#Mobile Art: people have the power?

23 Gennaio 2015

Mai come in questo momento “tenere il mondo nel palmo di una mano”, significa tenere in mano una fotografia. Non un’immagine “cartacea”, l’oggetto fragile eppure tanto potente da essere considerato l’impronta del reale, un frammento spazio-temporale sottratto con un clic dal flusso infinito degli istanti, per divenire l’istante unico da conservare e ricordare. Non solo. La fotografia che teniamo nel palmo della mano è immateriale, fluida, composta da milioni di pixel e visibile su uno schermo. Iperfotografia la chiama Fred Ritchin e nella maggior parte dei casi lo schermo è quello di uno smartphone.

Con la fotocamera incorporata al suo interno o meglio con l’“iPhone camera” ogni utente è in grado di mutarsi da consumatore passivo a produttore di immagini di “Mobile Art”, o meglio si può trasformare in un “iPhoneografo”, trasformando anche il medium, mai come oggi la fotografia diviene un mezzo espressivo democratico e diffuso.

Cosa rende la fotocamera dell’iPhone uno strumento così potente? I fattori sono molteplici. Innanzitutto il fatto che lo smartphone sia presente in ogni istante della nostra vita e quindi sempre disponibile, inoltre è un oggetto “discreto” grande quanto il palmo di una mano che si può mimetizzare facilmente in ogni tipo di situazione (sulla linea del fronte, in una piazza, nel cuore di una foresta) ed infine, anche se non è possibile regolare l’apertura del diaframma o i tempi di posa, si guadagna in velocità.

 

 

Ma la vera rivoluzione è un’altra: la possibilità di condividere le immagini sul web attraverso i social network e la loro diffusione in una rete globale e potenzialmente illimitata: “scattare, elaborare, condividere”, recita il sottotitolo dell’agile manuale Fotografare con l’iPhone di Stephanie C. Roberts, titolo originale: The Art of iPhoneography del 2011, in cui l’autrice spalanca le porte di un mondo potenzialmente accessibile a milioni di individui: l’utopia di un occhio onnisciente si avvicina alla realtà, basta una connessione Wi-Fi e un computer e tutti possono giungere con lo sguardo in qualsiasi luogo.

Non solo una condivisione che mira esclusivamente a produrre “viralità” (per dirla in altre parole: che conta solo sul numero dei like), ma una forma di “scatto” condiviso nel senso di con-dividere un punto di vista, dividere con altri ciò che diviene materia dello sguardo e occupa il tempo della vita, un tempo e uno spazio altrimenti invisibili, ora racchiusi nel palmo della mano.

È questa la filosofia sottesa al progetto chiamato Everyday Africa, una grande piattaforma di fotografia partecipativa, le cui immagini vengono realizzate con i cellulari e postate dapprima su Tumblr e in seguito su Instagram. Nella colonna centrale ci sono le immagini scattate dai fotografi ufficiali, mentre quelle che si trovano nella parte destra e sinistra dello schermo vengono inviate dai numerosissimi followers, che taggano le loro immagini con l’hashtag #everydayafrica.

 

Qual è il principio ispiratore? Il fotografo Peter DiCampo e lo scrittore Austin Merrill, ideatori del progetto lo spiegano: “Come giornalisti nativi africani o che hanno vissuto e lavorato nel continente per un certo numero di anni, pensiamo che l’estremo non sia prevalente rispetto al familiare e al quotidiano”.

L’obiettivo è quello di abbattere gli stereotipi legati al continente africano: non più un luogo afflitto da guerre, carestie, devastazioni, massacri, catastrofi naturali o sconvolgimenti climatici irreversibili, come viene mostrato dai media, che propongono una visione colma di cliché legati alla spettacolarizzazione e all’idolatria del dolore. Su Everyday Africa ci sono volti, persone, storie. Lo schermo dinnanzi ai nostri occhi è composto da un mosaico di fotografie che genera la sensazione di sfogliare un grande album di famiglia, grazie alla narrazione visiva di eventi che possono accadere simultaneamente in diversi luoghi. L’obiettivo viene puntato sulla vita quotidiana: al mercato in Etiopia, in un supermercato di Kinshasa, sull’uscio di casa a Zanzibar, sul volto di un volontario della Croce Rossa in Congo.

Anche la forma della didascalia si rinnova. Non più brevi frasi solitarie e telegrafiche poste quasi per obbligo sotto la fotografia. Cliccando sull’immagine, l’esiguo spazio destinato alla parola diventa spazio condiviso, un “infinito intrattenimento” direbbe Maurice Blanchot, dialogo fra coloro che cliccano sulla foto, la condividono sui social network e la commentano.

 

 

Attraverso Instagram, Twitter o Tumblr è possibile in tempo reale porre domande, sciogliere dubbi e svelare il senso di una realtà complessa che non può essere incasellata in una lettura univoca. I commenti e le informazioni aiutano a capire i soggetti rappresentati nelle immagini: la terra, l’ambiente, gli esseri umani, i loro incontri, le dimore, i gesti.

In questo modo le didascalie-commenti sono fruibili e a loro volta commentabili e linkabili dalle communities di lettori, ma anche dal fotografo, come dal soggetto fotografato e consentono di abbattere le classiche barriere gerarchiche (chi rifiuterebbe la possibilità di porre una domanda diretta al fotografo e ottenere una risposta? O di chiedere al soggetto rappresentato cosa pensa della sua immagine?). Inoltre generano una sorta di “crowdsourcing” fotografica, che conferisce all’immagine un ruolo più intenso e dialettico su una piattaforma multimediale. In questa prospettiva, la fotografia non sarà più un semplice registratore di realtà, ma come afferma Fred Ritchin, una produttrice di realtà e di conoscenza condivisa.

 

Oggi Everyday Africa (nato nel 2012) conta più di 95.000 followers ed ha ispirato molti altri progetti simili in Asia, America Latina, in Medio Oriente, negli Stati Uniti, nel Bronx, in Iran, in Egitto. Nessun aspetto viene trascurato: dalla capacità di un’immagine di cambiare la normale percezione di un luogo, che sia un continente, un paese, una città o un quartiere, alla qualità delle immagini inviate. La fotografa lettone Tina Remiz che coordina Everyday Eastern Europe, afferma che i due fattori determinanti per selezionare i fotografi partecipanti sono “talent” e “personal skills”.

Così come dall’India Thomas Ian Jansen-Lonnquist coordinatore di Everyday Asia, spiega che a differenza di Everyday Africa, il cui scopo è quello di mettere in crisi la visione di un paese perennemente sconvolto da eventi luttuosi, nel caso dell’Asia viene sistematicamente demolita la percezione dominante, che dipinge il continente asiatico come luogo per eccellenza di un esotismo fintamente euforico e colorato.

 

Se tutto questo accade nel web, a settembre del 2014 i fotografi dei diversi Everyday hanno la possibilità di esporre le loro immagini in una grande mostra nell’ambito del Photoville Festival di New York. In questa occasione Peter DiCampo fa una proposta precisa che mira alla regolamentazione delle attività legate ai diversi progetti, come racconta a Olivier Laurent sulla rubrica Lightbox del Time: «Voi ci vedrete uscire da questo incontro con una sorta di dichiarazione, su come noi pensiamo che possa essere impiegata la fotografia realizzata con i cellulari e quali saranno i diritti dei fotografi».

Cosa pensare infine: è questa la vera rivoluzione? People have the power?

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