Oggetti d’infanzia | Subbuteo

14 Novembre 2012

L’oggetto decisivo della mia infanzia, a pensarci adesso, è stato il Subbuteo, ovvero quel gioco del calcio in miniatura che in seguito è stato scalzato dai videogames. Il Subbuteo a volerlo spiegare è semplicissimo: un panno verde faceva da campo (spesso fissato a un tavolo di compensato con delle puntine da disegno - e chi voleva essere molto elegante e attento ai particolari sceglieva delle puntine verdi, cioè dello stesso colore del panno che a sua volta richiamava l’erba del prato), le porte, due squadre di giocatori e un pallone.

 

Che sia stato un oggetto decisivo lo dico adesso perché a ripensarci io a Subbuteo ci giocavo quasi sempre da solo. Le partite che preferivo erano quelle in cui tenevo tutt’e due le squadre, la mia e quella avversaria. Cercando di essere più imparziale possibile, guidavo a suon di tocchi dell’indice destro sia i giocatori amici che quelli nemici. Impersonavo, se si vuole, sia i buoni che i cattivi, sia il bene che il male. E trovavo motivi di godimento sia quando giocavo per i miei che quando giocavo per gli altri: nel primo caso c’era la voglia di segnare, magari il goal decisivo all’ultimo minuto; nel secondo c’era il piacere, forse sottilmente perverso, di schierarsi per la parte avversa senza perdere di vista l’imparzialità.

 

Oltre che giocare mi guardavo giocare: difatti ero anche il telecronista che seguiva l’andamento della partita cercando di essere, anche in quel frangente, molto obiettivo (benché ovviamente accorato). Mi capitava di perdere giocando da solo? La risposta è sì, mi capitava spesso. Questo perché più della prestazione agonistica, più del risultato finale, mi piaceva gustare l’andamento melodrammatico della sfida, il suo farsi narrazione emotiva. Vincere sempre, solo per il mero fatto che giocassi da solo, sarebbe stato uno schema narrativo troppo prevedibile. Non ci sarebbe stato gusto e tutto il pathos si sarebbe ridotto a una gara sportiva truccata. Invece quelle partite semmai erano artefatte, cioè messe in scena, interpretate su copioni che cambiavano di volta in volta.

 

 

Sarà anche per quello che mi appassionavo al contesto: ricordo perfettamente lo struggimento e l’emozione di vedere le alterazioni del campo causate dalla luce che entrava dalla finestra del salotto (tenevo il Subbuteo sopra il grande tavolo da pranzo che utilizzavamo solo per le feste comandate). Quando fuori pioveva, per me pioveva anche sul terreno di gioco. Il prato si inzuppava d’acqua e i giocatori diventavano fallosi e si sporcavano di fango. Nelle giornate di sole, al contrario, potevo quasi sentire il profumo dell’erba appena tagliata. Poi c’erano le notturne, quando giocavo di sera e il campo poteva essere illuminato dal grande lampadario al centro del soffitto - di norma per le partite importanti, le finalissime -, oppure da una più modesta abat jour - per le gare non di cartello, o per le fasi eliminatorie. A volte fabbricavo delle sottili strisce con la carta igienica che disponevo dietro le porte, come se le avessero gettate dagli spalti le tifoserie, simulando un’atmosfera da partita sud americana (usavo persino i coriandoli del carnevale).

 

Insomma quel panno non è mai stato un mero rettangolo lanuginoso sopra cui fai scorrere una pallina, ma il supporto di una liturgia e quindi di un testo. Le rare volte in cui veniva a trovarmi un compagno di scuola invece mi divertivo meno. Mi rendevo conto che ciò che contava, sia per me che per l’amico, era di sopraffare l’altro. Non riuscivo ad appassionarmi a quelle gare muscolari, a quell’esibizione di destrezza in punta di dito. Ero negato con il Subbuteo, a dirla tutta. Non mi sono mai riusciti i tiri a effetto. Non sapevo imprimere alla pallina il giro, battere le punizioni alte, infilare il portiere con dei pallonetti.

 

Tutte le cose strettamente tecniche m’interessavano meno della gioia della vittoria e del dolore della sconfitta, e giocando con un avversario in carne e ossa ero costretto a sposare un unico, avvilente punto di vista. Ero destinato – condannato - all’esultanza o all’imprecazione. Non avevo la possibilità di capire le ragioni altrui. Insomma il Subbuteo, mi pare adesso con ogni evidenza, è stato un lungo apprendistato, una specie di palestra per la scrittura.

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