Sulla didattica della fotografia

13 Gennaio 2012

È molto interessante osservare la geografia delle idee fotografiche che si dispiegano in un dato periodo storico. È un esercizio rispetto al quale il mio impegno didattico ha assunto nel tempo un ruolo piuttosto rilevante. Sia che io mi rivolga a studenti universitari che a fotografi o aspiranti tali, spesso mi guida la premessa che ogni fotografia, nel momento in cui elabora un qualche genere di “verità” o di “finzione”, produce al contempo anche un sapere invisibile: non detto,intravisto, uno scarto indietro o in avanti (un “anacronismo”), un rapporto con altre immagini che l’hanno preceduta, con altri punti di vista, altre conoscenze e altri linguaggi.

 

Originariamente, nella storia del medium, questo dialogo inizia con la pittura e con l’ambito delle credenze e dei saperi scientifici formatisi in seno alla cultura positivista; poi si sposta verso la letteratura, la politica, la filosofia, il cinema e le arti performative, la grafica e il design, l’architettura e l’urbanistica, la moda, per confluire oggi in quel sistema strutturalmente interconnesso e dialogante (ma anche fortemente omologante) che è il web.

 

 

Un banco di prova del rapporto strettissimo che si è venuto a creare tra pensiero teorico, didattica e processi ideativi della fotografia è la verifica di come simili questioni, che hanno molto a che fare con tutto il moderno pensiero filosofico della complessità, possano stimolare l’elaborazione di concetti e operazioni fotografiche. Una delle scoperte più rivelatrici che si possono fare insegnando la storia e la teoria della fotografia – con tutto il bagaglio di altre nozioni e metodologie che questo implica – concerne il fatto che le idee fotografiche, le catene di associazioni mentali che presiedono all’elaborazione del pensiero e della cultura della fotografia, si propagano e si ramificano molto rapidamente e, diciamo così, a macchia d’olio, specificandosi, precisandosi, mutando forma man mano che vengono recepite, rielaborate e messe in atto.

 

Riporto qualche esempio tratto dalla mia esperienza quotidiana. Un giorno una studentessa, suggestionata dai discorsi fatti in classe, mi parla confusamente di una sua idea per una serie di ritratti basata sul concetto di “relatività”; in sostanza ogni soggetto dovrebbe essere fotografato insieme a un oggetto da lui scelto tra le sue cose, ma non avente un valore simbolico particolare. Un po’ perplesso, ma convinto della necessità di spingere avanti la discussione, suggerisco in alternativa un’ipotesi di fotografia combinatoria: si parte da una lista concordata di n elementi sia astratti che concreti: oggetti, ambientazioni, posture, stili di inquadratura ecc. Come ci insegna Umberto Eco, il tratto peculiare di ogni lista è di essere potenzialmente infinita, inesauribile; in questo caso essa avrebbe la funzione di circoscrivere un insieme modulare ma invariante di caratteristiche inerenti a tutte le immagini realizzabili. Successivamente, a turno, fotografo e soggetto scelgono un elemento, alternandosi fino alla fine della lista. L’immagine consisterà semplicemente nell’esecuzione del progetto comune negoziato. Molte operazioni contemporanee si basano su analoghi meccanismi di condivisione dell’atto fotografico, che evidentemente cortocircuitano tanto i problemi tecnici quanto la dimensione iconografica dell’immagine, sviluppando idee complesse dove questi due piani, resi inscindibili dalle stesse regole del gioco, si intrecciano con altre logiche culturali.

 

 

Nello stesso periodo un altro studente mi parla di un lavoro sul punto di vista. Vuole rifare, con la tecnica del foro stenopeico, la celebre fotografia di Daguerre del 1838 in cui si vede un uomo – la leggenda vuole che si tratti del primo uomo mai fotografato – intento a farsi lustrare le scarpe all’angolo di una strada. Vorrebbe fotografare la stessa situazione ricostruendola o trovando un luogo simile, ma ripresa da un’altra angolazione, come se sul posto ci fosse stato un secondo fotografo che osservava di nascosto. Anche se ricordo vagamente di aver discusso tempo addietro un’idea simile (il controcampo della stessa immagine come se fosse una soggettiva dell’uomo all’angolo della strada, con Daguerre alla finestra dietro il suo apparecchio a soffietto), reputandola poi una trovata un po’ fine a se stessa, questa variante mi sembra invece ricca di sviluppi. Suggerisco dunque che si potrebbe applicare sperimentalmente a un buon numero di famose icone fotografiche (il miliziano di Capa, la madre migrante di Lange, il ritratto di Dovima di Avedon, il bacio di Doisneau e via elencando). A questo punto però si porrebbe un problema tecnico, con tutte le sue implicazioni progettuali e di linguaggio: perché fotografare col foro stenopeico? E che senso ha utilizzare uniformemente lo stesso procedimento nell’arco dell’intero lavoro?

 

 

Un ultimo caso interessante. Un giovane fotografo che ho conosciuto durante un breve ciclo di conferenze, conclusosi il mio intervento mi parla di un suo particolare approccio all’idea che sia possibile fotografare in digitale secondo schemi di pensiero analogici. (Oggi possiamo vedere molti sviluppi di questa idea). Sostiene con decisione e intelligenza il ruolo fondamentale dell’auto-imposizione di regole. Un esempio è nel metodo delle esposizioni multiple. In digitale occorre preimpostare il numero esatto delle esposizioni e questo costituisce un vincolo per la struttura dell’atto fotografico. Occorrerà infatti eseguire in un dato lasso di tempo, variabile in rapporto al numero delle pose, una precisa sequenza di azioni: uno scatto; l’attesa del tempo necessario alla memorizzazione dell’immagine all’interno della sequenza preordinata; il secondo scatto e così via fino alla fine, in base alle condizioni di luce e di esposizione. Un simile vincolo sarebbe tipico delle forme di pensiero analogiche, e troverebbe in qualche modo riscontro nel fatto che lo stesso genere di operazioni fotografiche in regime analogico effettivamente implica simili, per quanto più imponderabili, vincoli operativi.

 

 

La verifica di simili riflessioni, opportunamente vagliata alla luce delle giuste competenze storiche, genera quasi automaticamente tutta una serie di ipotesi o alternative che hanno immediati riscontri sul piano della teoria, dal momento che illuminano su possibili condizioni di esistenza dell’esperienza fotografica e dei rapporti tra fotografia e realtà (sociale, politica, psicologica ecc.): manifestazioni puntiformi e soggettive oppure multiple, complesse, coordinate, inserite in catene creative, comunicative o produttive. Si ha in qualche modo una percezione condivisa, ravvicinata, del dispiegarsi del senso – e dei molti possibili linguaggi – della fotografia, nei suoi livelli profondi e di superficie.

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