Il semaforo

20 Settembre 2011

 

Il ritorno in città è sempre un po’ triste. Lasciati alle spalle i luoghi di vacanza, si torna a immergersi nella adusata quotidianità. Ma prima ancora di giungere a destinazione, da qualunque parte si arrivi e con qualunque mezzo ci si muova, capita di riaccostarsi ai luoghi noti, di ripercorrere strade familiari e di riattraversare piazze e incroci ben conosciuti. Lo si fa spesso con un misto di curiosità e di fastidio: in parte con un senso di rimpianto per la condizione “festiva” che ci si è ormai lasciati alle spalle, e in parte con un senso di riscoperta di ciò che ci è noto, che in una certa misura ci “appartiene”, ripassato però attraverso quello sguardo “nuovo” che la conoscenza di luoghi a noi in precedenza sconosciuti porta immancabilmente con sé.

 

Quest’estate sono stato a Istanbul. Una città straordinaria, dove colpevolmente non ero mai stato prima d’ora. Ma non è di questo che intendo parlare. A Istanbul – una città che si potrebbe (erroneamente) ritenere meno “moderna” ed “evoluta” di Milano – i semafori danno conto a conducenti e pedoni della durata del rosso, ovvero del tempo che manca allo scattare del verde. Lo stesso semplice “congegno” mi era già capitato di vederlo a Lisbona, e da qualche altra parte in giro per l’Europa e per il mondo. Niente di sconvolgente o di rivoluzionario, dunque, bensì soltanto un piccolo segnale di “intelligenza” del semaforo, questo strano oggetto che popola le nostre città e ai cui muti ordini obbedientemente ci conformiamo (più o meno) tutti.

 

A Milano i semafori, da quando ne ho memoria a oggi, sono proliferati in modo prodigioso. Forse più della stessa popolazione della città, in proporzione – anzi, sicuramente più di questa. E nonostante la loro proliferazione, la loro occupazione di quasi ogni strada e incrocio, nonostante la loro crescita dimensionale (i semafori nel corso del tempo sono diventati più grandi, sono diventati più alti e ingombranti, e ora di sovente sovrastano gli incroci), nonostante tutto ciò i semafori milanesi non sono diventati più intelligenti. Se non si vuole prendere come un segno di intelligenza l’applicazione, a un numero sempre più consistente di essi, di quell’“occhio” elettronico finalizzato a controllare gli incroci e a registrare le immagini in caso di incidenti, e più prosaicamente a multare chi passi col rosso.

 

Quando ho cominciato a frequentare Budapest era l’anno 1980. Già allora – ricordo – sulle lunghe e larghe strade di accesso alla capitale ungherese erano distribuiti semafori che, anziché limitarsi a segnalare agli automobilisti la possibilità di transitare o imporre loro l’arresto, “consigliavano” la giusta velocità di guida per evitare di doversi continuamente fermare con il rosso. Mantenendo una velocità variabile tra i 60 e i 70 chilometri all’ora, ci si trovava davanti un’infinita infilata di semafori verdi. Il paradiso dell’automobilista!

 

Nei giorni scorsi, facendo ritorno in città dopo le mie vacanze turche, ho rincontrato per l’ennesima volta gli ottusi semafori milanesi. Li ho “rivisti” con quello sguardo lievemente diverso, sottilmente sensibilizzato alle cose-così-come-sono, e non opacizzato, reso cieco dalla consuetudine; ne ho ricompreso la stupidità da oggetto meccanico, elementare, isolato, privo di ogni capacità di “comprensione” della realtà urbana, privo di ogni facoltà di leggere la complessità stradale, privo di ogni dote di sincronizzazione, e mi sono domandato: fino a quando? Fino a quando a Milano dovremo andare avanti a fermarci a ogni strada, a ogni incrocio, ogni cinquanta o cento metri, anche lungo i grandi viali “di scorrimento”? Fino a quando Milano non sarà illuminata dal triplice barlume di un’intelligenza?

 

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