta cemento, costruisce dighe per la produzione dell'energia di cui il paese cronicamente scarseggia. L'economia nordcoreana è da tempo al collasso. Blaine Harden sostiene che il paese è stato mantenuto in piedi, per tutti gli anni novanta, dagli aiuti russi. Dal 2000 al 2008, la Corea del Sud si è comprata, con ingenti donazioni, una coesistenza relativamente pacifica con il bizzoso vicino. In questi ultimi anni, è cresciuta esponenzialmente l'influenza cinese e il peso delle donazioni americane. In uno scenario così instabile, il potere preserva se stesso con la propaganda e seppellisce nei campi il dissenso. «In un regime totalitario», scrive Primo Levi, «l'educazione, la propaganda e l'informazione non incontrano ostacoli: hanno un potere illimitato, di cui chi è nato e vissuto in un regime pluralistico difficilmente può costruirsi un'idea».

 

Parata per i 65 anni della Repubblica Popolare Democratica di Corea

 

Il libro di Blaine Harden, come I sommersi e i salvati di Levi e La notte di Elie Wiesel, ci permette però di farci un'idea di cosa sia un campo di prigionia. A questo proposito, è interessante notare come, a dispetto della distanza temporale, geografica e culturale, i campi nazisti e quelli nordcoreani presentino numerose analogie.

 

C'è però una differenza sostanziale che fa di Shin, e della storia che racconta, un unicum nel panorama della letteratura concentrazionaria: Shin è nato in un campo di prigionia a regime duro. È stato messo al mondo con l'unico scopo di essere sfruttato come forza lavoro, fino alla morte. È nato schiavo e da schiavo sarebbe morto, se non fosse riuscito a scappare. È stato concepito per volere delle guardie del campo che hanno selezionato i suoi genitori e hanno permesso loro di sposarsi. Un matrimonio premio che è durato per cinque notti consecutive, più pochi incontri concessi ogni anno. L'ottava regola del Campo 14 recita: “In caso di contatto fisico di tipo sessuale non preventivamente approvato, i responsabili verranno fucilati all'istante”.

 

Shin non sa cosa sia l'amore materno. È nato in un inferno, è tutto ciò che conosce. L'inferno è casa sua. Solo a 22 anni, e per caso, scoprirà che esiste un mondo, al di là del filo spinato che circonda il campo, che il mondo è rotondo, esistono oggetti chiamati denaro, televisione, computer, telefono cellulare.

 

Per Levi e Wiesel è assai diverso: nascono liberi, hanno affetti familiari, hanno una vita che potranno ricordare e rimpiangere. Sono strappati di colpo a un'esistenza confortevole e civile e scagliati in un inferno che non ha precedenti. Sono incapaci di comprendere e spiegare cosa stia loro capitando. «L'ingresso in Lager», scrive Levi, «era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile ma anche indecifrabile: non era conforme ad alcun modello, il nemico era intorno ma anche dentro, il “noi” perdeva i suoi confini, i contendenti non erano due, non si distingueva una frontiera ma molte e confuse, forse innumerevoli, una fra ciascuno e ciascuno. Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c'erano; c'erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto forma immediata di un'aggressione concentrica da parte di coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile difendersi da un colpo a cui non si è preparati».

 

« – Figli di cani, perché siete venuti? Eh, perché?», chiede rabbiosamente un detenuto ai nuovi arrivati al campo, fra questi c'è Elie Wiesel. «– Avreste dovuto impiccarvi lì dove eravate piuttosto che venire qui. Non sapevate dunque cosa si preparava qui, ad Auschwitz? Lo ignoravate? Nel 1944?». Non crede ai suoi orecchi il detenuto, quando i nuovi arrivati confessano d'ignorare; il suo tono si fa più brutale: « – Vedete, laggiù, il camino? Lo vedete? Le fiamme, le vedete? (Sì, le vedevamo, le fiamme). Laggiù, è laggiù che andrete. È laggiù la vostra tomba. Non avete ancora capito? Figli di cani, non capite dunque nulla? Vi bruceranno! Vi arrostiranno! Vi ridurranno in cenere! –. Il suo furore divenne isterico. Noi restammo immobili, pietrificati. Tutto ciò non era un incubo? Un incubo inimmaginabile? »

 

Era un incubo, ha ragione Wiesel. Era un incubo che si sarebbe materializzato nello stomaco, sotto forma di una fame feroce e costante. Scrive Levi: «Le nostre giornate erano state ingombrate dall'alba al tramonto dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura, e lo spazio per riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato»; «il nostro metro morale era mutato»; «come gli animali, eravamo ristretti al momento presente».

