Di profilo: le dame del Pollaiolo

28 Marzo 2015

Una frase orgogliosamente mormorata rompeva, a tratti ma con frequenza, il silenzio generato dalla contemplazione dei quattro magnifici ritratti:

La nostra l’è la püsè bela.

Al Museo Poldi Pezzoli erano esposti, riuniti per la prima volta, perché normalmente conservati in diversi musei del mondo, i quattro misteriosi volti femminili che la tradizione vasariana attribuiva al maggiore dei due fratelli del Pollaiolo.

 

Le dame del Pollaiolo, in mostra al Museo Poldi Pezzoli, Milano 2015

 

Firenze, 12 agosto 1470. Piazza della Signoria

Un battito cadenzato di martello risuonava, ritmico, per via Vacchereccia, nel quartiere degli Orafi, giungendo a turbare perfino la limitrofa e tranquilla Piazza della Signoria. Mastro Antonio Benci (detto del Pollaiolo a causa dell'attività del padre Jacopo, mercante che aveva negozio nella piazza denominata dei Pollaioli al Mercato Vecchio) era sicuramente all’opera nella sua bottega-fucina, intento a forgiare qualcuna delle sue famose opere in bronzo, in argento o in oro: candelieri, fibbie di cintura, reliquiari, elmi da parata, croci, finimenti da cavalli, posate di lusso, rilegature di vangeli, tutti quegli oggetti, insomma, che la sua nutrita committenza di nobili e di prelati gli richiedeva. Quella mattina le sue martellate si susseguivano energiche, quasi rabbiose, segno che doveva essere piuttosto infuriato. E non c’era da stupirsi. Antonio, infatti, aveva un carattere sanguigno e impetuoso, facile all’ira, che, quando deflagrava, lo faceva assomigliare sempre di più al dio Vulcano, con il quale condivideva non solo la professione ma addirittura l’indole. Quel giorno, però, l’artista aveva un ottimo motivo per essere adirato. Il suo giovane  fratello Piero, infatti, minore di lui di circa dieci anni, dopo aver assolto il periodo di apprendistato previsto per legge, anziché iniziare il mestiere continuando ad aiutarlo ad evadere le commesse che piovevano copiose sulla bottega di famiglia, si era messo in testa di aprirsene una propria per dedicarsi alla pittura.

“Alla pittura!” urlò Antonio, percuotendo un ennesimo, furioso, colpo di martello sul ricciolo del malcapitato piedestallo appena estratto dalla forgia. “Come se non ce ne fossero già abbastanza di pittori qui a Firenze!”   

 

I due fratelli, sebbene legati da profondo affetto, erano artisticamente piuttosto dissimili, per non dire opposti. Antonio non amava la pittura, prediligendole piuttosto la scultura o il disegno. Modellava la creta e lo stucco, fondeva sculture in bronzo e incideva lastre di rame da cui traeva stampe e poi disegnava moltissimo, per sé ed anche per altri, soprattutto per gli artigiani ricamatori e intarsiatori. Quando raramente gli accadeva di dipingere, dava vita a scene cariche di pathos, dinamicamente dominate e stravolte da sentimenti estremi, coi volti dei protagonisti dai lineamenti contratti, quasi maschere di fatica o di sofferenza, i muscoli dei corpi – meglio se nudi – tesi nell’azione fino allo spasimo. Piero invece preferiva dipingere e non gli piaceva scolpire. Nelle sue opere, a differenza che in quelle del fratello, l’azione appariva rallentata e i moti interiori pacati se non addirittura assenti. Ciò che lo avvinceva di più era la luminosità che aveva scoperta insita nella pittura fiamminga, insieme alla maestria che vi vedeva esibita nel controllare al contempo sia l’insieme che i dettagli. Era affascinato soprattutto dal magico splendore delle gemme, dai bagliori improvvisi degli ori e dalla minuzia descrittiva con cui erano rese le stoffe, i raffinati broccati e i velluti iridescenti che parevano gareggiare in cromatismi con gli opulenti scenari naturali in cui erano immerse le persone e le cose.   

 

Poiché le incomprensioni con il fratello perduravano, protraendosi ad oltranza, non appena divenuto ‘maestro’, Piero si era quindi risolto ad aprirsi una bottega tutta per sé, scegliendo un piccolo magazzino vicino a casa, in pizza degli Agli, poco discosto dal battistero di San Giovanni. Non era un ambiente vasto, ma neppure angusto. Per eseguire soprattutto ritratti di dame, in fondo, gli sarebbe occorso poco spazio, visto che il più delle volte i padri o i mariti di queste lo chiamavano a ritrarle presso il loro domicilio.

Le commesse che riceveva, infatti, consistevano per lo più in piccole tavole nuziali, ritratti di giovani spose dell’alta borghesia o della piccola nobiltà. Non gli era ancora mai capitato di ritrarre personalità famose o influenti. Ed era anche per questo che Antonio si arrabbiava.  

