Maledici Dio e poi muori! / Massimo Recalcati: il grido di Giobbe

7 Luglio 2021

Giobbe, il protagonista dell'omonimo libro biblico, era un uomo giusto e molto ricco. Aveva terre, figli, moglie, amici, mandrie, denaro e buona salute. Benedetto da tanta buona sorte, non gli era difficile essere anche amico di Dio! Come non benedire con gratitudine chi gli mostrava tanta benevola generosità? 

Troppo facile questa fede, insinua Satana, personaggio che nell'Antico Testamento compare soltanto in questo libro e il cui nome significa colui che si aggira accusando. Allora chiede a Dio che gli permetta di togliere a Giobbe i suoi beni per metterne alla prova la fede e la devozione. Dio acconsente che sia spogliato di tutto, ma non della vita. 

Comincia così la terribile esperienza di Giobbe che rapidamente perde le proprietà, poi i figli, gli animali, gli amici e infine anche la salute. Distrutto da piaghe e dolori che lo rendono ripugnante, insopportabile nei suoi lamenti e nella sua rassegnazione al punto che la sua stessa moglie imprecherà: maledici Dio e poi muori!  E Giobbe cosa farà? Maledirà Dio? Lo rinnegherà, adesso che il suo volto, prima tanto amichevole, si è trasformato in quello di una bestia feroce che lo azzanna e lo tormenta senza ragione? Quale è la giustizia di un Dio che perseguita un uomo buono e innocente? Se è questa la verità di Dio, la vita colpita dal male non può fare altro che sprofondare nell'irragionevolezza e nel caos. 

 

Le questioni messe in campo dalla storia di Giobbe sono moltissime. Massimo Recalcati, psicanalista di fama, sempre interessato e sensibile alla dimensione spirituale dell'esperienza umana, le ha percorse in un libro recente, Il grido di Giobbe (Einaudi), ponendo particolare attenzione al grido di chi, in preda a una sofferenza che gli toglie la voglia di vivere, cerca di dare un senso al suo vissuto. In ogni paziente, afferma, riecheggia il dramma di Giobbe perché la sofferenza umana e la ricerca del senso della vita occupano "il lavoro quotidiano dello psicanalista". E l'amarezza si fa ancora più grande quando a crollare nel baratro è qualcuno che si credeva amico di Dio, perché allora anche il senso della propria fede va in crisi e, come per Giobbe, "la perdita più grave è quella dell'amicizia con Dio." 

 

Pur non entrando in profondità nei diversi temi che emergono nel libro di Giobbe – d'altra parte ampiamente frequentati da scrittori, filosofi, psicanalisti e teologi nel corso di tutto il Novecento, ciascuno secondo il suo punto di vista e la sua sensibilità, a testimonianza dell'archetipicità del personaggio – il libro di Recalcati ha il merito di toccare tutti i più salienti, lasciando al lettore la possibilità di proseguire la ricerca  attorno a quanto più lo interessa o lo tocca grazie a un apparato di note snello, in cui sono citati gli studi recenti più significativi, così che chi vuole possa costruirsi da solo una buona bibliografia di partenza. 

 

Spiegare Giobbe, diceva già il grande san Girolamo, primo traduttore della Bibbia intera in latino nel IV sec. d. C. (Vulgata), "è come tentare di tenere nelle mani un'anguilla…più forte la si preme più velocemente sfugge di mano". Perché, come spiega Recalcati, nel libro di Giobbe non si tratta soltanto della sofferenza umana, ma c'è in gioco molto più: la natura stessa di Dio, il senso dell'esistenza, il rapporto con Dio e la sua giustizia, il cui significato biblico va oltre quello strettamente giuridico a cui siamo più abituati.

 

 

Il termine giustizia rimanda, da un lato, all'interrogativo riguardo a quale giustizia si possa attribuire a un Dio che tollera il male e il dolore degli innocenti. Ma dall'altro, a un livello più sottile, che tuttavia è forse il più significativo dell'intero libro di Giobbe, esprime l'idea di relazione appropriata con qualcosa, di rapporto corretto e giusto, ovvero dignitoso, libero e buono. Nel caso specifico, si tratta del legame che dovrebbe unire l'uomo a Dio, al di là di ogni interesse e remunerazione. Nell'assoluta gratuità dell'amore provato per nessun'altra ragione se non che l'amato ci piace.

