Note non ortodosse di Carmine Cimmino / Baccalà, stocafisso, bagnacauda

16 Maggio 2016

Che legame può esserci tra un saggio che esamina la diffusione e la tradizione del baccalà sulle pendici vesuviane – Note di storia del baccalà nella dieta vesuviana e napoletana di Carmine Cimmino (Dante & Descartes) – e un piccolo grande libro come Il Salto dell'acciuga di Nico Orengo (Einaudi), ormai quasi un classico della letteratura a sfondo gastronomico ?

 

La comune vulgata televisiva, così come il giornalismo enogastronomico  più superficiale e parte dell'immenso arcipelago internettiano, vogliono la "dieta mediterranea" costituita da alimenti quasi totalmente vegetali, dove pasta e pomodoro predominano insieme all'olio di oliva, al vino (preferibilmente rosso) con l'eccezione del pesce in quantità. Poco indietro le carni bianche, le lattughine e la rucola, i broccoli e poi in genere frutta e verdura colorata di rosso-blu, ovvero i colori degli antiossidanti, della dietetica versione 2.0, delle mode alimentari...

Una dieta mediterranea appunto "alla moda", rivisitata si potrebbe dire se si trattasse solo di una ricetta del territorio, in realtà ampiamente ricca di imposture, eppure largamente accredita e ortodossa, almeno rispetto ai gusti e alle convinzioni odierne.

 

Dunque le imposture... ma anche le sorprese, se si ricostruisce dalle fonti originali l'alimentazione delle generazioni passate almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso. In seguito  i mutamenti economici e sociali renderanno la dieta mediterranea via via ricordo, folclore, eccezione...

Le imposture e le sorprese: tra queste ad esempio la realtà del basso consumo di pesce fresco e il prevalere di quello conservato,  l'impiego di ortaggi e legumi di ogni tipo, il basso a volte bassissimo consumo di pasta secca e di vino, il sempre scarso "companatico", solo per citare le differenze più evidenti rispetto al "mito" dato per certo ai nostri giorni. Basterebbe scorrere con pazienza alcuni dei circa venti volumi dell'Inchiesta Jacini, la monumentale opera  (1878-1885) sulle condizioni della classe contadina voluta dal Parlamento italiano all'indomani dell'unità nazionale.

 

 

Fernand Braudel ha definito piante da civiltà quei vegetali intorno alla cui produzione e consumo si sviluppano e prosperano intere popolazioni. È stato il caso del grano, del mais e del riso rispettivamente per l'Europa, le Americhe e l'Asia, oppure della "triade" grano, olivo, vite  per i paesi mediterranei. "Presenze vegetali" intorno alle quali è ruotata  larga parte dell’esistenza delle generazioni passate, ben dentro la lunga stagione della società contadina.

Se si cercassero analoghe significative presenze nel mondo animale potremmo trovarle solo nel maiale le cui carni conservate legano in un unico modello area mediterranea e nord Europa. Non i bovini, presenza alimentare comune nel Mediterraneo solo con gli anni del benessere; non completamente  il pollame o gli ovini; tantomeno carni quali il coniglio  (oggi quasi sacrilegio per un animale in odore di "pet"), un tempo importanti in ridotte enclave come la Liguria.

 

Se si lasciano gli animali da allevamento, sorprendentemente, alcuni presenze animali vengono tuttavia a rivestire il ruolo di "risorse alimentari da civiltà", in grado di coinvolgere l'economia nella produzione e nel trasporto, la cultura nella preparazione, nella cucina, nelle consuetudini, nei riti.

È il pesce salato e conservato – ben più di quello fresco – che è stato ingrediente dell'alimentazione mediterranea "diffusa" che dalle coste arrivava fino alle pendici appenniniche e non solo nelle "terre del sole", come  la vulgata odierna spesso tende a farci credere.

