Inequilibrio 2020 / Figure dell’apocalisse, con un omaggio a Giacomo Verde

18 Settembre 2020

Il 13 settembre 2020, su coordinamento di Giuliano Scabia, il festival Inequilibrio ha allestito la veglia-spettacolo pubblica Giacomo contastorie. Veglia affettuosa per un amico, nell’anfiteatro antistante al Castello Pasquini di Castiglioncello. L’evento è organizzato in memoria della vita, dell’arte e della morte di Giacomo Verde. Uomo dall’indole gentile, di natura semplice e dal temperamento giocoso, come è emerso da alcuni recenti ritratti postumi (per esempio quello scritto da Massimo Marino), egli fu soprattutto artista straordinario. Nei suoi circa cinquanta anni di attività, Verde lavorò prima come musicista e cantastorie di strada, poi si dedicò a un’altra forma di espressione artistica, di cui fu forse persino primo ideatore e pioniere. Si tratta del «video-racconto» o del «video-teatro», che unisce le tecniche della narrazione tradizionale, ossia dell’attore che recita con parole e oggetti, alla ripresa simultanea dell’azione performativa su handicam, collegata a un piccolo televisore.

 

Ph. Antonio Ficai.


Allegrie di illusioni 

 

A rendere omaggio all’artista sono stati il figlio Tommaso Verde e gli amici, parte dei quali erano visibili, altri invisibili. I primi annoverano il già citato Giuliano Scabia, Gianfranco Martinelli e Renzo Boldrini, che alla fine della veglia pubblica riceve il coloratissimo telone di contastorie che appartenne a Verde e si stagliava sul fondo del palcoscenico. Tra gli amici invisibili dell’artista, vanno invece distinti quelli che lo hanno salutato attraverso un contribuito video a distanza (Sandro Berti, Carles Cañelas, Leo Bassi, Roberto Mantovani), e quelli che purtroppo non ci sono più, rappresentati simbolicamente da alcune sedie vuote. Non solo i vivi erano così presenti in scena per ricordare Verde. Secondo la strana magia che solo il teatro riesce a evocare, i morti avevano fatto in tempo ad aggregarsi al corteo amichevole e a dare l’ultimo saluto a un caro estinto.

Dal punto di vista più squisitamente tecnico, Giacomo contastorie è in sé una raccolta di pochi selezionati frammenti di vita e arte, riuniti in un’unica immagine composita. Come avverte suo figlio proprio all’inizio della veglia, pertanto, l’omaggio restituisce solo un’oncia del profilo umano e artistico di suo padre, o meglio delinea i contorni di un mistero indecifrabile. Il poeta Montale scrisse in un verso che «occorrono troppe vite per farne una». Lo stesso principio può essere applicato al caso di Verde, se non in generale per ogni essere umano. Occorrerebbero troppe vite e troppi spettacoli per capire un artista, forse non basterebbe un’eternità. Purtroppo, questo tempo eterno e queste molte esistenze ci sono negate, sicché si è votati sin dall’inizio allo scacco, all’impressionismo e al fallimento.

 

Giacomo Verde.


Il termine “veglia” può d’altro canto far pensare immediatamente a un omaggio fosco e venato di tristezza, in cui è il pianto a sopraffare i cuori e le menti. Di certo il suo allestimento non manca di elementi tristi. Sia il figlio Tommaso sia gli amici di Verde non potevano del resto tacere gli elementi bui della sua biografia umana e artistica, quel “nero” a cui nessun vivente che suda sotto il sole può sperare di sfuggire. L’insistenza va qui soprattutto alla lotta giovanile contro la povertà e, negli ultimi anni, alla sopportazione del cancro che portò Verde alla tomba, da cui sarebbero nate le intime confessioni del cosiddetto “quaderno dei malanni”. Non a caso, lo stesso Scabia apre la veglia con un delicato invito agli spettatori di lasciarsi andare al piacere delle lacrime, qualora fosse questo il loro autentico sentimento dominante: «se vi viene da piangere, piangete pure, è così la vita…».

