Io vado da McDonald’s

27 Febbraio 2016

Alle volte vado da McDonald’s e quelle volte mi piace. Lo dico senza orgoglio, se non con quella patetica fierezza morale di chi sa ammettere le proprie debolezze. Non approvo McDonald’s, trovo anacronistica la sua proposta alimentare e incongrua la sua presenza nei centri storici. Inoltre, se desidero quella particolare esperienza di gusto, ho perfino imparato a ricrearla in casa, migliorata da ingredienti di qualità. Non ho scuse, quindi, eppure, occasionalmente, in pausa pranzo, a Milano, ci vado. Non sono tutto d’un pezzo.

 

Un giorno di ottobre del 2015, sul menu del McDonald’s vicino al mio studio balza all’occhio una novità: il Gran Piemontese, un hamburger fatto col 100% di carne piemontese e con una ricetta più affine alla gastronomia italiana – in sintesi, niente ketchup, né cetriolini, né cheddar fuso, ma scarola e salsa di porcini tartufata. Si tratta, come saprò in seguito, della sporadica riedizione di un’iniziativa del 2013. Non se ne parla nel sito attuale e tutto il materiale disponibile su internet al riguardo risale a quell’anno. Provo il panino e non mi soddisfa. Preferisco di gran lunga le solite opzioni, Cheeseburger, McBacon ecc., perché mi danno quello che in fondo chiedo al ristorante. Quando esce dal suo repertorio classico, McDonald’s mi delude sempre, ma quell’esperienza è stata interessante per altri versi, soprattutto per quello che mi è passato per la testa quando ho letto “100% carne piemontese”. Il processo mentale che allora mi ha indotto ad acquistare il panino, mi induce ora a riflettere sul valore della tipicità in Italia e i suoi nessi con la crescente sensibilità etica ed ecologica dei consumatori.

 

“Se è piemontese”, ho pensato automaticamente in base a una sorta di pregiudizio favorevole, “è senz’altro carne di qualità. Costa il triplo di un cheeseburger e anche questo vorrà dire qualcosa”. Il pregiudizio favorevole aveva anche implicazioni di tipo etico: “Se è piemontese, si baserà senz’altro su una filiera virtuosa.” Più virtuosa, se non altro, di quella dell’hamburger standard da un euro, che comporta enormi costi ambientali e sofferenze degli animali – chi avesse dei dubbi in proposito si legga Farmageddon: The True Cost of Cheap Meat di Philip Limbery (Bloomsbury Publishing, 2014), una inchiesta corposa sugli allevamenti industriali. L’origine piemontese della carne e il prezzo relativamente alto, quindi, oltre a rassicurarmi sulla qualità, hanno facilitato le transazioni con la mia coscienza di consumatore tendenzialmente responsabile.

 

Le denominazioni di origine, in Italia, si associano a nebulose di valori a cui ci rinvia ogni loro ricorrenza, come qualsiasi marchio commerciale. Se dico Mulino Bianco, penso a famiglia, semplicità, bontà, fiducia – oppure, se sono un consumatore astioso: finto rustico, industriale, marketing, olio di palma. Se dico Carne Piemontese penso: roba buona, giudizio generico e denso, in cui vorticano con contorni molto sfumati rurale, mucche al pascolo, no-muccapazza, no-ormoni, no-antibiotici, buona tavola, “quella volta in una trattoria di Alba...”, perfino tartufo come elemento di un contesto di eccellenze locali.

Più tardi, al computer, imparo che si tratta non solo del luogo di origine, ma anche di un tipo di mucca, il fassone piemontese, tutelato da un consorzio (Coalvi) che ha offerto a McDonald’s le sue carni e il diritto di usare la denominazione. Alla denominazione corrisponde un disciplinare dove si definiscono i requisiti per ottenere la certificazione. Se avessi la pazienza di cercare e di studiare questo documento tecnico e un po’ ostico, potrei convalidare il mio pregiudizio favorevole e verificare, ad esempio, se si prevede davvero che le mucche bruchino sui prati. Ma non è questo il punto che mi interessa qui. Il punto è che il pregiudizio è solido e condiziona molti frequentatori di McDonald’s, convinti di fare, con quel panino, una scelta di qualità e relativamente sostenibile, anche se non conoscono il disciplinare di Coalvi, anche se ignorano che aspetto abbia una mucca piemontese e come sia allevata; qualcuno ha persino dei dubbi su dove si trovi il Piemonte.

 

Voglio ora confrontare questa esperienza con quella che propone, si direbbe suo malgrado, un altro gigante della ristorazione veloce statunitense: Chipotle, una catena che offre cibo messicano, soprattutto burritos e tacos, nata nel 1993 e in continua espansione. In alcuni ristoranti la direzione appende alle vetrate un cartello con scritto “Sorry no carnitas” dove si avverte la clientela che non saranno più servite preparazioni con carne di maiale (carnitas). Questo è dovuto, si spiega, ai rigidi criteri di selezione dei fornitori, ispirati a principi di animal welfare: non molti allevatori superano il vaglio di Chipotle, così le scorte sono limitate. Chiunque avesse voglia di approfondire la questione, può trovare sul sito una pagina (http://chipotle.com/carnitas) dove i criteri e i principi sono spiegati chiaramente. Si dice, ad esempio, che la carne può provenire solo da maiali a cui non siano stati somministrati antibiotici, né a scopo terapeutico, né, ancor meno, a scopo non terapeutico. Si dice anche che sono ammessi solo gli allevamenti che garantiscono agli animali abbastanza spazio perché possano esprimere le loro naturali inclinazioni, che non costringono le scrofe in gabbie di gestazione o di parto e bandiscono le inutili crudeltà di altre pratiche convenzionali. L’avviso al di là della sua funzione immediata, ha degli effetti significativi sull’immagine dell’azienda e sul suo rapporto con i clienti. Prima di tutto esibisce il senso di responsabilità di Chipotle (in inglese si definisce tecnicamente Corporate Social Responsibility), disposta a ridurre il servizio pur di rimanere fedele ai suoi principi. In secondo luogo stringe con i clienti un patto morale trasformando la loro rinuncia inevitabile in un gesto di adesione a una buona causa: promuovere pratiche virtuose nell’allevamento dei maiali. Infine invita a compiere un percorso conoscitivo, che l’azienda stessa rende accessibile e veloce grazie a una comunicazione semplice e diretta.