 

Wiesel precisa: «Ormai non mi interessavo ad altro che alla mia scodella quotidiana di zuppa, al mio pezzo di pane raffermo. Il pane, la zuppa: tutta la mia vita. Ero un corpo. Forse ancora meno: uno stomaco affamato. Soltanto lo stomaco sentiva il tempo passare». Anche Shin conferma quest'aspetto della vita nei campi quando ricorda che i momenti più sereni e appaganti erano quelli, rari, in cui aveva la pancia piena. Ciò accadeva d'estate, quand'era bambino, e riusciva a dare la caccia a ratti, topi, rane, serpenti, insetti. Durante l'inverno, la primavera, i primi mesi estivi, il cibo a disposizione era assai più scarso, la fame spingeva i bambini a rubare. Ma i furti, se scoperti, erano puniti con ferocia. Harden racconta di quando, nel 1989, una bambina esile, bassina, graziosa, compagna di classe di Shin, fu sorpresa con 5 chicchi di mais nelle tasche. L'insegnante-guardia le ordinò di mettersi in ginocchio davanti alla classe, poi la picchiò sulla testa con la sua bacchetta di legno. La picchiò fino a quando sulla testa non le spuntarono bozzi, il sangue cominciò a colarle dal naso e la bimba crollò sul pavimento, priva di sensi. Morì la sera stessa.

 

Allo stesso modo, muore un bambino dal volto d'angelo infelice, nel libro di Wiesel, accusato d'essere un sabotatore. Lo torturano per estorcergli i nomi dei complici; resta muto. Le SS lo condannano a morte assieme ad altri due detenuti. Tre forche drizzate sul piazzale dell'appello, tutti devono assistere. Silenzio assoluto. Il sole tramonta. Vengono tolte le sedie. I corpi pendono. «Ma la terza corda», quella del bambino, «non era immobile: anche se lievemente, il bambino viveva ancora... Più di una mezz'ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia».

 

Le esecuzioni, nei Lager come nei campi coreani, sono momenti educativi perché generano paura negli spettatori. Il primo ricordo di Shin è una fucilazione. Wiesel, invece, racconta così il momento in cui dovette sfilare davanti al bambino impiccato: «Era ancora vivo quando gli passai davanti. La sua lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dentro di me udii il solito uomo domandare:

– Dov'è dunque Dio?

E io sentivo in me una voce che rispondeva:

– Dov'è? Eccolo: è appeso lì a quella forca... »

A quindici anni, Elie Wiesel perde per sempre la fede. «Mai potrò dimenticare gli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima e i miei sogni, che presero il volto del deserto».

 

Levi chiarisce: «quanto era avvenuto intorno a loro, e in loro presenza, e in loro, era irrevocabile. Non avrebbe potuto essere lavato mai più; avrebbe dimostrato che l'uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare».

Oppure basta rispettare le regole, fare la spia, tradire tutti e di tutti sospettare, non fidarsi neanche della propria madre. Questo è il contesto morale in cui Shin è cresciuto. La disumanizzazione, che nei campi di concentramento nazisti era il punto di arrivo di un processo iniziato con la deportazione, è alla base dell'esistenza di Shin. Per sopravvivere nell'inferno dei Lager, i prigionieri erano costretti ad abbandonare i principi morali su cui si fondava la loro vita precedente. "Il nostro metro morale era mutato", scrive Levi. "Avevamo dimenticato non solo il nostro paese e la nostra cultura, ma la famiglia, il passato, il futuro che ci eravamo rappresentato, perché, come gli animali, eravamo ristretti al momento presente". Riconoscere di essere cambiati è un rimorso che tormenta fin dai primi giorni di prigionia. Wiesel resta pietrificato, quando, appena arrivati al campo, una guardia dà uno schiaffo a suo padre: «Cosa mi era dunque successo? Avevano picchiato mio padre, davanti ai miei occhi, e io non avevo battuto ciglio. Avevo guardato e avevo taciuto. Ieri, avrei affondato le mie unghie nella carne di quel criminale. Ero dunque così cambiato? Così in fretta?». E quando, in un'altra occasione, il padre è preso a sprangate da un kapò, si allontana per non ricevere colpi  a sua volta e pensa: «se in quel momento ero in collera, non era con il kapò, ma con mio padre. Gliene volevo per non avere saputo evitare la crisi di Idek: ecco cos'aveva fatto di me il campo di concentramento...»

