Si fa presto a dire Audience Development

23 Dicembre 2014

Mai come ora si sente parlare di Audience Development (AD). L’eterogeneità delle voci che lo evocano, la pluralità dei punti di vista adottati e la diversità delle finalità che sottendono il suo utilizzo rappresentano il primo indicatore di una certa sfuggevolezza definitoria. L’AD consiste, infatti, in una categoria piuttosto ampia di approcci e di attività che spesso si fanno rientrare nel raggio d’azione e di competenza del marketing. In realtà, alcune finalità molto ben delineate – come quelle, ad esempio, del coinvolgimento di nuovi pubblici o di pubblici difficili da raggiungere – mobilitano competenze e ambiti che riguardano più direttamente le funzioni didattiche e educative delle organizzazioni culturali.

 

L’enfasi crescente sul bisogno di rafforzare la sostenibilità (economica e sociale) e l’impatto dell’azione culturale (in termini di sollecitazione di nuove domande, di allungamento del ciclo di vita dei progetti e di coinvolgimento produttivo dei pubblici) autorizza a inserire i concetti dell’AD anche nella grammatica del project management culturale e dello stakeholder management. Non a caso se si prende a riferimento un’autorevole definizione dell’Arts Council of England del 2006 emerge con evidenza l’ampiezza di spettro dell’AD:

 

The term audience development describes activity which is undertaken specifically to meet the needs of existing and potential audiences and to help arts organisations to develop ongoing relationships with audiences. It can include aspects of marketing, commissioning, programming, education,

customer care and distribution”.

[...]

 

Tornando all’affermazione iniziale non è inutile domandarsi come mai oggi l’AD sia un argomento al centro dell’interesse dei policy maker, delle organizzazioni culturali e di chi lavora sul bordo dell’innovazione. Indirettamente una risposta la fornisce l’Unione Europea attraverso il suo più importante programma quadro di sostegno alla cultura e alla creatività, “Europa Creativa”. Il nuovo programma, che copre un orizzonte temporale fino al 2020, nel suo indirizzo generale e nelle diverse linee di azione pone ripetutamente l’audience development come un obiettivo da perseguire per contrastare limiti e fragilità dei settori culturali e per cogliere le opportunità derivanti dalla nuova cultura digitale. Nello specifico si fa riferimento alla frammentarietà dei mercati culturali europei e alla necessità di ampliare i pubblici di tali prodotti (superando possibilmente le barriere linguistiche e nazionali), alla possibilità di sperimentare nuove forme di coinvolgimento attraverso i media digitali e di rafforzare le competenze degli operatori che devono affrontare le molte sfide dei pubblici (in particolare dei cosiddetti “nuovi pubblici”).

 

Le indicazioni dell’Unione Europea possono essere lette come il risultato di una duplice constatazione: che l’utopia possibile della democratizzazione della cultura, a partire dalla seconda metà del Novecento, non si è compiuta (con risultati che mediamente hanno deluso, indipendentemente dalle ricette politiche adottate) e che in un contesto di welfare fortemente ridimensionato la sostenibilità economica del fare culturale è sempre più inscindibile dalla sostenibilità sociale e dall’innovazione. Detto in altri termini, la maggior parte delle organizzazioni culturali dovrà porsi il problema della propria “rilevanza sociale”, dovrà cioè prestare maggiore attenzione all’analisi della società e dei mercati culturali, alla qualità della comunicazione e del marketing, alla mediazione dei contenuti, alle opportunità che derivano dall’innovazione tecnologica, al potenziale educativo e trasformativo che deriva da logiche di progettazione aperte e inclusive.

 

Si sta, infine, affermando una visione che propone una lettura della cultura come fortemente interconnessa allo sviluppo e al benessere delle economie evolute. Il corollario principale di tale assunto risiede nel bisogno di una base sociale la più ampia e allargata possibile affinché possano innescarsi processi di sviluppo che siano efficaci, equi, perduranti e in grado di generare ricadute positive sulle capacità e sulle opportunità individuali, sul capitale creativo delle persone, sulla qualità della cittadinanza, sulla salute e sul benessere nel suo complesso.

[...]

Spettatori, visitatori, fruitori, clienti, utenti, consumatori, utilizzatori, partecipanti, paganti, presenze, più raramente persone. Sono molti i termini che si usano per descrivere il pubblico della cultura, soprattutto di quella cultura che sta a cuore alle politiche preposte, che riceve finanziamenti pubblici e para-pubblici e il cui stato di salute viene periodicamente misurato dai dottori delle statistiche ufficiali.