 

Piemontese e carnitas rappresentano due modi molto diversi di raccontare le qualità gastronomiche ed etiche di una filiera. Nel primo caso si fa riferimento all’ampio credito di cui una denominazione certificata gode nella cultura italiana, sulla base di una miscela indistinta di giudizi gastronomici ed etici: basta dire piemontese, alludere a una certificazione e il gioco è fatto. Nel secondo caso, in mancanza di analoghi codici culturali, si fa riferimento a un discorso più articolato che esplicita i principi su cui si fonda una specifica nozione di qualità, che per Chipotle è prima di tutto etica e solo conseguentemente gastronomica. La distanza dalla realtà dei fatti è più o meno la stessa: nessuno dei due messaggi è intrinsecamente più fattuale dell’altro. In entrambi i casi dobbiamo fidarci e credere che i maiali di Chipotle siano allevati davvero nel modo responsabile descritto e che la carne del Gran Piemontese abbia davvero l’origine dichiarata.È molto diverso invece il tipo di connessione con i valori etici di riferimento. Nella comunicazione di Chipotle essi, come si è visto, sono dichiarati in modo esplicito: si sa immediatamente cosa è considerato giusto e cosa sbagliato, cosa è ammesso e cosa no. Nella comunicazione di McDonald’s relativa alla piemontese, invece, essi sono solo implicati dalla denominazione di origine. Si evidenzia la qualità gastronomica delle carni, tenere e saporite, mentre non si fa cenno né alla questione degli antibiotici, né al tema del benessere animale, né ad altri temi legati alla sostenibilità. Solo nella pagina del sito dove si parla della filiera degli hamburger standard, quelli del cheeseburger per intenderci, si parla genericamente di “una particolare attenzione al rispetto del benessere degli animali” e a controlli accurati di qualità. Per tutto il resto ci si limita a dichiarare che la carne proviene al 100% da allevamenti Italiani, presumendo, come accade fin dagli anni della mucca pazza, che questo basti a fornire tutte le rassicurazioni necessarie. E ciò che vale per la carne 100% italiana, a maggior ragione vale per la carne 100% piemontese, cioè tipica, perché nella mia personale percezione e in quella dei molti altri che si lasciano sedurre dai marchi DOP e IGP, il prodotto tipico è frutto di pratiche e saperi antichi che si tramandano in un rapporto equilibrato con la natura e i suoi ritmi. Benché questa convinzione apodittica ci tranquillizzi, né io né gli altri sapremmo spiegare in che senso il prodotto tipico e certificato si possa considerare etico e sostenibile e in cosa consista concretamente questo “rapporto equilibrato con la natura”. Gli antibiotici, per esempio, come entrano nel quadro? Bando assoluto o utilizzo responsabile? Il fatto è che davanti alla tipicità smetto di farmi certe domande: semplicemente mi fido di lei. Roba buona.

 

Concludo. Non si tratta di stabilire se sia migliore il fassone o le carnitas, ma di prendere atto che i due modi di raccontare la qualità di una filiera contribuiscono in misura molto diversa a formare le coscienze dei consumatori in relazione alla sostenibilità ambientale ed etica del cibo che mangiano. Il cliente di Chipotle che si imbatte nel cartello “sorry, no carnitas” è incoraggiato a confrontarsi direttamente con alcune istanze legate al benessere degli animali. Se è sensibile a quelle istanze, il giorno in cui, girellando tra gli scaffali di Eataly a Manhattan, prenderà in mano una vaschetta di prosciutto crudo di San Daniele, gli potrebbe capitare di chiedersi se negli allevamenti da cui la carne proviene si fa uso o meno delle gabbie di gestazione, o si somministrano antibiotici a scopo non terapeutico. L’amico italiano che lo ha accompagnato lì, invece, si fermerà alla denominazione di origine, che collega la vaschetta di prosciutto a un sistema alimentare di cui si fida, basato su produzioni tradizionali e locali certificate. Probabilmente non sa nemmeno cos’è una gabbia di gestazione e non sa nulla dell’uso non terapeutico degli antibiotici, ma le parole di rassicurazione che rivolgerà all’amico americano saranno pronunciate con tono fermo: “Don’t worry, it’s traditional and certified, from a small north eastern region: good stuff”. Poi aggiungerà in italiano: “La prossima volta che vieni a Milano ti porto a mangiare un hamburger di fassone piemontese, sentirai che roba!”

“Dove?”

“Da McDonald’s.”

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