Intervista a Judith Malina

16 Luglio 2013

Sembra molto piccola, su quella sedia a rotelle, Judith Malina, una leggenda vivente, l’allieva di Piscator, la fondatrice del Living Theatre, la moglie di Julian Beck, la rivoluzionaria pacifista, un pezzo di storia del teatro e del pensiero underground americano. Ma, a 87 anni, non ci tiene a farsi imbalsamare. Cammina con difficoltà, ma non ha perso lo smalto carismatico, e neppure una certa aria da pantera, con le unghie lunghissime dipinte di rosa squillante e tanti braccialetti freak. Si scusa per il suo italiano, “un po’ arrugginito”, ma poi, quando inizia a parlare, è precisa, pungente, anche se ogni tanto deve ricorrere all’aiuto di Thomas Walker, un altro del vecchio Living, per precisare i termini.
È tornata in Italia per rappresentare The Plot is the Revolution, uno spettacolo dei Motus, in cui la trentenne Silvia Calderoni come una scolaretta rivisita la straordinaria stagione teatrale e politica del Living, rievocando pezzi di famosi spettacoli come The Brig o Paradise Now, che debordò dal teatro trasformandosi in manifestazione di piazza, con attori nudi e intervento della polizia, al festival di Avignone del 1968. Ricordano la peste di Antigone, un contagio che doveva estendersi dagli attori a tutta la platea, realizzando il teatro della crudeltà di Artaud.

 

 

Lo spettacolo è stato rappresentato davanti al Museo per la memoria di Ustica, quello che conserva i resti del Dc9 dell’Itavia abbattuto da un missile nel giugno del 1980. Il viaggio italiano di Judith Malina è iniziato proprio da lì. Di fronte all’installazione di Boltanski, che raccoglie i resti dell’aereo e li circonda di voci, specchi neri e luci che si accendono e smorzano, un luogo di forte emozione, questa piccola grande rivoluzionaria si tira su dalla sedia, cammina, mostra con dolcezza tutta la sua grinta: “Sono molto colpita da questa grande toccante memoria, triste e importante insieme.  Ti prende, ti porta in una storia tragica. Fa nascere la volontà di scoprire i responsabili, per alleggerire il dolore. Ma, come sempre, temo che dalla verità possano nascere l’odio e il desiderio di rivalsa. Io, come ebrea sopravvissuta all’Olocausto, come portatrice di una storia familiare di orrore, ho lottato tutta la vita contro la violenza. Il nostro nemico è la guerra in se stessa. Dobbiamo credere in un mondo senza armi e non alimentare la spirale della vendetta. Dobbiamo vivere senza odio, anche per quelli che fanno cose che ci danno orrore, che ci fanno piangere. Bisogna eliminare la vendetta, senza cancellare la memoria”. E da qui comincia la nostra conversazione.



Il Living Theatre ha fatto professione di pacifismo da sempre. Che cosa ha lasciato questa compagnia radicale, questa comunità anarchica, alle generazioni successive?


“Il Living non è finito. Continua, come ha fatto in passato, a voler inculcare la speranza. Ora non abbiamo più il teatro a New York, non potevamo permetterci l’affitto, ma la compagnia c’è ancora, fatta in gran parte di giovani. Facciamo molti workshop, discutiamo cose importanti e creiamo spettacoli. Cerchiamo di dare forma drammatica alle idee. Il Museo per la memoria di Ustica è un esempio di come possiamo drammatizzare le idee, renderle reali per la gente. In questo caso, con la ricostruzione dell’aereo distrutto. Così, quando facciamo i laboratori, cerchiamo di aiutare i partecipanti a realizzare le idee in cui credono. Possono essere diverse, ma tutti sono d’accordo che vogliamo la pace e un mondo in cui non volano i missili”.



Qual è il vostro ultimo spettacolo come Living?
“Si intitola Here We Are. Non ci sono sedie nella sala. Non vogliamo spettatori ma partecipanti. Li aiutiamo a realizzare i loro sentimenti, le loro speranze. Loro possono prendere decisioni anche fuori dalle regole, visionarie”.

 

 

Come racconteresti la storia del Living Theatre?

“È troppo lunga da rievocare. Adesso ho 87 anni e cerco di non ricordare tutto il passato. Sono più interessata al futuro, a cosa possiamo fare contro gli abusi, per eliminare la sofferenza”.



Come lo vedi il futuro?

“O distruggiamo tutto o disarmiamo tutto. È una scelta, e noi che lavoriamo nell’arte, nell’educazione, nell’informazione siamo responsabili di fare la scelta giusta e non quella distruttiva. Siamo in equilibrio tra distruzione e cambiamento, e noi vogliamo il cambiamento”.

 

Antigone

Parliamo dello spettacolo, The Plot is the Revolution? Qual è la trama della rivoluzione, il filo rosso che percorre questo racconto tra la storia del Living e il presente?
“Silvia Calderoni e io ci siamo incontrate perché entrambe a nostro modo abbiamo interpretato Antigone. Mettiamo in scena nello spettacolo anche la nostra vita, cosa abbiamo scoperto, cosa abbiamo scelto, la nostra posizione nel teatro, se deve essere intrattenimento o mutamento. Apparteniamo a due generazioni diverse. Ma nonostante questo proviamo a dimostrare che ci sono punti importanti sui quali lavoriamo insieme. Tutti vogliamo la pace. Noi insistiamo dicendo che è sempre possibile”.