C’è però anche un’altra esperienza che può essere associata alla veglia. Si può vegliare fino a notte fonda, persino oltre l’alba, per lo scopo contrario: non per piangere e disperarsi, bensì per ridere e gioire. La memoria di Verde ha infatti fornito anche l’occasione di riflettere con gli spettatori di vita e arte, di ricordare come dalle pigre conversazioni estive di Verde coi membri del collettivo SuperAzione nacque l’improbabile poeta scandinavo “Giak Verdun”, o persino di riscattare in meglio gli aspetti “neri” della biografia del defunto. Attraverso la loro espressione poetica e teatrale, la veglia li ha fatti anzi diventare fonte di piacere collettivo e di virtù etica. Si è potuto raccontare, in particolare, come Verde riuscì a mantenere alto il buonumore e la creatività nonostante la malattia. Dal suo fosco quadernetto di memorie intime sarebbe nato, infine, per un processo di sublimazione, il suo ultimo video-racconto: il Piccolo diario dei malanni, di cui esiste una ripresa integrale a cura del Teatro di Roma

 

https://youtu.be/VY4Kc1Gy8T4

 

Una delle scene forse più spiazzanti e divertenti si trova tra i minuti 2:46 e 5:08, in cui l’artista scoprirebbe il segreto della vita tagliando in due metà una mela. Il frutto spezzato in due parti simmetriche mostra che, al suo centro, il seme lascia la forma di una stella a cinque punte, o il simbolo della vitalità immortale e suprema.

Per quanto suoni paradossale, la veglia funebre è allora in realtà la maschera visibile di un gioco invisibile. L’omaggio che il figlio Tommaso e gli amici vivi o morti danno a Verde è un sostare in allegria in una sottilissima linea di confine: quella che separa le miserie della vita e la pace che porta con sé la morte, la gioia che riscatta e il dolore che opprime, la prosaicità umana e le illusioni dell’arte. Sono però soprattutto queste ultime che determinano, forse, il carattere giocoso della veglia pubblica e teatrale. Avrebbe del resto potuto l’uomo Verde sopportare con serenità i propri malanni e interpretarli come materia creatrice, se non fosse esistito il Verde artista? O più nello specifico, sarebbe questi riuscito a suggerire, con un sottile inganno (perché di questo si tratta), che il segreto della vita dorme dentro un torsolo di mela, se a guidarlo non fosse stata una potente immaginazione?

 

La risposta che mi sembra di poter dare a entrambe le domande è negativa. Senza le illusioni del teatro, non sarebbe potuta scaturire, dal puro neutro della veglia funebre, la supremazia della gioia sulla tristezza, né la morte sarebbe potuta diventare un gioco esaltante per i vivi.

Entro tale prospettiva, si può allora proporre che l’opera e l’attività di Verde – aldilà dell’amichevole omaggio sia di amici che di parenti – rappresentano una dimostrazione esemplare del principio che la poesia e l’arte superano di gran lunga la nuda vita. Se quest’uomo ha potuto ridere fino alla morte, è stato perché ha potuto trarre allegria dalle sue illusioni. Lo spettatore può così tentare di seguirne l’esempio per vivere meglio: illudersi di più tramite la magia del teatro, in modo da potersi intristire di meno.

 

Installazioni Viventi, Piergiuseppe Di Tanno, ph. Antonio Ficai.


Figurare l’apocalisse «Istallazioni viventi»

 

Giacomo contastorie ha narrato la cronaca della “fine” del mondo piccolo per dimensione, ma grande per qualità e importanza, di Giacomo Verde. Una settimana prima, stavolta sulle colline limitrofe a Rosignano Marittimo, gli spettatori del festival Inequilibrio hanno incrociato quattro visioni che preannunciano l’apocalisse di un altro cosmo.

All’alba, una bambina dal vestito nero inamidato accoglie una decina di spettatori appena svegli, con gli occhi ancora impastati di sonno e la mente incapace di formulare un pensiero articolato, cui chiede dolcemente, quasi in un sussurro: «È questa la fine del mondo?». Quindi accompagna i semi-dormienti davanti a una satiressa su alti tacchi, che incespicando lungo i crinali delle colline livornesi guida a sua volta il gruppo nei pressi di una cascina. Non lontano da qui, un uomo dorato scava una fossa dentro cui piantare un albero, accanto a un cavallo che mangia pacifico e indolente le foglie di un piccolo leccio. Ore dopo, questi spettatori si radunano intorno alla stessa cascina per assistere a un’altra apparizione: un angelo caduto che si strappa i capelli rossi e getta a terra l’unica ala rimastagli, per poi tirare un sospiro di sollievo e addentrarsi nel bosco limitrofo. Sulla strada del rientro, il gruppo incontra quella che sembra essere una ninfa dei boschi, che intona un lamentoso e insieme gioioso inno alla “Madre Natura” – un organismo che genera e accoglie le spoglie di ogni cosa, grembo dei piaceri e sepolcro di tutti i viventi. Infine, sopra un altipiano, gli spettatori ascoltano una muta liturgia di un anziano sacerdote. Egli si muove con passo lento ma solenne e, nel mentre, risuonano da un registratore espressioni suggestive e dal senso segreto («Funzione generativa delle perdite», «Infanzia come festa animale», «Rugiade e braci», «L’intraducibilità della pietra»).

