Open Access e politiche istituzionali

Il 4 novembre 2004 i rappresentanti di 71 atenei italiani espressero con la Dichiarazione di Messina il proprio sostegno alla Berlin Declaration per l’accesso aperto ai prodotti della ricerca scientifica. Il 4 novembre di quest’anno, nel decennale della Dichiarazione, i rappresentanti dei nostri atenei hanno varato una Road Map 2014-2018 che dovrebbe tradurre l’impegno preso in una “via italiana” all’accesso aperto. Gli elementi qualificanti di questa Road Map sarebbero il «dialogo istituzionale» e un «approccio comune per l’Open Access» (OA), il sostegno alla cosiddetta Green Road (la pratica dell’archiviazione delle copie digitali dei prodotti della ricerca in archivi istituzionali aperti) e la creazione di una policy nazionale sui temi dell’archiviazione, dell’accesso e del riuso dei prodotti della ricerca, soprattutto di quella finanziata con fondi pubblici.

 

Abbiamo dunque una Road Map per arrivare a policy condivise a favore dell’accesso aperto e, ora, anche una Proposta di costituzione di un’Associazione nazionale per la promozione della scienza aperta, che tra le proprie priorità avrebbe naturalmente anche la promozione dell’OA. Ma come si presenta, a oggi, il contesto accademico italiano? Constatarne l’eterogeneità sarebbe troppo ovvio e nemmeno vogliamo infliggere ai lettori il solito esercizio di censura delle situazioni di maggiore ritardo. Quindi ci concentreremo sui due casi forse più dinamici: l’Università di Trento, che ha fornito il modello di policy agli altri atenei, e l’Università Statale di Milano, che anche sotto la spinta della League of European Research Universities (LERU) ha da tempo adottato una politica di sostegno delle tematiche dell’accesso aperto (lavoriamo entrambi per UniMi: i lettori sono avvisati).

 

Entrambi gli atenei si sono da tempo dotati di efficaci e popolati archivi istituzionali della ricerca interoperabili secondo gli standard degli archivi ad accesso aperto OAI-PMH. A Milano l’archivio istituzionale IRIS-AIR ha la funzione di anagrafe della ricerca ed è interoperabile con le banche dati del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), con accordo di sistema che va nella direzione ora indicata dalla Road Map 2014-18. Sia a Milano sia a Trento, nel 2014 il Senato accademico ha approvato una Policy d’Ateneo sull’Open Access. Di là da qualche lieve differenza, entrambe le policy prescrivono che i ricercatori, non appena ricevono notizia della pubblicazione su rivista o in altra sede di un loro contributo, oppure della sua accettazione da parte di un editore (è il caso, ad esempio, delle monografie), lo depositino, in formato digitale e integrato dei metadati, nell’archivio di ateneo. L’ateneo garantirà l’accesso aperto ai contributi depositati in tutti i casi in cui la normativa sul diritto d’autore e i contratti stipulati con gli editori lo consentano. Ciò significa che, se tutte le pubblicazioni dei ricercatori dei due atenei dovranno da ora in avanti essere caricate nei rispettivi archivi istituzionali, non tutte saranno però rese liberamente accessibili al pubblico.

 

Nondimeno, queste policy presentano due elementi positivi: in primo luogo, prospettano la crescita e l’aggiornamento continui di archivi utili per la valutazione delle attività di ricerca degli atenei; in secondo luogo, spingono anche i ricercatori più conservatori e meno sensibili a questi temi a riflettere da un lato sull’importanza degli archivi istituzionali e di un’efficace metadatazione, dall’altro sui vincoli loro imposti dai contratti proposti dagli editori e sulle possibili conseguenze della cessione totale dei diritti d’autore. Inoltre, anche quando la versione digitale editoriale non può essere resa pubblica, i ricercatori sono comunque incoraggiati a rendere accessibile il full-text dei loro contributi, nella versione approvata dai revisori ma precedente all’impaginazione – soluzione alla quale molti editori, tipicamente, acconsentono.

 

Questi rilievi pongono il problema dei rapporti tra atenei, ricercatori ed editori: è giusto che gli atenei impongano soluzioni specifiche ai propri ricercatori? È opportuno che l’istituzione medi gli accordi tra ricercatori ed editori? Possiamo chiedere agli editori, che perseguono legittimamente scopi commerciali, di sottostare alle policy decise unilateralmente dagli atenei?

 

Per rispondere a queste domande, o per offrire qualche spunto utile a farlo, possiamo dare uno sguardo alle policy sull’accesso aperto di alcune università americane ed europee. La prima è la policy dell’università di Harvard (2010), che prevede che i ricercatori conferiscano all’ateneo il diritto non esclusivo e irrevocabile di distribuire i loro articoli scientifici per qualsiasi scopo non commerciale. Gli articoli sono quindi conservati e resi accessibili in formato digitale nell’archivio istituzionale ad accesso aperto gestito dalla Harvard University Library, DASH, che dal 2010 a oggi ha registrato quasi 4.200.000 download da 234 paesi.

