Contro il colonialismo digitale. Una risposta

15 Ottobre 2013

Un autore che volesse capire se quello che scrive “funziona” ha diversi “indicatori” a sua disposizione, molti dei quali assai brutali e quantitativi (numero di citazioni, di pagine web che parlano di quello che hai scritto). E anche quelli qualitativi sono un po' rischiosi. Uno va volentieri alla ricerca di messaggi entusiastici, e scrolla le spalle quando trova il post cattivo. Contro il colonialismo digitale è per me un libro sofferto; quale non lo è, si dirà, ma questo lo è stato particolarmente, dato che sono uscito dall'universo descrittivo che mi è più consono per affacciarmi a quello normativo. E se si è normativi su un tema come quello del digitale il pericolo della polarizzazione è fin troppo evidente.

 

Se il libro ha funzionato, mi sembra, è proprio nel fatto che chi si è pronunciato sul tema che affronto non ha concepito la nostra conversazione come un “dibattito”. Cito spesso e volentieri una frase di Chomsky che sostiene che i dibattiti sono istituzioni profondamente irrazionali; per come sono fatti, obbligano i “contendenti” ad arroccarsi sulle proprie posizioni, e difficilmente permettono di fare un passo avanti. A me sembra estremamente importante evitare gli arrocchi, e tanto più in un caso come quello della migrazione verso il digitale. Il digitale non è una fase transitoria, è una realtà con la quale dobbiamo fare i conti con lucidità.

 

 

Gli interventi su Doppiozero mi sembrano tutti orientati alla ricerca di un terreno sul quale fare evolvere le nostre pratiche. Vorrei contribuire indicando alcuni sviluppi; ho continuato a lavorare al problema e a intervenire in vari contesti (inclusa una riscrittura del libro per l'edizione francese), e vorrei condividere alcune idee, legate ai commenti che ho ricevuto.

 

Design del tempo e colonizzazione interstiziale

 

Abbiamo tutti cercato di rubare ad altre attività il tempo per la lettura. Ci portiamo un libro in tasca per approfittare di una coda alla posta o per uno spostamento sui mezzi pubblici (Marco Belpoliti mi ha raccontato che i suoi colleghi gli chiedono come faccia a leggere due libri alla settimana. La risposta è: “Viaggio in treno”).

 

In questo senso gli apparecchi digitali sembrerebbero forieri di grandi promesse. Se ci guardiamo intorno vediamo sempre più gente con gli occhi su un display: persone che leggono – mentre dieci anni fa nei treni sentivamo soprattutto conversazioni orali al telefonino. Ma la questione del tempo diventa cruciale. Che struttura ha il tempo della lettura sui devices? La mia impressione (sono alla ricerca di buoni dati) è che si tratti di un tempo talmente frammentato da non permettere nessun tipo di lettura continuativa e approfondita. Per molte ragioni. I devices sono aperti a decine di canali sociali e informazionali, e le updates sono incessanti e aggressive. Ma soprattutto è in atto una vasta colonizzazione interstiziale.

 

Enrico Manera e Francesca Rigotti ne danno una notevole fenomenologia nei loro contributi. La natura stessa del messaggio pubblicitario online che è la linfa delle attività dei lord digitali richiede tempi brevi. Deve nascere da una transizione temporale ben marcata (che serve ad attirare l'attenzione), e deve far rapidamente posto a un messaggio nuovo. Ci sono moltissimi tempi morti nella nostra vita.

 

 

Attese. Pause. Momenti in cui abbandoniamo l'esecuzione di un compito per guardare fuori dalla finestra. Momenti in cui ci distraiamo per un istante perché le persone che stiamo ascoltando – la professoressa di matematica? – dicono cose che non ci interessano. Abbiamo perso il filo. Perché non occuparli meglio, questi momenti, piuttosto che guardare fuori dalla finestra? Le pubblicità di molti prodotti digitali, il cui leitmotiv è “resta connesso sempre, dovunque”, “le mail ti raggiungono sempre, dovunque”, è sintomatica del tentativo – largamente riuscito – di rendere sempre più difficile una gestione seria del proprio tempo; sia una gestione autonoma, sia una gestione istituzionale.