 

Allo stesso modo, Shin disprezza i suoi genitori per avere generato prole destinata a vivere e morire schiava. Le guardie, che la decima regola del Campo impone di considerare maestri, insegnano ai bambini che loro si trovano lì per colpa dei peccati commessi dai genitori. Così Shin cresce vedendo in sua madre soltanto una rivale per il cibo. Da lei non riceve gesti d'amore e consolazione ma botte con una zappa, una pala o qualsiasi altra cosa le capitasse in mano. Così, quando nel 1996, a 14 anni, Shin si accorge che la madre e il fratello maggiore che conosceva appena stanno architettando una fuga dal Campo, e che lui sarebbe stato abbandonato nel campo, decide di denunciarli. D'altronde, la sesta regola del Campo recita: «I prigionieri devono tenersi sotto controllo a vicenda e denunciare qualsiasi comportamento sospetto». E la quinta precisa che bisogna denunciare immediatamente un fuggitivo o una figura sospetta, pena la solita fucilazione istantanea. In un primo momento, però, le guardie credono che Shin sia complice dei suoi familiari. Lo torturarono per dieci giorni. Qualche tempo dopo, lo costringono ad assistere, dalla prima fila, all'esecuzione di sua madre e del fratello. In quel momento, Shin li odia perché è colpa loro se lui è stato torturato fin quasi alla morte. Mentre la madre si contorce appesa al cappio, Shin non riesce a non pensare che la sua morte sia meritata. Allo stesso modo, Wiesel spera di potersi sbarazzare di quel peso morto che era diventato suo padre, negli ultimi giorni di prigionia, «così da poter lottare con tutte le mie forze per la mia sopravvivenza, occupandomi solo di me stesso». Subito però ebbe «vergogna, vergogna per sempre di me stesso». Gli fa eco Shin, quando oggi afferma: «Non c'è niente che io possa comparare a questo peso». Il peso di essere sopravvissuto.

 

 

«Sopravvivono i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono tutti morti», scrive Levi. Sopravvive chi mangia più degli altri, chi sa ritagliarsi un privilegio. Lo sostiene Solženycin, parlando dei Gulag: «Quasi tutti quelli che hanno scontato una lunga pena e con i quali vi congratulate perché sono sopravvissuti, sono senz'altro dei pridurki o lo sono stati per la maggior parte della prigionia. Perché i Lager sono di sterminio, questo non va dimenticato». I pridurki, spiega Levi, sono quei prigionieri che, in un modo o nell'altro, sono riusciti a conquistare una posizione, un privilegio. Come lo stesso Levi che, per concessione dello stabilimento chimico per cui lavorava nel campo, mangiava due litri di zuppa al giorno, anziché l'uno di ordinanza. Come Shin che, scrive Blaine Harden, ha vissuto una vita relativamente confortevole rispetto agli standard degli altri bambini del Campo e che, forse perché si è dimostrato un informatore affidabile, a sedici anni è mandato a lavorare in un allevamento, il posto migliore per rubare cibo di tutto il Campo 14. Il 60% dei suoi compagni di classe, invece, è assegnato alle miniere di carbone. Difficilmente, in quelle miniere, si sopravvive oltre i quarant'anni.

 

«Sopravvivono di preferenza i peggiori, gli egoisti, i violenti, gli insensibili, i collaboratori della "zona grigia", le spie», scrive Levi, e in un altro punto precisa: «Ognuno di noi superstiti è per più versi un'eccezione».

Shin ha fatto la spia e si è salvato. È riuscito a scappare dal Campo 14 e dalla Corea del Nord, intrufolandosi nelle falle di un paese al collasso. Shin però, a oggi, rappresenta più di un'eccezione: è l'unico testimone oculare dei campi nordcoreani che in un campo sia nato e cresciuto. A lui, come a Levi, tocca il compito di raccontare il suo destino e anche quello degli altri, di quelli rimasti prigionieri, dei sommersi. Come Levi, Shin sarà chiamato a giustificare la salvezza che gli è toccata in sorte. Dovrà giustificarla a sé stesso, per cominciare; in seguito, anche a tutti i Razzi che avrà la sfortuna, nella sua vita da uomo libero, d'incontrare.

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