Mattoni afgani

29 Luglio 2015

In un mondo in cui centri e periferie non sono più facilmente distinguibili, la relazione tra forze e processi di rilevanza planetaria e dinamiche locali si fa sempre più complessa. Se gli effetti esasperanti del neoliberismo in termini di instabilità dei mercati finanziari sono stati negli ultimi anni un fatto di cronaca, meno di frequente ci si sofferma sulle sovrapposizioni tra politiche globali neoliberali e forme locali di sfruttamento del lavoro e riduzione in schiavitù. Negli ultimi dieci anni, scavando per motivi di studio e ricerca sotto le macerie simboliche prodotte da interminabili guerre, mi sono spesso ritrovato a osservare “situazioni sociali” che non solo mi spingevano a mettere in seria discussione il processo di ricostruzione dell’Afghanistan iniziato nel 2001, ma gettavano ombre sullo stesso futuro della regione. I “mattoni afgani” rappresentano a buon titolo una di queste situazioni sociali.

 

Rirkrit Tiravanija, Untitled, 2015

 

Il fenomeno dello sfruttamento del lavoro in Afghanistan ha attraversato i (bruschi) cambi di sovranità e regime che hanno segnato la storia del paese. A collegare l’asservimento politico e religioso inflitto, a partire dalla seconda metà del Diciannovesimo secolo, dall’emiro Abdur Rahman e dalla maggioranza pashtun alla minoranza sciita di origine turco-mongola, gli hazara, con dinamiche di riduzione in schiavitù e lavoro forzato nel contesto odierno, vi sono una serie di elementi economici e sociali che rimandano a strutture locali di dipendenza e gerarchie ben consolidate.

 

A partire dal 2001 Kabul ha conosciuto un’esplosione demografica che ha pochi esempi nello scenario globale contemporaneo. Nel corso dei diversi conflitti che per circa trent’anni hanno infiammato questo angolo di pianeta incastrato tra diversi imperi e colonie, milioni di afgani si sono rifugiati in molti paesi del mondo e, in particolare, nei confinanti Pakistan e Iran. Con la caduta del regime talebano nel 2001 molti di loro hanno cominciato a rientrare dall’estero; a questi si sono aggiunti coloro che, dalle altre province afghane, hanno deciso di spostarsi nella capitale dove sono maggiori le possibilità di trovare un lavoro e quelle di intercettare i cosiddetti aiuti umanitari.

 

Oggi si stima che Kabul abbia una popolazione di circa tre milioni e mezzo di abitanti. Questo boom demografico ha sicuramente funzionato da “propulsore” di diversi settori tra i quali spicca l’edilizia. Questo settore include differenti ambiti lavorativi/commerciali che vanno dall’importazione di materiali dall’estero alla produzione locale di mattoni, dalla costruzione alla vendita di edifici. Come ogni altro settore economico, l’edilizia è anch’essa fortemente condizionata dal flusso di fondi stanziati dalle agenzie umanitarie, dagli investimenti internazionali e dalle “politiche militaresche” che hanno pervaso Kabul (ma più in generale l’Afghanistan) dalla caduta del regime talebano a oggi. Ora che i finanziamenti internazionali stanno diminuendo (gli investimenti delle agenzie umanitarie e degli enti intergovernativi seguono i ritmi della geopolitica), il settore dell’edilizia – come altri – rischia di entrare in una forte crisi anche se, girando per Kabul, sono moltissimi i cantieri operativi. Alcuni sono attivi 24 ore su 24: una novità nel contesto afgano, legata a un cambiamento storico caratterizzato dal passaggio da una “economia da bazar” all’affermazione di politiche neoliberiste, in parte collegate all’umanitarismo stesso che può essere storicamente considerato uno dei principali strumenti che i paesi “donatori” (principalmente Europa e Stati Uniti) hanno utilizzato per “esportare” modelli di consumo, merci, esperti, modelli giuridici e politici verso i paesi del sud del mondo. Sebbene i cantieri abbiano una morfologia non uniforme, è possibile evidenziare meccanismi simili come, per esempio, le dinamiche di reclutamento della manodopera. Queste ultime rispettano infatti una tendenza, comune alla maggior parte dei settori lavorativi in Afghanistan, che collega le dinamiche di assunzione a un’economia delle relazioni sociali strutturata a partire dai rapporti inter-familiari. Ciò non toglie, comunque, che le condizioni di lavoro possano essere estenuanti.

