Marco Codebò. La bomba e la Gina. Intorno a Piazza Fontana

6 Febbraio 2012

La bomba e la Gina. Intorno a Piazza Fontana (Round Robin Editrice, 2011) è un romanzo sull’attentato del 12 dicembre 1969 a Milano, sulla figura dell’anarchico Pinelli, sulla continuità tra fascismo e Repubblica (valga per tutti la figura di Marcello Guida, vicedirettore del confino di Ventotene durante il ventennio e questore di Milano nel 1969), su un buco nero della nostra memoria storica.

Un romanzo-inchiesta: non documento storico, né denuncia, né collezione di testimonianze.

La struttura è funzionale a ingarbugliare storia e invenzione, a produrre l’effetto di emergenza della realtà nella finzione che Perec ricercava nella scrittura, identificandolo come responsabile del potere dell’arte del trompe l’oeil: quello di sedurci, di costringerci a “guardare ancora”, inducendoci a uno sguardo sulle cose, e a una coscienza di esse, differente.

 

Si tratta di un romanzo a più voci e punti di vista, che attraversa piani di realtà diversi: smarrirsi e confondersi non è difficile, ed è certo nelle intenzioni dell’autore lasciare che le cose producano questo effetto. Alla ricostruzione di momenti del passato si alterna il racconto di indagini e considerazioni successive, e non solo i personaggi di finzione dialogano con plausibili figure storiche, ma diventano anche testimoni cruciali di momenti che la storia ci ha consegnato in maniera incerta o non ci ha consegnato affatto. Anche sui luoghi e i tempi in cui il romanzo è ambientato interviene l’immaginazione: chi è l’interlocutore di Pinelli nel dialogo ambientato a Carrara su processi, verità e narrazione storica? Un Alessandro morto da più di cent’anni che ha scritto un libro di un certo successo su una famosa inchiesta giudiziaria di tre secoli fa...

 

Il narratore, la cui identità ci viene svelata a metà libro, è un occhialuto incaricato nell’Archivio Centrale di Stato, uomo con un passato significativo alle spalle che costruisce il proprio racconto, in cui compare tra i personaggi, raccogliendo il ricordo di un’indagine di uno studente americano e immaginando, metaforica staffetta, che sia un altro studente, sempre americano e narratore a sua volta, a prenderla in eredità, proseguendola. Si tratta di una figura di rilievo, narratore o comparsa che sia, poiché custode, in entrambi i piani della finzione, della possibilità di colmare i vuoti di una memoria senza archivio e di fatti senza testimone.

 

La scrittura riflette il mutare continuo e repentino dei punti di vista e contribuisce a mantenere il ritmo e imbrigliare l’attenzione del lettore: i tratti in cui il narratore interviene in prima persona si mescolano ai momenti del racconto in cui, senza ricorrere ai dialoghi diretti, l’autore gioca a restituire senza filtro pensieri e conversazioni, incastrando una voce nell’altra, cambiando soggetto improvvisamente, inserendo in un flusso unico considerazioni dei diversi caratteri dialoganti, adottando registri linguistici e toni che riflettono l’appartenenza sociale, il carattere e persino la levatura morale di chi li pronuncia.

 

Marco Codebò, autore del romanzo, ha dichiarato in un’intervista che la scelta di aprire il racconto richiamando il famoso “io so i nomi dei responsabili” di Pasolini, fosse legata al fatto che “quella frase rappresenta ancora il massimo di verità a cui si è arrivati su Piazza Fontana: lo sappiamo tutti chi è stato ma non possiamo dirlo. Quindi in realtà non sappiamo un bel niente”.

Ecco, io credo che questa sia la ragione per cui questo romanzo non sia soltanto interessante, ben scritto e accattivante, ma anche importante.

 

È un problema culturale quello che si vuole mettere al centro: è possibile che nessuno ci abbia pensato prima? Oggi alcune verità su Piazza Fontana, e sui responsabili della strage, sono state raggiunte, e dopo l’assoluzione definitiva del 1987 nuove prove sono emerse che renderebbero diverso l’esito di un processo.

Tuttavia la giustizia ha mancato il proprio appuntamento con la Verità e la memoria storica, che di tale verità ha bisogno, non può più fare molto.

Allora è bene se ad assolvere il compito di riannodare i frammenti sia, quanto meno, un romanzo: un esercizio di ricostruzione e memoria che crei una storia possibile senza pretenderla vera, cogliendo l’essenza e traducendola (tradendola) in una forma che lasci emergere, grazie a un uso sapiente della scrittura e della macchina narrativa, quanto l’autore abbia davvero messo mano agli archivi facendoci i conti, quanto davvero abbia percorso, come i due studenti americani, le scale della Sormani a Milano e varcato l’ingresso “alla sinistra dello scalone monumentale” dell’Archivio Centrale dello Stato a Roma.

 

Il libro si chiude con una cronologia, un po’ storica e un po’ no, e la raccolta, fuori da alcune delle cornici, delle voci della vedova e della sorella dell’anarchico Pinelli: voci che questa storia l’hanno guidata, permettendole di sembrare del tutto plausibile e, dopo averle ascoltate, ancora più toccante e urgente.

Districare immaginazione e verità è difficile e non è quello che questo libro chiede: “sciagurato il paese che ha bisogno di romanzi per ricordarsi del proprio passato”.

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