Speciale

Rivoltare il grattacielo

17 Novembre 2014

«Nell'ora che seguì, Royal continuò a cercare la moglie, scendendo sempre più in profondità nella zona centrale del grattacielo. Mentre passava da un piano all'altro, da un ascensore all'altro, scopriva fino a che punto fosse arrivato il deterioramento dello stabile. La rivolta degli abitanti era al culmine. Attorno agli scivoli intasati giacevano montagne di rifiuti. Le scale erano sommerse di vetri rotti, sedie di cucine ridotte in pezzi e tratti di ringhiera. […]

Più scendeva e più gravi erano i danni: le porte antincendio scardinate, le finestrelle di controllo al quarzo sfondate.»

J. G. Ballard, Il condominio, Feltrinelli, Milano 2009, p. 96.

 

Nella sovrapposizione tra biopolitica e architettura fino alla loro coincidenza, lo scrittore di fantascienza J. G. Ballard situa la rivolta. Nelle pagine de Il condominio, essa esprime il tentativo di spezzare quel vincolo che stringe il singolo alle sue condizioni di esistenza. Questa rivolta grida di farla finita innanzitutto con il dispositivo architettonico, quindi con le imposizioni sorte dallo spazio circostante: se qui avviene una cattura e un addomesticamento della vita dell'abitante, allora la rivolta è il gesto volto a disarticolare la propria forma-di-vita, facendo perno sull'ambiente, rivoltandolo, così da rivoltare anche se stessi.

 

In molti romanzi di Ballard, l'architettura contemporanea di piccoli villaggi turistici sorti dal nulla, grattacieli, reticoli autostradali, aeroporti e centri commerciali, quartieri residenziali isolati e quasi autosufficienti, è scossa da una rivolta inaspettata ed esplosiva, che ha le proprie radici nella normalità e nella quotidianità della vita vissuta in simili luoghi da una classe media annoiata e insoddisfatta. Questi spazi, ideati e progettati con un occhio di riguardo per la tecnologia e la sicurezza, generano un ambiente che non si può certo definire neutrale, e la rivolta che ne squassa il ventre di ferro, vetro e cemento, non si scatena inspiegabilmente, né per una disgrazia. Gli edifici non ne sono semplicemente lo scenario, né lo sfondo o il paesaggio di contorno: la disgregazione che si espande in queste strutture, erodendole dall'interno, è diretta proprio contro queste stesse architetture.

 

Questi edifici risultano colmi, saturi, tanto nello spazio quanto nel tempo, e riempiono così anche le vite degli abitanti; chi vi si è adattato risulta integrato nell'architettura stessa, replica il luogo e il suo stile di vita, tra accettazione e consenso. Gli appartamenti de Il condominio sono tutti occupati, e nel Metro-Centre di Regno a venire, cattedrale commerciale in cui il consumismo muta pericolosamente verso forme inedite di fascismo suburbano, «il tempo e le stagioni, il passato e il futuro erano stati aboliti». Come i ragazzini di Un gioco da bambini, rinchiusi in una gated community al cui interno si consuma una mattanza, tutti conducono «un'esistenza molto ordinata», organizzata in modo tale da risultare tranquilla e priva di turbamenti, in luoghi chiusi tanto rispetto all'esterno quanto all'interno, in bunker che si rivelano prigioni. «In senso stretto, la vita in quei luoghi era “priva di eventi”».

 

Espellere il turbamento e pacificare l'abitare, permettere una vita confortevole senza scossoni: la ricerca di un simile comfort rende lo spazio inabitabile e ostile, come se dagli spazi claustrofobici e dalle architetture totalitarie dello scrittore inglese non potesse che ritornare e proliferare ciò che si sperava di rimuovere. La rivolta sarebbe allora il risultato di una contrazione, di una chiusura che non lascia linee di fuga alternative. Non si è in presenza di alcun disegno strategico, ma di una sorta di risposta immediata e inevitabile: «Quelle strutture a torre e a lastrone avevano subito la piaga del vandalismo fin dall'inizio. Ogni pezzo di apparecchio telefonico strappato, ogni maniglia divelta da una porta antincendio, ogni contatore elettrico sfondato a calci rappresentava un appello contro la decerebrazione.» (Il condominio, p. 58). Gesto cieco e forse insensato, mosso da istanze profonde, che si sottrae a ogni idealizzazione: è «un estremo tentativo di ribellione […] contro il diffondersi di tale logica», estremo nella forza e nell'urgenza, contro uno spazio che genera e mantiene l'assoggettamento.

 

J. G. Ballard, Il condominio

 

Più che una vera e propria distruzione sistematica dello spazio e delle architetture, il tentativo alla radice della rivolta è forse quello di ristrutturare diversamente l'ambiente circostante, disgregandolo e rimontandolo secondo una nuova fisionomia che, nei romanzi di Ballard, è costituita da barricate, trappole, caverne e rifugi. Mentre è smembrato dall'interno, pezzo per pezzo, il dispositivo architettonico è oggetto di una forzata riconversione. Così, limitata tanto dalla propria forma-di-vita quanto dall'ambiente circostante che decide il modellarsi di questa, la scommessa della singolarità in rivolta sembra essere quella di agire proprio sullo spazio opprimente, iniziando una ristrutturazione volta a creare le condizioni adatte perché un'esistenza alternativa possa vivere, perché ciò che eccede la forma-di-vita attuale possa esprimersi.

 

La rivolta che scuote le fondamenta dei dispositivi architettonici manifesta tutt'altro che una semplice violenza cieca. Ma se è ammissibile che la rivolta possa risultare una sorta di ampio respiro contro il soffocamento dato da un'architettura opprimente, un intreccio di resistenza e libertà, non è solo sul versante di un inspirare liberatorio, e pur sempre distruttore, che Ballard insiste, esponendo invece anche i limiti di una rivolta nata da pressioni spaziali, da contrazioni urbane. È la versione idealizzata, l'elogiata spontaneità del gesto, che cede di fronte alle ambiguità portate dalla rivolta stessa. La trama architettonica favorisce l'emergere di una rivolta istintiva e impulsiva, anonima e impersonale, che con decisione si scatena contro i dispositivi più direttamente influenti, ma c'è anche un altro aspetto.

 

Le soggettività in rivolta si conoscono e si riconoscono, si raggruppano, si fanno portatrici di identità ben marcate sulla pelle e sui vestiti, imparano i codici e il linguaggio di appartenenza, i nomi dei propri clan, formazioni e leader, e sperano nei propri messia. Non è una questione di suddivisione in tempi, di periodizzazioni della rivolta, perché è in ogni istante che la spontaneità anonima di questa risulta esposta alla cattura. Nonostante tutto, le soggettività rivoltose sono esposte alla cattura, in qualche modo disponibili alla presa, alla direzione e all'ordinamento; un'incapacità e un'impossibilità di sfuggire a questo intruppamento offerto a chi appare sradicato.

 

Questa è l'ombra che Ballard lascia calare sulla rivolta sorta spontaneamente negli spazi urbani, nei contesti abitativi e quotidiani. E non si tratta della violenza, del crimine, della trasgressione, degli aspetti cupi che nessuna luminosità potrà spazzare via. È l'ombra che incessantemente pesa su ogni rivolgimento di un dispositivo biopolitico e architettonico dall'interno, erosione di ciò circonda e contiene, opprime e costringe. La rivolta convive con questo suo rovescio, e in ogni istante essa stessa si rivolta.

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