 

Come in molte altre parti del mondo, anche nei cantieri edili di Kabul i problemi principali sono legati alla sicurezza dei lavoratori, oltre che alla durata dei turni di lavoro. Ma occorre spostarsi ai margini della città per imbattersi in situazioni di dipendenza estrema, sfruttamento e “cicli del debito”: i forni che producono mattoni. Qui i meccanismi di sfruttamento sono certamente più evidenti soprattutto perché sono molti i bambini che vi lavorano. Si tratta di un lavoro logorante e oltremodo dannoso per la salute dei bambini tra i quali, a causa dei fumi che respirano, vi sono elevati casi di polmonite e infezioni alle vie aeree. Come spiegato in un rapporto del 2011 commissionato dall’International Labor Organization, il lavoro coatto, specialmente per quanto riguarda i bambini, ha una incidenza talmente rilevante nell’industria dei mattoni in Afghanistan da rendere difficile la possibilità di acquisto di mattoni “puliti”. Anche la NATO, per esempio, ha ampiamento utilizzato mattoni fabbricati nei forni dove sono impiegati bambini in condizioni di lavoro estreme.

 

Talvolta i bambini sono l’unica “risorsa familiare” e il loro lavoro è spesso legato a dinamiche di debito (familiare) e di dipendenza da figure che mantengono con determinate famiglie una relazione di tipo clientelare. Pertanto, come in molte altre parti dell’Asia (soprattutto Meridionale), la produzione di mattoni in Afghanistan è fortemente governata da meccanismi di debito/dipendenza. A rendere concretamente funzionanti questi meccanismi partecipano più attori, come il “reclutatore” (jamadar), il “manager”, il “boss” e il proprietario del forno. Nel novembre 2014 ho avuto modo di incontrare diversi lavoratori impiegati nei forni attivi intorno a Kabul. Uno di questi è Ali (il suo nome, come gli altri che seguono, è fittizio), un ragazzo di 18 anni che un giorno mi ha raccontato la sua storia:

“Mio padre è morto quando ero piccolo. Non me lo ricordo. Mia sorella maggiore lo ricorda ma non me ne parla mai. […] Lavoro al forno da sei anni. Forse sette. […] Il fratello di mia madre ha deciso di portarmi qui. Non avevamo da mangiare e lui non poteva continuare a mantenerci. Per i primi quattro anni i soldi che guadagnavo tornavano praticamente tutti al signor Berhuz [il proprietario del forno] per ripagare il debito. Mia madre mi ricordava sempre di continuare a lavorare perché suo fratello aveva bisogno di restituire al signor Berhuz i soldi che aveva usato per coprire il nostro debito con il signor Enam [un commerciante di tappeti, tra le altre cose]. […] Non lo so quanto guadagno ora. Guadagno poco. Devo lavorare così potrò sposarmi. Il signor Berhuz è stato gentile, anche se con lui non ho mai parlato [tutto è stato mediato dal reclutatore]. Ma ha risolto lui il problema con il signor Enam. […] A volte non riesco a dormire. Quando sono molto stanco non riesco a dormire”.

 

Il circuito del debito all’interno del quale Ali si è trovato protagonista in giovane età coinvolgeva lo zio materno, un commerciante, un intermediario (il reclutatore, figura chiave nella relazione di dipendenza che lega il lavoratore al debito) e il proprietario del forno. Stando al racconto del ragazzo, lo zio avrebbe contratto un debito con un commerciante (Enam) per poter garantire un periodo di sostentamento alla madre di Ali e ai suoi due figli. A un certo punto lo zio, tramite un conoscente (il reclutatore, appunto, che in un’altra parte del racconto Ali definisce “persona importante e rispettevole”), è entrato in contatto con il proprietario del forno, Berhuz, che ha saldato il debito con Enam (con cui nel frattempo i rapporti si erano complicati). Ali si è trovato quindi a dover lavorare per Berhuz al fine di ripagare tale debito e onorare la relazione con il reclutatore che ha creato il contatto e fatto da garante.

