La luce di Giotto

21 Settembre 2015

La mostra Giotto, l’Italia, a cura di Serena Romano e Pietro Petraroia, allestita a Palazzo Reale a Milano (fino al 10 gennaio 2016), è semplicemente bellissima. Costituisce l’occasione unica per vedere assieme quattordici opere di Giotto (anche se lo stupendo Polittico di Santa Reparata, come sostenne Giovanni Previtali, andrebbe attribuito a “un parente di Giotto”). Perfetto è l’allestimento di Mario Bellini che colloca i dipinti su semplici altari di ferro ossidato scuro e li illumina, finalmente, nel modo più consono ad apprezzarne appieno i colori che si stagliano sull’oro. Le sale sono buie: solo i cinque maestosi polittici e gli altri dipinti brillano come se fossero immersi in isole di luce.

 

 

Così esposti i lavori di Giotto emozionano e quasi stordiscono e, allo stesso tempo, restituiscono un piacere raro e profondo nel vedere: il Figlio che agguanta il mento severo della Madre quasi per attirare la sua attenzione (Polittico di Santa Reparata), oppure le afferra contemporaneamente mento e indice sinistro (si sono salvate solo le piccole braccia che toccano una donna paffuta e perplessa nella Madonna con bambino di Borgo San Lorenzo), o le agguanta l’orlo del collo della veste blu e, unendo la sua manina a quella della Madonna, compone una sorta di magico triangolo (Polittico della Badia), diverso da quello più giocoso disegnato dalle vivaci braccia di un piccolo che sembra tenuto a bada a fatica dalla Madre (Madonna col bambino in trono e i santi Pietro, Gabriele arcangelo, Michele arcangelo e Paolo, della Pinacoteca di Bologna); gli angeli che abbisognano di specchi anneriti per ammirare Dio, come se guardassero un’eclisse (Cuspide dell’Incoronazione della Vergine); l’esile San Pietro crocifisso a testa in giù, quasi con la testa conficcata nella folla che lo attornia, e il velo, che Paulilla aveva prestato a San Paolo per bendarsi mentre lo decapitavano, che torna dal cielo nelle sue mani, planando rigonfio d’aria (nei due pannelli laterali del verso del meraviglioso Polittico Stefaneschi, mai uscito prima dai Musei Vaticani); la sensualità di Maddalena avvolta in un fascio di lunghi capelli rossi che sembrano fiamme o la teatralità, per la chiarezza dei gesti ma anche per quei morbidi panni appesi che sembrano sipari, di una delle più belle Annunciazioni della storia dell’arte (nel lato verso del Polittico di Santa Reparata); i cento volti, tutti diversi nei tratti e nelle espressioni, delle figure di santi e popolani: comparse che danno forza e concretezza ai racconti dipinti...

 

 

Ognuno di questi capolavori della fine del XIII e prima metà del XIV secolo è, e possiede, infatti una e molte storie (e il modo come vengono presentati, nelle didascalie e nei pannelli esplicativi di questa mostra, aiuta a comprenderlo bene).

 

Una storia che torna al punto di partenza è, ad esempio, quella del polittico dell’altare della Cappella della famiglia Baroncelli (nel transetto meridionale della Basilica di Santa Croce a Firenze). Sull’altare è collocata l’Incoronazione della Vergine, firmata da Giotto (“OPUS MAGISTRI IOCTI”), all’incirca nel 1330. Nella tavola centrale, delle cinque che la compongono, c’è un elegantissimo Cristo che incorona sua Madre (avvolta in un identico mantello) che riceve la corona piegandosi leggermente e abbracciando il proprio ventre: una scena solenne e allo stesso tempo delicatamente intima. L’affollamento di figure (soprattutto teste contornate da aureole dorate e angeli suonatori), nelle quattro pale laterali, sembra turbare il dialogo muto tra due figure che paiono un re e una regina, guardati con adorazione da quattro angeli in ginocchio ai loro piedi. Alla fine del Quattrocento il dipinto venne pesantemente sfigurato: probabilmente fu il pittore Sebastiano Mainardi a tagliare la parte superiore e a racchiudere le cinque pale in una cornice rettangolare con decorazioni tipicamente rinascimentali. La cuspide superiore della pala centrale fu ritrovata, nel 1957, da Federico Zeri nel San Diego Museum of Art (che oggi l’ha generosamente prestata). Al centro di questo triangolo mozzato c’è Dio con la barba bianca (un essere più “vecchio e triste” di quello che si ammira nel Dio Padre in trono dei Musei Civici di Padova, dipinto tra il 1303 e il 1305 ca). Sotto di lui, sguazzanti nell’oro, ascendono sei variopinti angeli. Guardano Dio tenendo degli specchietti neri, come si fa per un’eclisse di sole: la luce divina sarebbe anche per loro troppo accecante. Questo straordinario frammento si può ora ammirare accanto al suo polittico nella sala conclusiva della mostra.