 

La stessa volontà di disseminazione è dichiarata dal Massachusetts Institute of Technology (MIT) come premessa alla propria policy del 2009, la quale di nuovo prevede che i ricercatori conferiscano all’ateneo il diritto non esclusivo di rendere i loro articoli scientifici disponibili ad accesso aperto per scopi non commerciali. Lo stesso diritto può essere trasferito a terzi, posto che gli scopi perseguiti siano sempre non commerciali, e gli articoli sono resi disponibili in formato digitale su un archivio istituzionale ad accesso aperto. L’ateneo, infine, partecipa al finanziamento di un fondo per sostenere i costi di pubblicazione ad accesso aperto; il fondo paga fino a 1.000 dollari per articolo e interviene solo per la pubblicazione in giornali peer reviewed che si conformino a determinati standard sull’accesso aperto.

 

È interessante osservare le reazioni degli editori alla policy del MIT (che l’ateneo stesso documenta sul proprio sito): la maggior parte degli editori – a cominciare dai periodici delle società scientifiche e dagli editori universitari – agisce in full cooperation, ossia accetta che gli articoli dei ricercatori dell’ateneo siano depositati e resi disponibili ad accesso aperto presso l’archivio istituzionale. Alcuni editori invece chiedono ai ricercatori, prima di pubblicare i loro articoli, di ottenere un’eccezione alla policy: il primo di questi editori è Elsevier, seguìto da Wiley-Blackwell che avrebbe dichiarato la propria intenzione di agire analogamente. Le politiche di Elsevier, in particolare, sono oggetto di una pagina apposita del sito, dove si rilevano le conseguenze di quelle politiche per le università e si ricorda come l’editore, negli Stati Uniti, abbia promosso progetti di legge contro l’accesso aperto. Per questo ricercatori di diversi paesi hanno invitato a boicottarlo.

 

Rispetto a quelle di Milano e Trento, le policy di Harvard e MIT appaiono più radicali: Harvard non ammette eccezioni, per gli articoli scientifici dei propri ricercatori, e il MIT, che ammette eccezioni, promuove però la pubblicazione ad accesso aperto con un fondo dedicato; inoltre, correda la proposta della policy di una documentazione sulle risposte degli editori che sfocia in una sostanziale denuncia dei comportamenti del principale editore scientifico commerciale. Complessivamente, i due atenei assumono una posizione più decisa sia rispetto ai singoli ricercatori, sia rispetto agli editori.

 

Una considerazione in parte analoga si può fare rispetto alla policy dell’Università di Lièges, che rivendica il proprio storico sostegno all’accesso aperto. La creazione di un archivio digitale di ateneo, ORBi, e la disposizione che rendeva obbligatorio il deposito in questo archivio risalgono al maggio del 2007. In particolare, i ricercatori devono archiviare su ORBi i dati bibliografici e la copia digitale di ogni loro pubblicazione edita dal 2002. L’accesso al file della pubblicazione, tuttavia, è regolato in conformità con gli accordi sottoscritti dal ricercatore con l’editore al momento della pubblicazione. Come per le nuove policy di Trento e Milano, non vi è dunque garanzia di accesso aperto. Tuttavia, il sistema aiuta i ricercatori a informarsi sulle politiche dei diversi editori (mediante SHERPA/RoMEO) e a negoziare i diritti di pubblicazione con l’editore (mediante la proposta di modelli di contratto e di accordi aggiuntivi ai contratti già sottoscritti). Pochi mesi dopo la prima approvazione della policy, l’ateneo ha deciso che per concorsi e avanzamenti di carriera, per i ricercatori interni, si sarebbero considerate esclusivamente le pubblicazioni depositate su ORBi. Anche in questo caso, dunque, la posizione dell’istituzione è affermata con notevole decisione.

 

Senza pretendere di arrivare a conclusioni definitive, possiamo provare a fare qualche considerazione sulla base delle situazioni richiamate. Se è vero che, nel valutare le policy di Harvard e MIT, bisogna tenere conto che si tratta di atenei dotati di una forza contrattuale proporzionale alla loro reputazione, è anche evidente come l’adozione di policy per l’accesso aperto assai decise conferisca ai ricercatori, nei confronti degli editori, un potere negoziale che i ricercatori singolarmente non avrebbero. Il ricercatore ha un impegno vincolante con il proprio ateneo, che preesiste all’accordo con l’editore, e ciò si traduce non in un’imposizione dell’istituzione sul singolo individuo, ma in un sostegno che questi riceve dall’istituzione nella contrattazione con la parte terza rappresentata dall’editore.

 

Policy di questo tenore, quindi, appaiono vantaggiose sia per gli atenei sia per i singoli ricercatori, ma anche policy più lasche come quelle di Lièges, Trento e Milano sembrano rivelarsi una buona scommessa per gli atenei: propongono una cultura del bene comune anche ai ricercatori meno consapevoli della loro missione e meno attenti ai valori fondanti di una società democratica; inducono a interrogarsi, singolarmente e collettivamente, sulla sostanza della proprietà intellettuale; promuovono la trasparenza e, grazie ad archivi sempre più raffinati e interoperabili, permettono in prospettiva, attraverso un sistema bilanciato (ancora in gran parte da costruire) di dati bibliometrici e valutazione paritaria, di fare emergere eccellenze e criticità, nell’ottica di una migliore distribuzione delle risorse premiali, di una più equa progressione delle carriere e dell’incentivazione del merito.

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