 

La connettività totale rende saliente, e vincolante, l'agenda altrui. I vostri interlocutori danno per scontato che siate connessi e disponibili sempre, dovunque, si aspettano da voi risposte immediate. Di fronte alla richiesta, perdiamo lucidità; lasciamo che tempi assolutamente essenziali vengano colonizzati, come quelli in cui dobbiamo esercitare un'attenzione vigile nel flusso dell'azione: il texting and driving sta diventando un enorme problema di sicurezza pubblica.

 

Il territorio disputato

 

Per riprendere Roberta Locatelli, (naturalmente) non sono contro il digitale (non so nemmeno bene che cosa voglia dire...), ma contro il colonialismo digitale, che è un'ideologia, la cui tesi principale è che se una pratica può migrare verso il digitale, allora deve farlo. Tutto il libro non è altro che una difesa del principio di precauzione, che si manifesta nella richiesta di guardare e negoziare caso per caso l'introduzione del digitale.

 

Ci sono innumerevoli esempi di migrazioni riuscite – la fotografia – e ci sono esempi di migrazioni cui dovremmo opporci con tutte le nostre forze – il voto online, che spalanca la porta al controllo familiare e mafioso del voto. Tra i due estremi dello spettro c'è un territorio disputato in cui abbiamo i libri e la scuola.

 

Il mio invito è a guardare i processi, le pratiche intorno alla migrazione digitale; a non considerare soltanto gli oggetti, ma la costellazione di attività che sono centrate sugli oggetti. Sono d'accordo sul fatto che si debbano valutare costi e benefici, e non sono affatto insensibile ai benefici della digitalizzazione della situazione di lettura (vedi oltre). Ma bisogna tenere presente i contesti – e credo di non sbagliare se affermo che che alla discussione di Doppiozero partecipino lettori forti se non fortissimi, che leggerebbero approfonditamente in qualsiasi condizione. Il mio problema è, come si diventa lettori forti? Nella situazione educativa cominciano ad esserci dei dati che suggeriscono che la digitalizzazione sia costosa più che benefica.

 

La colonizzazione interstiziale e la scuola

 

La scuola – lo spazio istituzionalmnte più protetto oggi a me noto – è un'ovvia frontiera della colonizzazione. Nell'edizione francese del libro ho cercato di articolare meglio l'idea che la scuola sia un territorio disputato (lo è sempre un po' stata), il territorio disputato per eccellenza in questo momento, proprio perché ha questo immenso capitale tempo sottratto allo zapping.

 

Dal punto di vista della penetrazione commerciale, è un immenso spazio completamente sprecato, è il men che si possa dire; se solo si potessero tenere tutti quei piccoli clienti incollati a degli schermi... In particolare oggi in cui si stanno comunque esaurendo tutte le possibilità di colonizzazione interstiziale del tempo personale (vedi ancora il texting and driving). Vorrei però non venire frainteso su questo punto. La scuola ha certamente enormi problemi indipendentemente dal digitale. Voglio solo sostenere che il digitale non è una panacea, o meglio, che non lo è automaticamente.

 

Bisogna vedere caso per caso se e come funziona, accettare un'atteggiamento sperimentale (come osserva Michele Dantini) e, direi, addirittura istituzionalizzarlo, con vere e proprie sperimentazioni mirate che utilizzano gruppi di controllo per verificare l'efficacia delle innovazioni pedagogiche – digitali o meno. Anche perché la scuola non può dormire su questo immenso capitale-tempo.