 

Istallazioni viventi, Alessandra Cristiani, ph. di Daniele Laorenza.


Responsabili di queste evocazioni sono due donne e due uomini: Alessandra Cristiani, Ilaria Drago, Marcello Sambati, Piergiuseppe Di Tanno. Inequilibrio ha infatti demandato al quartetto artistico il compito di costruire delle «istallazioni viventi» che cercassero di catturare l’essenza invisibile della natura circostante il paese di Rosignano-Solvay e di tradurla in forma drammatica visibile. Malgrado le quattro creazioni abbiano dunque caratteristiche uniche e personali, esse formano in realtà un’unica opera: sono piccole visioni che nutrono una visione grande, quattro fantastici miraggi dentro a un sogno più vasto.

Potremmo attardarci a lungo su ciascuno di questi tableaux vivants: provare a cogliere i significati reconditi che forse essi contengono, dare parola alle passioni che destano negli spettatori, o rintracciarne la genesi e l’andamento ritmico. Ma ha senso decodificare e ragionare su una visione? Nel momento in cui il linguaggio spiega un sogno, la visione onirica in sé svanisce, perché diventa qualcosa di concreto e perde quel che essa ha di peculiare: le zone opache e incomprensibili, che stimolano tanto più l’immaginazione, quanto più appunto non si capiscono. L’analisi razionale-critica si tramuta, nel caso migliore, in un esercizio di retorica e stile. Nel peggiore, articola una serie di parole confuse che falliscono nel tentativo di descrivere e trattenere la luce accecante dalle apparizioni.

 

Tale principio metodologico risulta tanto più pertinente se si tiene a mente che lo spettatore dei tableaux vivants incomincia il suo cammino visionario davanti a un esplicito avvertimento. All’inizio del percorso, infatti, si trova a leggere dei cartelli che dicono “Addio al linguaggio” in tutte le lingue del mondo conosciuto. Chi vuole precipitare con piacere nelle visioni di questi artisti deve così sospendere il giudizio critico, la smania di interpretare e l’istinto alla comprensione, che in questo caso ostacolano la conoscenza poetica della natura, invece di agevolarla e di incentivarla.

Meglio è allora provare ad alludere con cautela quel che forse i quattro tableaux vivants intendono suggerire. Non insomma chiudere le visioni in un senso definito, ma cogliere quello a cui aprono o rinviano. L’ipotesi è che esse siano figure che rispecchiano più nel dettaglio il pensiero che la bambina ha sussurrato agli spettatori semi-addormentati: che il mondo sta per finire e che numerosi sono i segni dell’imminente apocalisse, da cui forse potrà derivare una superiore rinascita. Un angelo caduto che si addentra soddisfatto nel bosco è in fondo il segnale che ciò che è in alto sta rovinosamente franando verso il basso e che sta mutando la sua condizione di vita. E l’uomo dorato che scava la fossa per piantare un albero forse suggerisce che qualcosa di nostro deve morire (= essere sotterrato), per far germogliare una diversa creatura vivente. Le visioni allora non argomentano né tantomeno dimostrano nulla. Alludono a un futuro cambiamento di cui per ora non vediamo che qualche avvisaglia.

Di più le visioni dei quattro artisti non pretendono di dire. Sul cambiamento di cui non si può parlare, si deve dunque tacere – e viverlo.

 

Installazioni viventi, Ilaria Drago, ph. di Daniele Laorenza.


Epilogo

 

Ho presentato qui le riflessioni, diverse per stile e contenuti, di due momenti diversi di Inequilibrio. La prima parte si è concentrata sulla morte del mondo piccolo della vita e dell’arte di Giacomo Verde, da considerarsi un maestro di eroica allegria davanti alle molte pochezze dell’esistenza. La seconda ha invece tentato una sintesi della fine del cosmo grande, a partire dalle suggestioni oniriche e visionarie delle «istallazioni viventi» evocate da Cristiani, Drago, Sambati e Di Tanno.

Per una convergenza forse non premeditata, Inequilibro ha aperto un terreno per parlare dell’imminenza della fine dei mondi, di fare insomma una “cronaca delle fini”. Sembra conseguente dedurre che, tra il macrocosmo dell’universo e il microcosmo degli esseri umani, non esista sostanziale differenza. Entrambi sono organismi fragili, mortali e provvisori, ma anche in procinto di subire un decisivo e imminente cambiamento. E il teatro sembra essere un mezzo che registra o misura questa trasformazione invisibile, che la guida intelligentemente verso il meglio.

 

Per approfondire la figura di Giacomo Verde, oltre al materiale già citato nel testo principale, si consiglia:

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