 

Per questo è stato detto che nel suo nucleo profondo Giobbe è soprattutto un libro di teologia (G.Ravasi). Il suo protagonista è il simbolo di un rapporto diverso tra l'uomo e Dio, di una  fede che non ha a suo presupposto né convenienza né tornaconto, di una religiosità più matura, possiamo dire più moderna, possibile anche oggi dopo che la Scienza ha finalmente liberato Dio dal ruolo che gli avevamo assegnato di spiegazione causale dei fenomeni, e dopo che la storia e l'esperienza ci hanno disillusi sulla possibilità di dare un senso consolatorio alla realtà del male. 

Erroneamente a lungo ridotto a stereotipo della pazienza, anche per via dell'interpretazione di Giacomo, autore dell'omonima lettera nel Nuovo Testamento, Giobbe è ancora nostro contemporaneo e sodale come figura di chi arriva a comprendere che, sì, c'è un mistero, la vita è misteriosa, Dio stesso è il mistero più grande eppure, e tuttavia, si può gridare a lui nella pena, nella fatica, nell'assurdità.

 

E non solo perché Dio stesso, schierandosi dalla parte di Giobbe contro i suoi amici – non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe –, conferma che è giusto gridare a lui nel dolore, ma anche perché a quel grido egli presta attenzione, anche se non dà risposte convenzionali, come quelle degli amici di Giobbe, che sono soltanto tentativi umani di razionalizzare l'inspiegabile. A ognuno Dio risponde individualmente, con parole pensate solo per lui e che lui solo può capire. 

Allo stesso modo non esiste un solo senso della vita, ma ciascuno scopre da sé quello della sua dando egli stesso un significato e un valore a quello che fa o patisce. E forse sarebbe saggio ammettere che se mai esiste il senso della vita, vero per tutti, va troppo al di là di noi perché possiamo anche solo intuirlo, appartiene al mistero che ci trascende. Sta dunque a noi, alla nostra capacità di rispondere alle circostanze della vita, scoprire quale senso noi stessi vogliamo dare al nostro soffrire; e una volta scopertolo, realizzarlo.  

 

Il libro di Giobbe parla anche della libertà di Dio e della sua dialettica con quella dell'uomo. Tormentato, afflitto, disperato Giobbe resta giusto non perché sopporta con pazienza, ma perché chiede a Dio, pur maledicendo e imprecando, di parlare con lui, di spiegargli ogni cosa. E Dio lo farà, gli risponderà ma non gli dirà quello che lui avrebbe voluto sentire. Giobbe scoprirà che la potenza di Dio "non è la potenza del male ma quella ontologica della creazione"; da qui scaturirà "una nuova visione della Legge", la fine della teologia retributiva e una nuova concezione della fede. 

Ecco allora – conclude Recalcati – che "il problema non è più quello di esigere la giustizia, ma di accogliere la potenza senza confine della creazione, dunque la vita nella sua originaria libertà. La legge di Dio non può sopprimere la presenza della sofferenza perché questa presenza coincide con il carattere contingente dell'esistenza stessa. La sofferenza della vita umana non è più il segno morale della colpa, ma riflette la nostra condizione ontologica, la sproporzione che ci separa da Dio. La sfida disperata di Giobbe si converte, dunque, in un'inquietudine nuova: non attribuire senso al dolore, ma non rinunciare alla vita a causa del dolore." 

Giobbe si chiude la bocca; ora, dice a Dio, ti conosco di persona e non più per sentito dire. Il mistero del male è sempre lì, ma la certezza che Dio lo vede, lo conosce, lo chiama amico gli basta. È questo, forse, il salto nel vuoto, la scommessa della fede. Sì, Dio è un essere sconcertante e il mondo una cosa molto strana, eppure nell'amicizia che spinge un Io verso un Tu c'è spazio per la speranza e la fiducia. 

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