Un viaggio indicibile / Checco Zalone, Tolo Tolo

3 Gennaio 2020

Tolo Tolo arriva al cinema preceduto dal trailer. Che, lanciato a Dicembre, è diventato in pochissimo tempo virale (è stato visto – contando solo youtube – da almeno sei milioni e mezzo di persone). Il video è in perfetto stile Zalone. Prende un tema delicato come quello dell’immigrazione e, noncurante delle prevedibili proteste, ci fa ironia, costruendo un quadretto comico, con il supporto di una colonna sonora nazional-popolare ispirata alla musica italiana di Toto Cutugno, Al Bano e compagnia. In esso, l’immigrato corrisponde al proprio stereotipo: è una scocciatura quando chiede di pulire il parabrezza anche se il vetro è pulito, quando vuole per forza portare il carrello della spesa al supermercato, quando si impunta a fare la benzina al distributore automatico in cambio di pochi spiccioli. Come da copione, però, l’immigrato appare al cospetto di un’altra macchietta altrettanto ridicola: quella di Zalone stesso che dalla presenza dello straniero si sente ossessivamente minacciato, finanche di essere rimpiazzato come amante della moglie. Non sono pochi quelli che hanno protestato di fronte a una rappresentazione di questo genere, prendendola sul serio, ovvero rinfacciando a Zalone di legittimare un racconto anti-immigrati in cui vengono rilanciati, con la scusa dell’ironia, i peggiori stereotipi in tema. Inutile dire che una tale interpretazione sarà smentita dal film, destinato, piuttosto, a far arrabbiare i tanti fan del comico pugliese che da lui si sarebbero attesi, anche per via delle aspettative costruite dal trailer, la presa in giro di un certo progressismo, di sinistra, fino ad adesso suo prediletto bersaglio. 

 

 

La comicità di Checco Zalone ha, infatti, il gusto della profanazione, si bea di scherzare col fuoco, facendo ironia, non di rado crassa, su aspetti sensibili delle identità individuali e di gruppo. Volgarità sessiste (il verso “non me lo so spiegare” della nota canzone di Tiziano Ferro diventa, nella sua imitazione, “non me lo so piegare”), dislalie (chi aveva notato la zeppola di Jovanotti prima della sua imitazione?), sonore sgrammaticature, complici rimandi al peggio della cultura trash televisiva (da Uomini e donne ad Anna Tatangelo fino alle canzoni neomelodiche), vengono esibiti con lo scopo di abbassare (Bachtin) il discorso, di infrangere il velo di inviolabilità del decoro piccolo borghese, oltre i fumi delle apparenze. Ogni battuta di Checco gioca così sullo scarto fra rispettabilità sociale del discorso pubblico (il famigerato politicamente corretto!) e sostanza delle cose, che viene, di regola, messa a repentaglio dalla sua sboccata impertinenza.

 

La comicità di Checco Zalone ha, d’altra parte, però, una doppia faccia perché per dare cittadinanza alle sue battute irriverenti, non le assume in prima battuta ma le mette in bocca a un personaggio, un vero cozzalone (ora un cantante neomelodico, ora il cugino di giù, ora un impenitente impiegato della provincia etc.), troglodita ai margini della società e pieno di pregiudizi della cui inadeguatezza non si può che sorridere. A essere oggetto di satira è, allora, anche il personaggio di Zalone. Che si propone al pubblico come lo stupido perfetto, nella sua incapacità di decodificare, di cogliere al volo, la doppiezza del discorso piccolo borghese, la sua ipocrisia di fondo. “Non lo sapevo neanche io che ero un comico, io canto serio e la gente ridono”, sosterrà a un certo punto in uno sketch. Con le sue battute, al pubblico ludibrio espone, così, in primis se stesso. Ed è proprio la sua adamantina inconsapevolezza, a garantirgli diritto di parola, permettendogli, come è concesso solo allo scemo del villaggio, di dire la (sua) verità.

Ogni qual volta si assiste a uno sketch di Checco Zalone, così, si ride doppiamente, dell’inadeguatezza allo stesso tempo esistenziale e culturale del suo personaggio oltre che del ridicolo del perbenismo altrui. Per questa sua capacità, libera da secondi fini, di prendere in giro se stesso e gli altri, Checco Zalone è amato da tantissime persone.