“Un Pollaiolo deve sempre mirare in alto” gli ripeteva continuamente “lasciando agli altri le commessucole”.

Quasi tutte le modelle di Piero erano bionde, dall’incarnato diafano e dal collo lunghissimo. Preferiva ritrarle di profilo, alla maniera della medaglistica romana, ma col busto lievemente ruotato di tre quarti così da far loro acquistare volume e monumentalità ma senza alterarne l’astratta purezza e la limpida bellezza.

 

Anche quel giorno aveva litigato con Antonio e ora anelava solo a un poco di tranquillità. Accelerò il passo. Sarebbe rientrato subito nella sua bottega, a portare a termine la tavola a cui stava lavorando e che avrebbe dovuto consegnare a breve. Si trattava del ritratto di una giovane fanciulla fiorentina che sarebbe andata sposa ad un nobile milanese, un tal Giovanni Barbiano di Belgioioso, conte di Cunio.

Poiché il padre della ragazza, committente dell’opera, era molto ricco, sebbene non aristocratico, aveva voluto che la figlia indossasse una veste preziosissima, composta da un corpetto di velluto verde, da cui spuntava il bordo di una camicia bianca, con le maniche di broccato bouclè, appositamente tessute nella manifattura di Messer Palla Strozzi, in contrada San Martino. Ad essere particolarmente costosa, insieme alla trama composta da fili d’oro zecchino, era la tonalità rosso-vermiglia tendente allo scarlatto che era stata impiegata utilizzando il chermes, un rarissimo colorante ottenuto per essiccamento del corpo di una cocciniglia, generalmente usato per tingere le vesti cardinalizie. Anche i magnifici gioielli che le ornavano il collo e l’acconciatura erano di produzione fiorentina, realizzati con perle e rubini, chiaramente allusivi della simbologia matrimoniale: purezza virginale e passione amorosa. Del medesimo verde del corpetto era il cordoncino di seta che le tratteneva la massa di capelli, raccolti a crocchia sulla nuca, cui si agganciava il velo di organza trasparente teso a coprirle le orecchie, quasi invisibile perché della medesima tonalità del suo incarnato pallido.

 

Da sinistra: Piero del Pollaiolo, Ritratto di donna di profilo (Milano, Museo Poldi Pezzoli); Piero del Pollaiolo, Ritratto di donna di profilo (Firenze, Galleria degli Uffizi)

 

Da sinistra: Piero del Pollaiolo, Ritratto di donna di profilo (New York, The Metropolitan Museum of Art, Bequest of Edward Harkness, 1940); Piero del Pollaiolo, Ritratto di donna di profilo (Berlino, Staatliche Museen, Preußischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie)

 

Milano, 20 gennaio 1858, Corsia del Giardino, residenza dei nobili Poldi Pezzoli,

Ogni sera, prima di andare a dormire, anche se era molto tardi, di ritorno da un concerto alla Scala, da una cena tra amici, o da un’avventura galante, Gian Giacomo non mancava mai di passare a salutare la “Sua Dama”. Sebbene la fanciulla che vi era effigiata fosse un’illustre sconosciuta, non lo era per lui. Amava quel ritratto, di un amore quasi fisico, se non fosse stato giocoforza spirituale. Per questo non si sarebbe mai sposato, preferendo le frequentazioni occasionali  – o, perché no? – un amore clandestino, ad una sposa che non fosse stata simile alla sua donna ideale, vestita, per giunta di bianco, rosso e verde, i colori dell’amata bandiera.

 

Quando, dieci anni prima, esiliato dai dominatori austriaci a causa del patriottismo che gli batteva in petto per l’auspicata nazione italiana, aveva lungamente vagato, ramingo, per l’Europa, da Londra, a Parigi, da Lugano a Firenze, gli era capitato di ammirare, nelle collezioni d’arte di alcuni suoi nobili amici, altre misteriose dame, sicuramente dipinte dalla medesima mano che aveva ritratto anche la sua. Allora in lui si era subito acceso prorompente il desiderio di vedere riunite quelle tavole disperse, almeno per una volta, un profilo accanto all’altro, così da potersi beare della loro grazia e della loro sublime bellezza.  

Il suo era solamente un sogno, ma prima o poi era certo che avrebbe trovato realizzazione, insieme all’altro, ben più grande, della sua patria finalmente unita.

E, con queste certezze nel cuore, andava finalmente a dormire.

 

Nota: Gian Giacomo Poldi Pezzoli non si sposò mai, sebbene si narri che abbia mantenuto per tutta la vita una liaison con Giuseppina Parravicini, moglie di secondo letto di Francesco Cavezzali, dalla quale pare sia nata una figlia, Camilla, avola della futura Camilla Cederna.

Che la sua scelta di celibato sia ascrivibile all’amore per il ritratto di dama è una pura licenza narrativa, come lo è la retrodatazione dell’acquisizione del quadro, avvenuta, in realtà, solo nel 1875.

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