Peonie

24 Aprile 2016

A tal punto preziose che nel IX secolo il poeta cinese Po Chü-i poteva scrivere: «per il fiore più bello cento pezze di damasco;/ per il fiore mediocre cinque pezze di seta». Ma un giardino senza un albero di peonie (Paeonia suffruticosa) è come una bella donna cui l’amante spilorcio non abbia regalato il gioiello più raro e lucente.

Privilegio di pochi, essenza d’imperiali verzieri, in Europa sono giunte dal lontano oriente solo sul finire del diciottesimo secolo quando, non senza difficoltà, s’è dato avvio alla coltura e all’ibridazione.  

 

 

Belle in boccio, ch’è gonfio e turgido, bellissime al dispiegarsi stropicciato dei petali, talora unghiati a contrasto con la ricca tavolozza cromatica che offre il bianco più candido, il rosa più confetto, il porpora e il viola più profondo; e ve ne sono pure di gialle, albicocca e – si favoleggia – di blu.  

Esagerato è il fiore di peonia che può raggiungere i quindici, finanche venti centimetri d’ampiezza, in un giro di petali semplice o doppio, o follemente stradoppio. Le grandi sontuose corolle, soavemente profumate e aperte su un bottone di stami dorati, sono uno splendore che dura un battito di ciglia, ma è l’attimo fuggente della perfezione, il fremito di un’intuizione luminosa. 

Ciò detto, il corrispettivo poetico della peonia arbustiva è l’haiku, con il volgere breve dei versi, la parola che sboccia sul silenzio e subito vi ricade, l’aura di sospesa, incantata meraviglia, di «vago mancamento» (Zanzotto) sull’orlo di un’inaspettata donazione. Eccone tre dei miei prediletti: 

 

 

 

Boten ichiben ichiben no ugoki-tsutsu

Hiraki-tsutsu sugata totonou

 

Peonia,

             petalo a petalo

                         palpiti,

             ti apri,

     ti ricomponi

(Ogiwara Seinsensui) 

 

botan shiroshi

ninrin wo toku

 me hanateba

 

  Se poso lo sguardo

sulle peonie candide,

    parlo di morale

(Iida Dakotsu)

 

 

   botan wo

ikete okureshi

   yuge kana

 

Mentre sistemavo 

le peonie nel vaso,

la cena ha tardato.

(Sugita Hisajo)

 

Possiamo sfidare l’effimero, prolungarne la meraviglia, allogandole a mezz’ombra, giocando con varietà precoci e tardive; poi, fino all’autunno, rimangono le foglie pur attraenti nelle trame sfrangiate o seghettate, leggere o folte, dal chiaro verde al bronzo. Oppure, per non avere aiuole sguarnite, possiamo mescolarle ad altre erbacee dall’apparato radicale non invasivo: lupino, nepeta, delfino, geranium. 

 

 

 

Vita Sackville-West esorta a non confonderle con le peonie erbacee, presenze fisse dei vecchi giardini e orti di campagna. Vigorose sugli steli eretti, certo paiono meno eleganti e raffinate delle arbustive, ma l’incontro su un pendio subalpino con un’autoctona paeonia officinalis è emozionante. Conosciuta fin dall’antichità per le virtù medicamentose – si credeva rimedio portentoso contro l’epilessia – deve il suo nome a Peone che con le radici guarì Plutone dalle ferite di Ercole. 

A riscattare le plebee peonie erbacee, l’indimenticabile scorcio crepuscolare sul giardino domestico nel refrain pascoliano di Casa mia (1903):

 

S’udivano sussurri

cupi di macroglosse

sulle peonie rosse

 

e sui giaggioli azzurri.

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