Condotta

4 Febbraio 2013

Inizio febbraio, tempo di scrutini scolastici. Il rituale si ripete, solo lievemente aggiornato dai pregi e dai difetti dell’informatizzazione. Nell’aria volano espressioni consuete, “se si applicasse”, “non ha fatto niente”, “è comunque molto intelligente”, “non capisce”. Si procede alla lettura dei voti, che appaiono proiettati a parete. Si fa qualche commento, ci si avventura sul futuro prossimo degli studenti più renitenti e poi si arriva al giro di boa, ovvero al voto di condotta.

 

E’ questo il momento in cui nel caravanserraglio del “consiglio di classe” tutto può accadere. La disposizione tradizionale oppone gli “inesorabili”ai “clementi” (stranamente limitata la fascia intermedia): i primi inflessibili a far sentire in difetto i non meritevoli, i secondi disposti ad accogliere qualsiasi attenuante. Io, generalmente, non so che pesci prendere. Valutare la condotta (un termine che sopravvive ad una scuola e ad un mondo sepolti dal tempo, ma l’alternativa “comportamento” mi sembra altrettanto deludente) mi imbarazza.

 

Quali sono gli atteggiamenti da “monitorare”(oddio!)? Se uno non mi ascolta mentre  parlo perché sono noiosissimo o perché gli sto antipatico e mi sbadiglia in faccia lo devo penalizzare? Se uno mi interrompe di continuo perché è intellettualmente vivace gli devo mettere comunque un voto basso? Se uno non ha mai aperto bocca perché è timido e senza opinioni sul mondo merita allora il dieci? E poi che misuro davvero con la condotta? Il modo di vestire? L’abitudine al turpiloquio? Lo sviluppo corporeo? Le origini socio-economiche? I vizi pubblici e privati? L’autolesionismo? L’inclinazione a mentire? La melliflua capacità di adulare? Lo charme? Non ci capisco nulla.

 

Così, quando arriva il momento tanto atteso da molti colleghi, o mi diverto a proporre valutazioni inconcepibili (il dieci ai “sospesi”, per esempio), o mi spengo in un languore postprandiale, ascoltando ammirato e irritato gli “inesorabili” che snocciolano malefatte compiute dagli studenti anche nei primi giorni di settembre, ricordando testualmente il dettato delle note disciplinari, ricostruendo scenari familiari, entrando nel privatissimo dei ragazzi (“da quando tale è fidanzato con la tale non ha più la testa per lo studio”). Che precisione! Che zelo da Torquemada! Che forza d’indagine! Che innato senso della giustizia! Che consapevolezza di essere “la misura” con cui disegnare l’etica dell’adolescenza contemporanea! E’ antropologicamente coinvolgente osservare con quale famelica bramosia gli “inesorabili” vadano a caccia della loro “dose di sangue”, finalmente posti nella condizione di poter affondare il coltello nel corpo dello studente (l’uno e l’altro virtuali, fortunatamente). I “clementi”, al confronto, sono di certo meno interessanti. Esagerando in pacatezza, non osano formulare una sentenza basandosi sullo spicchio ridottissimo di vita che gli studenti gli mostrano in classe.

 

Qualcosa di ancestrale, in aggiunta, gli impedisce di essere cattivi fino in fondo, e poi hanno il vizio di ribadire che un conto è la valutazione disciplinare e un altro quella del comportamento. Alcuni, addirittura, chiamando in causa il buonsenso, recuperano tra le pieghe della memoria la propria immagine adolescenziale e ce la fanno anche a ricordare di essere stati ragazzi, magari con problemi disciplinari.

 

Ora, sarcasmo a parte, uno mi sembra il punto decisivo. E’ evidente che gli insegnanti si trovano spesso a dover sostenere lotte improbe  e che talvolta sono davvero posti nella condizione di usare ogni strumento del proprio scarso arsenale per arginare comportamenti insolenti e apertamente delinquenziali. Ma c’è un aspetto che non mi torna. In condizioni di relativa normalità – quanto mai difficile da definire, ma comunque almeno immaginabile – io penso che il dialogo abbia ancora la meglio su qualsiasi atto autoritario. Sono sicuro che l’educazione passi attraverso la parola, l’esempio e il rispetto reciproco.

 

Quanto mi sembra incredibile è che questa fondamentale funzione sia spesso esclusivamente delegata al voto in condotta (e la situazione è peggiorata da quando, dal 2009, il voto “fa media”). Ma perché? Quante occasioni ci sono per richiamare, per sottolineare i difetti, per evidenziare – anche duramente – gli atteggiamenti sbagliati degli studenti durante le ore trascorse insieme a loro, dando però ad ognuno la dignità che spetta a qualsiasi essere umano? Perché, vigliaccamente, affidare il proprio discutibilissimo parere alla silenziosa e rassicurante distanza dello scrutinio?
 

 

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