 

 

Altra storia è quella del capolavoro (definito giustamente dal suo restauratore e studioso Angelo Tartuferi: “archetipo del polittico trecentesco”), conservato agli Uffizi: il Polittico di Badia (1295-1300 ca), proviene dalla Badia Fiorentina (edificata nel 978 e modificata radicalmente, nel 1285, da Arnolfo di Cambio), che è quella strana chiesa dall’ingresso incerto, in via del Proconsolo, di fronte al Bargello. La Madonna col Bambino sta al centro di una struttura a scomparti, in cui ciascuno di questi è coronato da un doppio profilo trilobato e cuspidato (a ogni punta corrisponde un piccolo tondo con l’immagine di Dio e quella di quattro angeli). È affiancata, a sinistra, da San Nicola (con la mitra e il bastone pastorale) e da un giovane Giovanni evangelista (con il libro e la penna) e, a destra, da San Pietro (con il libro rosso e un’enorme chiave) e un cupo San Benedetto (senza libro della regola, come da tradizione) intabarrato di nero, in contrasto con gli altri colori che si staccano dagli sfondi d’oro. Quei volti, affacciati come a finestre, ci guardano con una severità che è allo stesso tempo umana e sovrumana. L’abilissimo uso dei chiaroscuri, che evidenzia le rughe e le occhiaie, ma anche la perfezione delle facce più giovani, dà a quelle figure un’espressione che sembra arrivar da lontano.

 

Alla Badia fiorentina appartenevano anche i tre frammenti di affresco (Annunciazione; Presentazione della Vergine al Tempio; Frammento della volta; 1305-13010, conservati nei Depositi del Polo Museale Regionale della Toscana) che, nel contrasto con le tavole esposte, lasciano soltanto immaginare che cosa dovesse essere la bellezza dell’interno di quella chiesa con le scene di Gioacchino tra i pastori, su un intenso sfondo blu, o l’architettura possente del Tempio che ospitava la Presentazione della Vergine.

 

La grande arte di Giotto è immediatamente riconoscibile: per come dipinge alcuni particolari (ad esempio: le mandorle degli occhi) e le umanissime pieghe dei volti (come nell’affresco staccato di Due teste di apostoli o santi, del 1315-1320 ca, proveniente da una collezione privata). Ma, soprattutto, per il modo di rappresentare e rendere la luce: Giotto usava i contrasti cromatici per suscitare impressioni plastiche. Tutte sue figure (nonostante il naturale deperimento e i restauri non sempre soddisfacenti) hanno colori che sembrano quasi cantare una luminosità. La luce di Giotto non è soltanto fisica. Come scrisse Giovanni Boccaccio (Decameron, VI, 5), Giotto riportò la luce dell’arte a Firenze: “Avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni (...) era stata sepulta, meritatamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote”. E Lorenzo Ghiberti scrisse nei suoi Commentarii: “Vide Giotto nell’arte quello che gli altri non agiunsono. Arrecò l’arte naturale e la gentileza con essa, non uscendo delle misure. Fu peritissimo in tutta l’arte, fu inventore e trovatore di tanta doctrina la quale era stata sepulta circa d’anni 600”.

 

 

Una mostra come questa dimostra, se ce fosse ancora bisogno, quanto il grande critico Bernard Berenson si fosse sbagliato quando sostenne che Giotto è “un mediocre illustratore”: “un grande tecnico, dotato di una straordinaria capacità di rendere mirabilmente la realtà, di cogliere le espressioni e i sentimenti degli esseri umani, ma non è un pittore còlto, non usa metafore né ha idee originali sulla vita e la religione”, a differenza del senese Sassetta (Stefano di Giovanni): “L’arte del Sassetta è spirituale perché illustra dei valori e degli ideali religiosi, a differenza della pittura di Giotto, che non sapeva innalzarsi sopra alla materialità che voleva ritrarre” (B. Berenson, A Senese Painter of the Franciscan Legend (1909); trad. it. Sassetta. Un pittore senese della leggenda francescana, Electa, Firenze 1946).

 

Il catalogo della mostra è ricco di contributi assai interessanti che mettono bene a fuoco ogni opera esposta. In apertura, la curatrice Serena Romano evidenzia tutte le questioni legate alle date, alla biografia e alla geografia di Giotto, focalizzando due punti: a) Giotto è “il primo artista ufficialmente viaggiatore”; b) Giotto lavorò come “un grande restauratore con la sua équipe”, che dà il nome alla “ditta” (Previtali aveva parlato di “bottega” di Giotto) e la garanzia della qualità, stabilendo protocolli, tecniche e tempi di intervento e lasciando marginalmente liberi i suoi collaboratori nella messa in pratica  e applicazione dei principi-guida durante il lavoro quotidiano. Questo produsse – tra Firenze, Roma, Assisi, Rimini, Padova – un “prodotto riconoscibile”: un “brand con la firma Giotto” che rende abbastanza inutili le discussioni su quanto ci sia di Giotto in ogni dipinto a lui attribuito (persino quando è firmato). Infine, Marco Rossi, con un notevole testo in chiusura del catalogo (Milano 1335-1336. I luoghi di Giotto), aggiunge un suggestivo sguardo che fa sperare in sviluppi futuri, su alcuni edifici limitrofi al Palazzo Reale, dove si tiene la mostra. Giotto fu chiamato a lavorare a Milano da Azzone Visconti e si sarebbe portato dietro alcuni allievi, tra i quali il grande Giottino. Essi avrebbero lavorato nella cappella del Palazzo Visconti dedicata a San Gottardo. Tra i pochi frammenti che si sono salvati, oggi sottoposti al restauro da parte di Anna Lucchini, c’è una crocifissione con la Maddalena ai piedi della croce e vari personaggi (tra i quali un bellissimo giovane frate) “di chiara derivazione giottesca”.

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