 

Lida Abdul, Brick Sellers in Kabul, 2006

 

Le catene del debito sono un “carburante” essenziale per un settore come quello della produzione di mattoni e garantiscono manodopera giovane a basso costo in condizioni di lavoro spesso difficili. In un articolo apparso sul New York Times il 15 marzo 2011, facendo riferimento alle storie dei giovani lavoratori impiegati presso i forni afgani, Michael Kamber ha parlato di cicli di debito e servitù. Non è raro infatti che il debito in questione venga venduto/comprato più volte coinvolgendo più membri di una stessa famiglia e aumentando pesantemente gli interessi. Ricevendo un compenso estremamente basso, moltissimi lavoratori non sono in grado di ripagare il debito e rimangono, di fatto, strettamente vincolati alla relazione di dipendenza con il loro creditore. Ho conosciuto personalmente diverse persone (in alcuni casi fratelli, o padri e figli) che nel corso degli anni sono passati da un forno all’altro seguendo letteralmente il debito che li legava di volta in volta al nuovo creditore. Nel suo Debito. I primi 5000 anni l’antropologo David Graeber illustra la profondità storica (e sociale ed economica) del debito, una forma relazionale-basilare di interazione umana carica di condizionamenti e implicazioni morali e fisiche.

 

Suscitano notevole preoccupazione le forme estreme di dipendenza e radicalizzazione del debito che gravano sui lavoratori nei forni afgani, non solo per le pessime condizioni di vita nelle quali questi sono costretti, ma anche per il gioco di specchi che dai forni è possibile ricostruire per comprendere le profonde iniquità che, ancora oggi, dominano l’economia mondiale: “Cosa c’è dopo il debito?” mi ha chiesto con drammatica ironia un pakistano di origine punjab, un uomo migrato in Afghanistan insieme ad alcuni parenti per risarcire un debito con il lavoro nei forni. Quesito difficilmente trascurabile allorché si tenti di capire l’attuale congiuntura economica a livello planetario. Non a caso le reti del traffico di persone a livello transnazionale si snodano in buona parte attorno a relazioni di debito e dipendenza e sono rese possibili da economie morali ed economie finanziarie schiacciate sulla logica dell’accumulazione da un lato e della mancata redistribuzione dall’altro. Partendo dal caso di un ragazzo che vendeva sigarette contrabbandate in un contesto di guerra, Carolyn Nordstrom ha spiegato, in un saggio del 2008 intitolato “Interpretazioni in conflitto. Il ruolo dell’antropologia nell’analisi dei conflitti contemporanei”, che una cospicua parte delle attività commerciali si ricicla “nelle illegalità economiche e che proprio i beni come le sigarette sono i più pericolosi” in quanto, in certi contesti, “dove circolano sigarette illegali si apre un canale attraverso cui poi si può trasferire qualsiasi merce illegale”. In uno scenario di guerra o post-guerra una sigaretta non necessariamente viaggia da sola, ma può viaggiare “con armi, droghe, e bambini costretti al mercato sessuale”. Per Nordstrom l’orfano di guerra che vende sigarette “costituisce un aspetto critico di queste realtà finanziarie globali”. In Afghanistan come altrove, lo sfruttamento del lavoro e la riduzione in schiavitù rappresentano un problema antico. Ma se, almeno in una certa misura, i mattoni sono simbolo della ricostruzione fragile e mal gestita che ha interessato il “dopo 2001 afgano”, più in generale sono una facile metafora per spiegare il costo che paghiamo per costruire, mattone dopo mattone, l’iniquo (e probabilmente ormai insostenibile) sistema economico che continua a governare il pianeta.

 

 

 

Antonio De Lauri svolge ricerche in Afghanistan dal 2005 e attualmente è membro di un progetto finanziato dallo European Research Council, G.A. 313737.

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