 

Giancarlo Pavanello

 

Gli insegnanti sono il motore dell'innovazione pedagogica, e le loro idee sono quelle che cambieranno la scuola. Manca forse una capacità di fare rete dal basso in Italia, cosa che è invece più forte in altri Paesi – vedi La Main à la Pâte in Francia, vero motore d'innovazione pedagogica per la scuola primaria. Conosco qualche inziativa (come il Gruppo per la Pedagogia del Cielo di Nicoletta Lanciano, su temi di astronomia, tanto per fare un esempio), ma mi sembrano sporadiche. Le innovazioni pedagogiche sono spesso sulla linea del fronte, meriterebbero di propagarsi più facilmente.

 

Mi sembra utile cominciare da una lista di buone prassi come ho cercato di fare nel libro, e naturalmente se ne possono aggiungere altre – per esempio spegnere platealmente il proprio cellulare quando si inizia una lezione, come fanno le direzioni delle sale da concerto che affidano questo gesto a un'attore, ho notato che fa il suo effetto; mai sottovalutare la forza dell'esemplarità. O creare degli spazi e tempi specializzati per il digitale, in cui l'uso dei devices viene accompagnato da  spiegazioni sul loro funzionamento (in una logica di opposizione alla cultura del superfluo, come sostiene Francesca Coluzzi).

 

Mi sembra invece importante dare agli insegnanti argomenti per resistere alla colpevolizzazione, che di solito prende la forma di un'accusa di non essere al passo con i tempi. Per questo l'invito principale è ai policy makers: riguardo alla lettura, se non si prendono provvedimenti strutturali, si lascia tutto all'iniziativa individuale di genitori e insegnanti. La scuola nel suo complesso dovrebbe ogni tanto fare una grande riflessione (degli "stati generali") sulla sua missione e sulle sue responsabilità. Non basta chiedere a dei guru di passaggio come adattarsi a inesistenti mutazioni antropologiche, o come adattarsi all'Agenda di Lisbona. Non è facile, ma non per questo è meno necessario.

 

Sullo sfondo di un mondo soltanto sognato

 

Direi che siamo tutti d'accordo sullo scarto tra mondo reale e mondo ideale. Dieci anni fa sognavamo tutti l'avvento prossimo del mondo ideale. Software liberi e aperti, contenuti condivisi, ricerche pertinenti e non inquinate da algoritmi commerciali, eccetera. Non è andata così. Ci sono poche grandi società americane che offrono in maniera più o meno specializzata servizi di vario tipo, dalla ricerca di informazioni alla vendita di ebook e musica e app alla possibilità di valutare e di condividere, eccetera.

 

Inoltre, per la particolare conformazione del mercato, i nuovi devices sono ormai appendici di cloud, e il nostro comportamento online è una manna (insperata?) per gli inserzionisti. Le possibilità di fare degli appartecchi odierni degli strumenti veramente personali sono poche, e sono appannaggio di pochi militanti ed entusiasti. Non sono un complottista o un moralista (notoriamente). Con ciglio asciutto, uno potrebbe dire che il sistema aveva vari attrattori, e l'attrattore monopolistico è assai potente; ed è quello che ha agito. Google ha il monopolio dell'informazione. Facebook quello della condivisione e della valutazione. Twitter quello della comunicazione in tempo reale (negli Stati Uniti le pubblicità alla radio di qualsiasi prodotto si chiudono quasi tutte con la formula di rito “Find us on Google. Like us on Facebook. Follow us on Twitter.”). E via dicendo.

 

Mi sembra semplicemente che non si possa immaginare un discorso su libri, lettura, e digitale a scuola, facendo finta che questa non sia la realtà oggi –  e domani, e dopodomani. Molte discussioni non tengono conto di questo dato. Più che nostalgici del libro di carta siamo tutti un po' nostalgici di una rete che non esiste, che abbiamo soltanto sognato. (Se vi capita di leggere l'ultimo libro di Michel Serres, vedete che cosa intendo per discorsi evasivi su una rete soltanto sognata). Paradossalmente (già mi vedo citato fuori contesto) la vera battaglia negli anni a venire non sarà quella per la protezione del libro, ma per la protezione del digitale, per ridargli una dimensione non esclusivamente commerciale.