 

John Holden, che a più riprese ha affrontato il tema del valore della cultura e della capacità delle politiche di orientarne e ampliarne gli effetti, parla del concetto di pubblico spiegando che è un termine collettivo che ricomprende una moltitudine di differenti e spesso opposti punti di vista (Holden, J., Capturing Cultural Value. How culture has become a tool of government policy, DEMOS, London, 2004). L’autore sostiene, inoltre, che nella cultura finanziata dalla mano pubblica si tende, generalmente, a vedere il pubblico in termini di “audience”, di “spettatori” o di “visitatori”, ovvero di destinatari che hanno aderito a un patto e che più o meno implicitamente fanno parte di una comunità. Ne deriva che, per differenziazione e in negativo, esiste un blocco, tutt’altro che monolitico, sicuramente più ampio ed eterogeneo, costituito da coloro che “non sono” parte di quel patto (il cosiddetto “non pubblico”).

 

Si tratta di una visione in cui il concetto di partecipazione (e di non partecipazione) si fonda, tutto sommato, su una visione sostanzialmente passiva e reattiva in cui le persone possono decidere o meno di muoversi nell’ambito di sistemi di offerta culturali sempre più ampi e diversificati, ma predefiniti e chiusi nelle meccaniche di consumo e di esperienza. Per converso, se decliniamo il concetto di partecipazione nell’ambito del dominio più ampio del quotidiano e della cittadinanza esercitata con forme, voci e dinamiche sociali variegate non possiamo non constatare come i processi in atto siano caratterizzati da un maggior grado di protagonismo e di coinvolgimento delle persone, di auto-organizzazione, di serendipity e imprevedibilità dei percorsi, in cui l’individuo è “l’origine piuttosto che l’oggetto dell’azione” (Zuboff and Maxim, 2002). Anche nell’ambito della cultura (anche se la situazione è sicuramente più fluida e innovativa nell’ambito dei linguaggi e delle pratiche del contemporaneo) occorre riattualizzare il concetto di partecipazione, così come declinare al plurale quello di pubblico.

 

L’Audience Development, nell’accezione più ampia e olistica, non può non considerare il concetto di pubblico come un’entità falsamente monolitica e unitaria che è bene sgretolare e ricategorizzare, laddove possibile, in sottogruppi che siano funzionali a logiche di analisi, strategie di intervento e politiche specifiche.

 

Alessandro Bollo, Richard HadleyAlessandro Bollo, Richard Hadley

 

Se si confrontano alcuni modelli interpretativi (tra gli altri, Bollo, Hadley, Morris Heartgrave McIntyre; si vedano le figure successive) – pur nelle varietà delle scelte terminologiche e nella differente complessità dell’architettura proposta – emergono alcuni elementi di ricorrenza comune:

 

  • una tripartizione di massima tra i pubblici attuali, quelli potenziali e il cosiddetto non pubblico,

  •  

  • la presenza di pubblici centrali (i “coinvolti”) caratterizzati da conoscenza e assiduità̀ e contraddistinti, inoltre, dai bassi “costi di attivazione” nei confronti dell’esperienza culturale, nel senso che il loro coinvolgimento rispetto a una determinata proposta non richiede l’abbattimento di barriere di natura culturale, sociale e percettiva,

  •  

  • un aumento progressivo delle barriere all’accesso e dei “costi di attivazione” man mano che ci si muove dai pubblici centrali a quelli potenziali e al non pubblico,

  •  

  • la consapevolezza che a livello di micro-interventi e di possibilità di azione della singola istituzione si possa principalmente lavorare sui pubblici centrali/partecipanti e sui pubblici potenziali/intenzionali; al contrario gli interventi sul cosiddetto non pubblico/indifferenti rientrano in iniziative più ampie e generali di politica culturale o in progetti specifici indirizzati a quelli che Morris Hargreaves McIntyre chiamano i “resistenti” e i “refrattari” difficili da raggiungere,

  •  

  • se il marketing è prioritariamente interessato a fidelizzare e coinvolgere i pubblici centrali/partecipanti e ad avvicinare i pubblici potenziali, le funzioni educative sembrano avere uno spettro di azione più ampio dedicandosi, a seconda delle finalità e delle risorse, a quasi tutte le categorie previste dallo schema di Morris Hargreaves McIntyre (dal pubblico già coinvolto, a quelli potenzialmente coinvolgibili, ai pubblici difficili da raggiungere).Morris Hargreaves McIntyreMorris Hargreaves McIntyre

 

Una recente ricerca condotta dall’Arts Council of England volta a segmentare la popolazione residente in Gran Bretagna in relazione al grado di coinvolgimento e ai consumi culturali metteva in evidenza come le persone che possono considerarsi pubblici centrali a elevato livello di coinvolgimento rappresentino, nei fatti, solo il 7% dell’intera popolazione; per converso esiste un 27% della popolazione che, pur con caratteristiche diverse, non è coinvolta nella cultura sia come consumo sia come modalità di pratica e di partecipazione. 

 

Estratto da "50 sfumature di pubblico. Le sfide dell'audience engagement" in De Biase F. (a cura di), "I Pubblici dei musei. Audience Development, Audience Engagement", Franco Angeli.

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