 

Chi è Antigone?
“Nello spettacolo confrontiamo la sua Antigone e la mia. Lei piange, la mia non piange mai, è troppo testarda. Ci chiediamo cosa vuol dire oggi essere Antigone. Io credo che Antigone è dentro tutti noi quando rifiutiamo di fare ciò in cui non crediamo, quando diciamo no, anche quando la legge minaccia di punirci. Siamo tutti Antigone: qualcuno vuole fare solo piccoli passi, altri grandi salti verso il cambiamento più radicale. Ma tutti contribuiscono a rifiutare il ruolo nelle forme della vita sociale”.

 

Paradise Now

 

Che cosa è stato il Living Theatre?
“Sempre la lotta per l’azione, per dare potere agli spettatori. Ora li chiamiamo partecipanti, sempre di più il nostro teatro diventa esperienza in cui i partecipanti possono far sentire il loro potere di cambiare, con la speranza che quando finisce lo spettacolo portino fuori il bisogno di opporsi a ciò che è contro il loro sentimento e il loro desiderio”.

 

Voi siete stati a lungo in Italia, dai primi anni ’60 fino a oltre il 2000. Come sono cambiati il teatro e la società italiani, a vostro avviso?
“La società è cambiata molto. I giovani sanno che il sistema convenzionale non funziona e vogliono trasformarlo. In teatro è più difficile da dire. Il pubblico accetta di partecipare, non rifiuta di entrare in azione. Il teatro può sperimentare senza paura del rifiuto degli spettatori. È un’arte aperta. È cambiata grazie a gruppi come Motus, il Living e altri, e ora accetta di partecipare”.

 

 

Un tempo, quando siete arrivati in Italia, i vostri spettacoli provocavano. In Misteries and Smaller Pieces la lunga immobilità assoluta di un attore scatenava reazioni di intolleranza nel pubblico. La peste dilagava tra le poltroncine, spesso suscitando reazioni di rifiuto. Adesso i vostri spettacoli dividono ancora?
“Eravamo forse più aggressivi, allora. Dicevano al pubblico: è vostra la colpa se non possiamo fermare la guerra. Oggi siamo più dolci: vogliamo piuttosto incoraggiare la possibilità di entrare in azione con noi.”

 

Paradise Now

 

Eugenio Barba qualche anno fa parlava del suo storico gruppo, fondato nel 1964, l’Odin Teatret, come di un “fantasma”. Voi, nati alla fine degli anni ‘40 come vi considerate?
“Io sono contro la finzione. Noi cerchiamo i livelli più profondi di realtà, ci concentriamo sul cambiamento della realtà usando certi aspetti della finzione come metodo. Eugenio Barba ha gli stessi desideri ma metodi e tecniche diversi per raggiungere questo scopo. Io sono interessata piuttosto al futuro. Ma, in realtà, noi non abbiamo né passato né futuro, solo questo momento in cui viviamo. In teatro possiamo progettare il domani, possiamo studiare il passato, ma abbiamo solo il presente. In The Plot is the Revolution parliamo dell’importanza di ADESSO, dell’importanza del momento vivente. Il passato è fatto da un sacco di menzogne, del futuro non sappiamo niente, abbiamo solo il momento presente”.

 

Frankestein

 

A cosa sta lavorando in questi giorni?
“Sto scrivendo due pièce. La prima per il Living. Si intitola No Play to Hide, non c’è posto per nascondersi. Vogliamo confrontarci con l’adesso, e quando ci nascondiamo rifiutiamo questa realtà. Nella vita normale ci nascondiamo in continuazione, dalla polizia, dalla famiglia, dalla mamma, da noi stessi… L’arte spesso è usata per nascondere la realtà, e noi vogliamo invece rivolgerla a smascherarla. Col Living stiamo rappresentando Here We Are, in cui facciamo anche qualcosa di utile. Ogni spettatore modella sandali per il proprio piede e poi balla in quei sandali… Creiamo così un ponte tra la vita pratica, in cui facciamo scarpe, e la vita artistica, in cui lavoriamo in teatro. Ho sentito che qualcuno quei sandali poi li usa normalmente o li ha esposti, per provare che sa fare qualcosa di pratico e per dimostrare che la pratica è poetica”.

 

Julian Beck


“Lo sto scrivendo per il posto dove sono andata a abitare, una casa di riposo per artisti nel New Jersey. È uno spettacolo sull’età, su perché la società non ci lascia essere vecchi. Non piacciamo, perché credono che non siamo forti, intelligenti, che non possediamo una nostra visione, una nostra energia, un nostro pensiero, un nostro sentire. Invece siamo più saggi, abbiamo più compassione, sappiamo di più sulle relazioni umane. Possiamo contribuire alla società con risorse che la società non conosce. Si intitola Il trionfo del tempo e racconta anche di come sono più saggia ora che ho 87 anni di quando ne avevo 80”.

 

Julian Beck, Judith Malina

 

Chi era Julian Beck?
“Julian Beck rimane un grande ispiratore del Living Theatre e di molti altri, perché lui ha avuto il coraggio di andare oltre le frontiere. Lui era pronto a rompere ogni limite. Ha vissuto senza confini. Ma naturalmente non è possibile vivere totalmente senza limitazioni, e allora lui è stato in grado di confrontare la limitazione con l’idea di romperla, di andare più lontano, con gli esperimenti più pericolosi. Se siamo molto pacifisti possiamo fare cose più pericolose perché non vogliamo mai dare male a nessuno e quando non vogliamo dare male possiamo sperimentare tutte le possibilità. Lui ha avuto questo coraggio nella sua lingua, nella sua azione, nella sua personalità, nel suo teatro, e noi vogliamo essere ispirati da questo spirito”.

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