Marta Dell'Angelo. La lingua non centra...

13 Maggio 2013

Mi è capitato di vedere due ciclisti parlare in silenzio.
Arrivavano da lontano, due sagome in controluce, e a un certo punto si son fermati, uno accanto all'altro, con quel tipico gesto di chi appoggia il piede a terra in punta, spostando il bacino un po' di lato. E hanno iniziato a parlare. Era evidente che stavano parlando perché si guardavano in faccia gesticolando. Quando li ho attraversati, però, non c'erano parole tra di loro, silenzio. Gomiti, spalle, mani, polsi e ascelle, il collo e la testa, e anche il volto con la bocca, il naso e le sopracciglia, tutti insieme in movimento, dialogavano senza parole. Mi è sembrata una magia, un antidoto alle parole, a quelle in eccesso, a quelle rumorose, a quelle acronimiche, inglesizzanti, alle tag, alle consonanti degli sms... quei due ciclisti avevano una lingua loro, quella di chi non sente, e un po' li ho invidiati.

 



Parole, lingua, linguaggio, segni che derivano dalla memoria che ogni giorno si affatica per tenerli insieme. C'è una memoria colta e una primordiale, quella che ci permette di trasmettere e quella che ci permette di comprendere. Che esercizio fa ogni giorno la nostra mente per tener viva la memoria, per mettere tutto in ordine, in relazione, per incasellare tutti i discorsi che leggiamo, sentiamo, facciamo al posto giusto... e quanti ci sembra di perderne per strada, e dunque ci sbrighiamo ad appuntarli, a riascoltarli, a bloccarli in qualche modo. Se poi alla nostra memoria sommiamo quella di chi ci ha preceduto, e anche quei segni esistenti a priori, quelli che alcuni chiamano archetipi, altri idee, altri ancora pre-formazioni, sembra impossibile dargli un ordine. E infatti come si fa a dare un ordine alla memoria, esiste e basta, fa affiorare quel che vuole, rimuove momentaneamente, costruisce, inventa, dimentica per sempre.

 

 

Marta Dell'Angelo è un'artista che invece ci prova a dare un ordine alla memoria. Forse per la prima volta nel suo percorso, ha messo in ordine le cose, col desiderio di mostrarcele o, di sicuro, di mostrarle prima di tutto a se stessa. La sua mostra alla Fondazione Remotti di Camogli diventa così un tuffo nel suo pensiero, un furto del suo sguardo, un pedinamento delle sue ossessioni.

 

 

Marta non è un'artista alle prime armi, ha numerose mostre museali alle spalle, ma se il suo lavoro è sempre stato sottile, puntuale, silente, quasi inafferrabile, per la prima volta, ma sempre senza far troppo rumore, ci presenta il conto...: “Caro spettatore, mi permetto ora cortesemente di inviarti il conto della tua (mia) esistenza”, in ordine, in fila per uno, in modo che tu possa valutare con calma.
Ecco allora foto, pagine di giornale, appunti, oggetti, lenti, specchi, specchietti, vetrini, fogli e cartoni, scatole, buste e pezzi di muro, di carta e di storia, rette, cerchi, ovali... un'autobiografia di tutti, una vita fatta a pezzi, pezzetti, strappi, cocci e frammenti, tutto sullo stesso piano.
Tutta la mostra si basa su questa raccolta di appunti. Il movimento è dall'opera allo spettatore secondo un moto quasi matematico, da prima a dopo, dal basso all'alto. Il ritmo è serrato...
E arrivarono gli accesi gli acuti gli adatti gli agili gli aitanti gli andanti gli anomali gli animosi gli anticonformisti gli ardenti gli arditi gli arrischiati gli atipici gli attivi gli attuati gli audaci gli autentici gli autorevoli gli avanzati gli avventati gli avventurosi gli avviatisi gli azzardati i baldanzosi i bendisposti i bizzarri i briosi i cagionati i cosi i compatti i compiuti i considerevoli i coraggiosi i costanti i creativi i curiosi i decisi i destinati i determinati i differenti...(continua)