 

 

C’è, però, una caratteristica che distingue i film di Zalone dai suoi sketch comici. In essi, al contrario che nelle scenette, la condizione di idiota del protagonista viene messa alla prova del viaggio. La partenza dell’eroe, come nelle fiabe del folklore, è per il suo personaggio un’occasione di emancipazione, di trasformazione identitaria. Le convinzioni granitiche dello zotico Checco vengono così, ogni volta, messe alla prova dell’alterità. Ed è, in fondo, a una sana comprensione fra esseri umani appartenenti a gruppi e contesti diversi che tutti i film di Zalone guardano. Perché una tale intellegibilità possa essere davvero raggiunta, sembra suggerire Checco, bisogna correre il rischio di mettersi autenticamente in relazione con l’altro, squarciando il velo di ogni ipocrisia.

 

Arriva, quindi, Tolo Tolo, pellicola d’esordio come regista, arricchita dalla sceneggiatura di Paolo Virzì. Anche in questo caso, il protagonista del film parte. E, ancora una volta, il personaggio di Checco è un idiota, un illuso che pensa di poter mandare avanti un sushi bar, aperto peraltro a spese dei parenti, nel mezzo della campagna pugliese. Non a caso, il sushi bar nel giro di pochissimo tempo fallisce, determinando la rovina dei componenti della sua famiglia e portando il suo ideatore a essere perseguitato da una quantità innumerevole di creditori oltre che dalle due ex mogli.

Esasperato dai debiti decide di lasciare l’Italia e rifugiarsi in Africa, in una specie di villaggio turistico perenne, meta di evasori fiscali e fanfaroni in fuga provenienti da tutto il mondo. È a questo punto che si trova a dover fare i conti con la povertà del contesto in cui si trova. Mentre sta per acquistare una crema per il corpo, il centro della misera città dove soggiorna viene sconquassato da una bomba, costringendo lui e il suo accompagnatore a fuggire. Inizia così l’odissea. Checco si ritroverà costretto a fuggire dall’avanzata di un gruppo di miliziani e, una volta preso atto che i suoi parenti non avrebbero mosso un dito per salvarlo (dato che se fosse stato dichiarato morto, avrebbero potuto ricevere un indennizzo a parziale copertura delle perdite derivanti dal fallimento del sushi bar), decide di tentare il Grande Viaggio. Ovvero, di attraversare l’Africa, mettendosi imprudentemente nella medesima condizione esistenziale di quegli stessi immigrati che, una volta sbarcati lungo le nostre coste, si ritrovano ogni giorno a chiedere di pulire il parabrezza, anche se il vetro è pulito, a volere per forza portare il carrello della spesa al supermercato, a impuntarsi per fare la benzina al distributore automatico in cambio di pochi spiccioli. Inutile dire che questo viaggio, delle cui peripezie cui non vogliamo anticipare altro, farà di Checco – in continuità con gli altri suoi film – una persona diversa, una persona nuova.

 

 

Ciò che, invece, vogliamo sottolineare sono alcune evenienze del momento finale, del ritorno in patria. Intanto, c’è il problema dell’indicibilità. L’enormità dell’esperienza che segna il destino di Zalone e dei suoi compagni di viaggio è indicibile, non si può esprimere a parole, non si può raccontare: viene mostrata agli spettatori ma Zalone, così come i suoi compagni di viaggio, risultano afasici, non sanno da dove cominciare per rendere l’idea. Come Tom Hanks al ritorno dall’isola deserta di Cast Away, il personaggio di Zalone non trova le parole per spiegare l’enormità della sua esperienza. Pertanto, la sacralità esistenziale che da essa promana, secondo Zalone, non può essere compresa dalla politica e men che meno dai media che, in questo gioco, vanno letteralmente per conto loro. Anche tutto il mondo dell’attivismo impegnato nell’accoglienza, con i suoi concerti e le sue danze afro, mostra di non comprendere i fondamentali della questione. Rimane la complicità e il calore delle persone direttamente coinvolte. Rimane la consapevolezza di Checco e degli spettatori testimoni del suo viaggio indicibile. Essi sono chiamati da Zalone regista a ricordarsene ogni qual volta “una mano nera con la pezza” chiederà loro di lavare il vetro anche se il vetro è pulito.

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