 

Il libro di carta e il libro digitale: due insiemi di pratiche assai distinte, e l'illusione del contenuto

 

Kundera e Calasso pensano che il libro non debba migrare verso il digitale. C'è qualcosa da rispettare in questa intuzione, anche se non mi riconosco nel suo estremismo normativo. Direi che l'intuzione è metafisica prima che normativa. Il libro non dovrebbe migrare perché diventerebbe un'altra cosa.

 

L'idea su cui mi pare valga la pena di lavorare è quella dell'illusione di un contenuto intellettuale separato dal mezzo in cui il contenuto viene presentato. La retorica digitale è certo assai orientata in questo senso; si parla di “trasferimento dei contenuti” dal cartaceo al digitale, di “content providers”, ecc. C'è un livello assai astratto in cui il contenuto di un libro cartaceo è lo stesso di quello digitale. Ma le cose sono più complicate se si analizzano le pratiche d'uso.

 

Vincenzo Agnetti

 

In questo senso spunti/critiche molto utili vengono da Dino Baldi e Valentina Manchia. Pur rispettando l'intuizione di Kundera, non sono certamente normativo al punto di sostenere che leggere su digitale non sia leggere. E non ho nessuna difficoltà a immaginare nuove forme di lettura (che non siano la semplice lettura interstiziale) sui devices, e nuove forme di interazione tra cartaceo e digitale. Gino Roncaglia sta riprogettando la versione cartacea del suo ultimo libro in modo da farlo interagire direttamente con uno smartphone; con Maurizio Giri stiamo lavorando a un testo sui suoni la cui versione ebook sembra avere un notevole vantaggio sul cartaceo, al punto da essere l'unica veramente sensata, per via delle decine di esempi sonori che si intendono presentare.

 

Ma questi esempi non contraddicono la tesi centrale, che riguarda il saggio e la protezione della lettura approfondita. Vorrei aggiungere qualche considerazione a questo proposito. Di solito si presenta il libro come una tecnologia della memoria (registrazione) e della comunicazione. Vero, ma non è tutto. Direi che si tratta soprattutto di una tecnologia del riesame. Obbliga chi scrive a dire le cose in un certo modo perché sa che potranno venir riesaminate. La parola in movimento, il discorso orale non dialogico, ha prodotto tutt'altra retorica: far leva sugli affetti e sugli effetti, sorprendere l'ascoltatore, e anche un po' menare il can per l'aia.

 

Lo stesso vale per le immagini in movimento, che sono continue sollecitazioni per l'attenzione e non lasciano il tempo di riflettere. Riflettere presuppone riesaminare, e da questo punto di vista il vantaggio cognitivo, e pedagogico, delle immagini statiche è immenso. Pensare e guardare alla moviola; esercizi di attenzione che diventano sempre più urgenti. (Forse ci ridurremo ad avere l'attenzione come una materia scolastica, come la matematica e l'italiano; una nuova frontiera per le aziende farmaceutiche, probabilmente.)

 

Il punto importante riguarda una volta di più il design (come ricorda Silvio Lorusso). Questo perché la situazione di lettura condiziona inevitabilmente la scrittura. Se, da scrittore, devo immaginare il mio testo letto in competizione attenzionale con banner o app gustose che lavorano interstizialmente, farò inevitabilmente regredire la mia retorica verso una fase orale. Non sono convinto da alcuni dei rimedi proposti.

 

Per esempio Gino Roncaglia propone di lavorare su un design dei devices che protegga l'attenzione, creando dei “tempi di lettura” in cui l'accesso alla rete non è consentito. È certo una strada, ma non credo che ci porti lontano. La tecnologia del riesame è il precipitato di secoli di sottile interazione tra l'oggetto libro e le attività della lettura e della scrittura. Non è un equilibrio che, una volta distrutto, possa venir ritrovato con delle soluzioni rimediali. E non è chiaro se esista un altro equilibrio.

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