 

 

Con queste parole le donne di Camogli hanno recitano un rosario (E arrivarono..., performance 2003) e il video che le documenta impasta l'aria delle loro presenze con i gesti di questi appunti, una mano che indica, una che gratta, un corpo in volo, la lista dei desideri, le curve di schiene e sederi, la luce che fa rumore come la pipì di notte. La prima sala della mostra diventa così uno sito archeologico, quasi polveroso, in cui l'artista cataloga con cura tutti i resti di una civiltà senza tempo, in cui ricostruisce un vocabolario che non si serve di parole, ma di gesti, forme, “formule di pathos”, una lingua incolta e irrazionale.

 

 

Una prima versione di questo vocabolario era uscita nel 2007 come Manuale della figura umana, un capolavoro d'iconologia nato dal desiderio di Marta di ricapitolare tutti quei segni che aveva lasciato nel tempo su libri, foglietti, scritte e immagini, nel momento in cui si era accorta che tutto il suo sentire era rivolto lì, che tutto parlava di corpo, di corpi.

 

 

In mostra questo stesso manuale si svela, diventando trait d'union con l'opera pittorica.
Sì, perché Marta in fondo è una pittrice, anche se la sua pittura è un pretesto, una scusa, è una pittura semplice senza pretese... vedi – dice – io uso passaggi tonali per la pelle che sono sempre uguali, verde, rosa e luce... la mia è una pittura povera. La pittura di Marta Dell'Angelo diventa infatti corpo scultoreo, e lo si vede bene su, al piano di sopra, salendo dal sito archeologico alla quadreria... Eccoli, è qui che li troviamo, ci sono tutti, tutti i suoi corpi. Per la prima volta in dieci anni Marta li ha fatti uscire di casa tutti insieme, grandi e piccoli, di ogni età. E lì è come se si incontrassero per la prima volta. Sono a loro agio, si stirano, si annusano, si alzano, si siedono, si sdraiano, si accovacciano e pisciano. Stanno aspettando, passano il tempo, in attesa. Nella loro densità classica Il fauno, L'Ermafrodita, La polena, e l'artista stessa, sono i personaggi di un mito che si ambienta oggi e che sta per accadere, anzi, che accade proprio di fronte al visitatore, assieme a lui, ed è con lui che inizia il racconto... I quadri, dal fondo bianco, non offrono appigli, non sono storie, sono immagini estrapolate da chissà dove e chi guarda si trova con loro in un'arringa aperta.

 

 

L'artista delega allo spettatore il discorso, che miracolosamente prende vita proprio dal suo sguardo.
Se poi da Camogli ci si sposta di poco, a Genova, per visitare Villa Croce, si trovano le Cariatidi, il fregio di carte con cui l'artista ha coronato lo scalone del museo. Allo stesso modo, anche qui, tutte quelle donne sono fantasmi, privi di tempo e significato, che, al battere del nostro sguardo, iniziano a danzare in un rito pagano che mette in moto la nostra immaginazione. Da un momento di sospensione di memoria e movimento, dalla pausa “non immobile” in cui le incontriamo, nasce subito la storia, una storia che noi riconosciamo perché ci è impressa. Troviamo nonne, sorelle, atlete, divinità, ma anche gambe, braccia e avambracci, ventri gonfi, anche e seni. Tutta la vita del corpo in movimento come fossero personaggi di un affresco di una pittura antica, ma privi di un committente che reclama ordini e menzioni precise. È come se lì potessero entrarci tutte, e aggiungersene, ogni volta, oppure ritrarsi, scomparire, proprio come la nostra memoria tratta le immagini frantumandole e ricomponendole in quadri sempre nuovi.

 

 

Se ci si sposta lungo la scala, le migliaia di fogli che compongo il fregio si agitano, s'inarcano e si arrotolano mentre le figure si muovono e prendono corpo gruppi di amiche o di dee, o anche di sagge progenitrici... sono le immagini che prendono vita.

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