Il pesce salato e conservato è stato ingrediente comune ben più di quello fresco innanzitutto per ragioni storiche e tecnologiche. Fino allo sviluppo della ferrovia e alla scoperta e all'utilizzo dell'energia elettrica (tecnologia del freddo), in pratica fino ai primi anni del XX secolo,  il pesce fresco era difficilmente trasportabile e poteva arrivare ben poco distante rispetto ai luoghi della pesca. È stata la sua deperibilità che ne ha limitato "da sempre" il consumo generale. I tempi dell'orata al sale erano ancora da venire e sulle povere mense delle popolazioni mediterranee erano le acciughe, le sarde, le aringhe, lo stoccafisso e il baccalà le più comuni e al tempo stesso rare  fonti proteiche.

 

Sì, perché il pesce conservato – sotto sale o essiccato – poteva essere trasportato lontano dai luoghi di pesca e raggiungere qualunque luogo dove salisse una mulattiera. È stato questo il vero minimo comun denominatore tra i companatici della regione mediterranea insieme ai latticini e ai sempre centellinati salumi. La geografia e le consuetudini locali facevano propendere la preferenza tra i diversi tipi di pesce, ma almeno dalla seconda metà del Cinquecento, il merluzzo essiccato (stoccafisso) o salato (baccalà), è stata la specie più diffusa e consumata. Lo stoccafisso e il baccalà insieme alle più "nobili" acciughe di origine mediterranea – e alle aringhe anch'esse di origine nordica – sono stati parti importanti di un alfabeto alimentare durato secoli, inevitabilmente parte di un orizzonte esistenziale di moltissime comunità.

 

 

Nico Orengo nel suo Il Salto dell'acciuga (Einaudi) ha raccontato la storia di un alimento al confine tra Piemonte e la Liguria di Ponente. Una storia che ha in una salsa, la bagna cauda, una sintesi geografica e culturale tra mari e monti (l'altro "lato" necessario del Mediterraneo secondo Braudel), lungo le antiche vie del sale e in compagnia di mestieri dimenticati. La bagna cauda, salsa a base di aglio, olio di oliva e acciughe è solo nominalmente specialità piemontese ma in realtà autenticamente mediterranea, sintesi dei due lati del Mediterraneo, il mare e i monti e in mezzo moltitudini nomadi  che nelle acciughe e nel sale traevano di che sopravvivere in viaggi periodici che diventavano il loro vivere e racconto per chi restava.

 

Ma il pesce conservato che più di ogni altro è stato "alimento di civiltà " è sicuramente il merluzzo. Dai mari del Nord il baccalà e lo stoccafisso arrivavano in Italia e in larga parte d'Europa, merce per le vie ed i trasporti, companatico per le genti, ingredienti per le cucine. Non esiste un libro che come quello di Nico Orengo abbia raccontato contemporaneamente  l'economia e la poesia del "pesce bastone" (sia baccalà che stoccafisso rimandano nell'etimologia al concetto di bastone), ma sono infiniti i piatti e  le ricette a base di questi ingredienti, infinite dunque le "testimonianze vive" della loro importanza e numerosi i saggi che hanno raccontato la loro storia. In Note di storia del baccalà nella dieta vesuviana e napoletana si può trovare ad esempio molto più della storia interessante e puntuale della diffusione di un consumo qui peraltro "affacciato sul mare". È anche una ricostruzione di un rapporto con una risorsa la cui validità può essere estrapolata ad altre regioni e altre realtà; note sì napoletane e vesuviane ma verrebbe da dire, solo incidentalmente, perché hanno inizio in Norvegia, passano dai Paesi Baschi e da Genova e almeno idealmente da tutti i porti e le mulattiere d'Italia, da quasi tutti i ricettari regionali. 

 

L'alimentazione mediterranea  non c'è più. Uccisa dai mutamenti economici e sociali, resiste nelle conoscenze e nelle intenzioni più che nelle tradizioni. 

Resiste in conoscenze e intenzioni comunque benedette se portano ad una consapevolezza lontano da ogni mistificazione, lontano da ogni moderna semplificazione.

Lasciamo pure gli Atti delle Giunta per l'Inchiesta Agraria di Stefano Jacini  nei fondi antichi delle biblioteche, ma possono bastare anche solo due libri per ritrovare qualche elemento di verità. 

 

Del resto, spesso la verità non è ortodossa, almeno non solo.

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